Carla Spinella su Antonia Pozzi (Bookcity Milano, 25.10.15 nell'ambito di Saffo e le altre)

Ho conosciuto la poesia della Pozzi verso gli inizi degli anni Settanta quando già mi ero formata (o meglio mi ero fatta l’orecchio) con la lettura attenta e partecipe soprattutto di quelli che sarebbero stati i miei grandi maestri: Saffo tra i greci, Terenzio e Virgilio tra i latini, e, per quel che riguarda la letteratura italiana, Dante Alighieri e Ariosto tra gli antichi; Leopardi, Pascoli e D’Annunzio tra i moderni; Ungaretti e Montale tra i contemporanei.
Inizialmente fui spinta dal caso, da un verso (“Vivo della poesia come le vene vivono del sangue”, ) e dalla curiosità, soprattutto umana, a leggere Antonia, che, complici prima la sua giovane età, poi la guerra, nonché le manovre falsificatorie del padre dopo la sua morte, per lungo tempo era stata misconosciuta, malgrado le sue amicizie di alto livello.
Gli anni ‘70 erano quelli in cui, alla poesia(che scrivevo già da più di un decennio) io cominciavo a dedicarmi con più alta consapevolezza pur non avendo, forse, ancora una precisa identità poetica; e anzitutto fui colpita dalle affinità letterarie tra di noi: il suddetto verso su cui tuttora si fonda il mio interesse per Antonia, le sperimentazioni sulla costruzione dei versi e, in particolare, la frequenza con cui, come nelle mie, ricorrevano nelle sue liriche le metafore, come, per esempio, quella dell’autunno, che, per lei, morta giovanissima, per me giovanissima vivente, allora era la metafora non dell’età, ma di uno stato d’animo.
Ora che il tempo mi incalza, so che i giovani procedono spinti da una ostinata e intensa ricerca del vero, ma del vero “altro” rispetto a quello degli adulti (i quali sono troppo presi dalla necessità di creare e mantenere una famiglia e dal desiderio di affermarsi socialmente); e inoltre da una precisa volontà di oltrepassare i confini per arrivare “altrove”, forse per toccare l’infinito (altro elemento comune a tutti, probabilmente, ma sicuramente a noi due, le poete). Però capisco anche che la presa di coscienza dell’impossibilità di sfiorare l’altrove rende ogni giovane – almeno i giovani più sensibili – infelice , malinconico; e così è successo anche ad Antonia.
Quindi, i temi di cui parlerò o che mi limiterò a evidenziare, citando integralmente le poesie relative o parte di esse, saranno, tra i tanti possibili, il valore e la funzione della poesia, l’autunno come stato d’animo, la forza attribuita all’amore e le reazioni spirituali e fisiche a questo sentimento, il rapporto tra vita e natura, la religiosità.
Ma prima è necessario dare alcune notizie sulla vita di A. Pozzi.
Nata di martedì (ed è quanto dire se si ricorda il proverbio “Di Venere e di Marte non( ci) si sposa e non si parte”), il 13 (e anche questo è un elemento che fa riflettere: per molte persone il 13, come il 17, porta sfortuna), di febbraio (un mese corto, triste , claudicante), nel 1912, mentre già soffiavano i primi venti della grande guerra, in una città come Milano, dove ogni brezza si percepiva al suo primo soffiare. La sua famiglia apparteneva all’alta borghesia lombarda: precisamente il padre era Roberto Pozzi, brillante, valente e ricercato avvocato milanese e la madre la contessa Lina Cavagna Sangiuliani, figlia del Conte Antonio Cavagna.
I genitori amavano molto quest’unica figlia timidissima, da piccola molto carina, da adulta sempre timida e, per di più, un po’goffa, e in ogni fase della sua breve vita, sensibile e molto intelligente; ma erano tutti presi dalla vita mondana e inoltre schiavi dell’ipocrisia che fioriva e si sprecava nei salotti bene dell’alta società milanese.
Alla nascita le fu imposto come primo nome quello del nonno materno, il già nominato conte Antonio Cavagna, nobile, coltissimo, storico apprezzato, amante dell’arte. La nonna materna, che Antonia con grande tenerezza chiamerà Nena, era nipote di Tommaso Grossi, ed ebbe con la nipote un tenero e intenso rapporto d’affetto. Tutto ciò per dire che Antonia crebbe in un ambiente colto e raffinato dove la sua intelligenza e il suo amore per l’arte ebbero agio di formarsi e fiorire. La sua sfortuna fu anzitutto quella di avere un padre particolarmente autoritario che l’amava e l’ammirava molto, ma solo se lei si mostrava ubbidiente e arrendevole; e, ovviamente, anche quella di essere nata in tempi sbagliati e inadatti alla sue febbrile sensibilità.
L’anno fondamentale della sua avventura umana fu il suo diciassettesimo durante il quale cominciò sia a scrivere il diario e poesie lievi, in cui si evidenziava una natura inquieta, insicura e alla ricerca di proprie motivazioni alla vita; sia a scattare fotografie sempre più belle, sempre più intrise di un sentimento che lei sola, col suo obiettivo, sapeva cogliere nelle cose , nelle persone, nella natura, per assicurare loro quell’eternità che il reale non lasciava neppure sperare. Infatti la realtà era caratterizzata da una provvisorietà terrificante e inibitoria per lei che, pur avendo uno spirito religioso, non aveva il dono della fede. Il tragico e precoce epilogo, che le impedì di completare la propria formazione globale, ci spiega perché Antonia Pozzi riuscirà a raggiungere la piena maturità artistica nel settore della fotografia piuttosto che nella scrittura.
In questo periodo si verificano altri due eventi importanti: le prime passeggiate in bicicletta e le arrampicate sulle Grigne a partire da Pasturo, dove la famiglia ha una casa e dove Antonia ha tempo per leggere senza tregua: l’amata letteratura classica (con lo splendore dei suoi miti), la moderna [in particolare Dostoevskij, Lawrence, Joyce, Rilke, D’Annunzio, Pirandello, Borgese, Flaubert, (la cui opera è oggetto della sua tesi di laurea, pubblicata dopo la morte di Antonia).Tali letture si traducono in poesia, spesso asciutta e dura, altre volte sommessa e delicata. Terzo evento determinante è l’innamoramento: Antonia , tormentata e incapace di decidere, tanto da definirsi in una lirica “capriolo pauroso che disegna di piccole orme la neve”, avverte la necessità di essere guidata, per non smarrire definitivamente il sentiero di cui intuisce la presenza alla fine di quel bosco intricato che per lei è la vita. Così il suo intenso e vibrante bisogno di amare si rivolge a una persona che ammira molto, al suo professore di latino e greco, Antonio M. Cervi, di aspetto modesto, ma coltissimo ed entusiasta dell’insegnamento, tanto da essere completamente dedito ai suoi allievi ai quali dona libri di vario tipo che ritiene idonei ad ampliare e approfondire la loro cultura. Un uomo che per di più, agli occhi di Antonia, ha il grande merito di saper lottare per conquistarsi il diritto di vivere.
Antonia sogna di trascorrere la vita con lui, di dargli un figlio e già immagina un sodalizio eccitante e formativo.
Ma il padre, che, lo ripeto, ammira la figlia e ne esalta le qualità, ritiene il professore inferiore a lei, e si oppone alla relazione in tutti i modi, come, per esempio, spingendola a studiare le lingue straniere seppure la portino in altre nazioni: l’importante è che rimanga lontana da chi non è adeguato alla famiglia Pozzi.
Antonia è disperata: un amore come il suo, basato non sulla bellezza che, ovviamente, è transitoria, ma sulle qualità dell’anima che hanno sempre durata ed espansione, non può che trasportare in un mondo ideale, soprattutto quando si è una creatura ricca d’immaginazione e perciò non capace di distinguere chiaramente tra realtà e sogno. L’opposizione paterna agisce come elemento catalizzatore di una reazione sempre più catastrofica, perché lei vuole “aderire alla vita, aggrapparsi a qualcosa che stia e resista nella tempesta”.
Perciò quando Antonio Cervi, per salvarsi da lei e salvarla da sé, si trasferisce a Roma, lei scappa di casa e lo raggiunge. Così per varie volte in una tormentosa alternanza di andate e ritorni. Dalle poesie del periodo rileviamo che “finita l’età dei bianchi desideri” esplode “la stagione del vero soffrire”: Antonia comincia a identificarsi con immagini di morte “sentieri sperduti che conducono ai cimiteri “, “corpi di fiori travolti dalle rapide o abbarbicati alle rocce”.
Eppure, forse per sfuggire all’angoscia senza scampo, si lascia convincere dal padre e la separazione definitiva avviene nel 1933. Il 29 gennaio del ’34 scrive a Tullio Gadenz, raccontandogli della fine di quel rapporto come di “ una scelta terribile” fatta per “ il bene” della famiglia. Probabilmente a causa della questa grave ingerenza paterna scrive di sé: “tu sei entrata nella strada del morire”.
Da questo momento, travolta dal vuoto colmo solo di silenzio, la giovane viaggia molto, continua a scrivere il diario e poesie (“solo le parole mi danno una pur minima consolazione”, dichiara in una epistola), invia lettere agli amici, non solo a quelli del Liceo (come le sorelle d’elezione Lucia Bozzi ed Elvira Gandini ), ma anche agli intellettuali che ha frequentato regolarmente durante l’Università (Vittorio Sereni, Luciano Anceschi, Remo Cantoni, Enzo Paci, Dino Formaggio, Giancarlo Vigorelli, Luigi Preti, Ottavia e Clelia Abate, per nominare quelli che lei cita più spesso o a cui invia lettere più sofferte …). Questi giovani scrittori sono, come lei, percorsi dall’ansia di conoscenza; sono guidati da un’intelligenza acuta, dal buon gusto e dall’amore per l’arte; tanto da ritenere insopportabile la retorica del regime. A forza di frequentare e ammirare Remo Cantoni, crede di essersi innamorata di lui ma forse è spinta soprattutto dal desiderio di staccarsi definitivamente da Antonello (come lo chiamava, con tenerezza, nei loro tempi magici). Però di fronte alla indifferenza di Remo, che si professa solo un amico affezionato, si ritira nel suo dolore, anziché darsi da fare per fargli conoscere il suo valore morale e intellettuale. Altrettanto inutilmente rivolge l’attenzione e l’inclinazione amatoria a Dino Formaggio. Disfatta e straziata si chiude sempre di più e si impegna in altro, come nelle traduzioni dal tedesco di storie che rispecchiano la sua condizione di donna capace di dare molto amore più che di riceverlo. Progetta di scrivere anche un romanzo sulla storia della Lombardia nel secondo Ottocento e chiede aiuto alla nonna, la carissima Nena, con la quale traccia lo schema dell’opera; ma abbandona l’idea senza averla realizzata neppure in parte.
Nella sua desolazione scrive poesie in cui contempla malinconicamente alberi cupi, fiori secchi, montagne lontane. Poi si rimprovera di trasferire nelle liriche i dispiaceri e le sofferenze dell’amore infelice, togliendo così purezza al dettato lirico (fa sue, praticamente, le possibili obiezioni di Benedetto Croce che definiva poesia pura quella staccata dalla vita). E così si crea un ulteriore motivo di disamore per se stessa.
Comincia a insegnare alle porte di Milano e scopre la solitudine, derivante dall’incomunicabilità metropolitana, e lo squallore delle periferie milanesi. Le avvisaglie della guerra con le prime persecuzioni razziali la confondono, la straziano e bruciano definitivamente la sua voglia di vivere. Alcuni suoi carissimi amici, o perché non vogliono accettare compromessi con i nazifascisti, o perché sono ebrei (come i fratelli Treves), sono costretti all’esilio. Insomma la vita “bella”, come la immaginava nell’ingenuità della prima giovinezza, s’è rivelata impossibile. Ed ecco l’ultimo atto: il flacone di barbiturici trovato accanto a lei, nei pressi dell’Abbazia di Chiaravalle, insieme col biglietto d’addio, in cui parla di “disperazione mortale”, segna la fine della tragedia. È il 3 dicembre 1938 “e la notte con le sue ombre viola cala su di lei”.
Solo il funerale è come Antonia si era immaginata la vita: con tanti fiori, con tanti bambini in un corteo diretto verso la montagna intorno a Pasturo, dove ha chiesto di essere sepolta. Ma la sua avventura umana ha ancora un aspetto amaro: il padre, per evitare lo scandalo probabile dei salottieri di Milano, cerca di nascondere il suicidio e diffonde la notizia della polmonite come causa della morte. Inoltre esercita la sua censura sul diario, falsificandolo, e sulle poesie che in parte nasconde (quelle scritte troppo esplicitamente per Antonio Maria Cervi) in parte fa pubblicare dopo averci messo le mani. Consegna il materiale secondo lui editabile ad Alberto Mondadori, raccomandandogli di affidarne la cure a Francesco Flora, che, sottomesso alla gente di potere, avrebbe sicuramente rispettato la volontà del padre, non dell’autrice. Ma Mondadori passa il compito a Montale che è molto più indipendente di Flora e, infatti, non fa misteri del suicidio e delle sue cause, e comunque ad Antonia, su un piano poetico qualitativo, dichiara apertamente di preferire Piera Badoni. Poi, Roberto muore e la pantomima ha termine. Antonia Pozzi finalmente trova pace, e anche, nel male e nel bene, il silenzio di decenni.
Questa storia e già le poche poesie inserite alla fine di questo testo dimostrano che, durante la vita di Antonia Pozzi, il suo valore come poeta nonché come donna sensibile e generosa, non si è potuto sviluppare al massimo e, soprattutto, non è stato adeguatamente apprezzato. D’altronde, quando avrebbe potuto dare prove inoppugnabili delle sue capacità, si è suicidata; e quasi subito dopo è scoppiata la guerra, terribile evento che ha reso difficile una rapida rivalutazione sua e degli amici che avrebbero voluto aiutarla.
Per concludere questi cenni voglio riportare la lettera scritta da Antonia all’amica-“sorella” Elvira Gandini il 15 settembre 1937, pochi mesi prima del suicidio: “Prima si sbaglia, ci si perde, finché la vita un bel giorno comincia, coi suoi gesti leggeri e sapienti, a richiamarci; è come aprire gli occhi e ritrovarsi su una striscia di prato al sole, vicino alle pietre e alle piante”. (È l’anticipazione di quella striscia d’erba su cui si chiuse l’esperienza umana di questa ragazza infelice). La lettera continua: “Il senso della vita non è più sparso nel cervello, nelle mani, negli occhi, ma è tutto raccolto dentro il petto, come un enorme fiore o una corazza; e il domani non è più che portare avanti, sempre più avanti quel fiore o quella corazza, sereni, eretti per una grande strada bianca”. In quella corazza invano Antonia spera di proteggersi ed è tale impossibilità il preannuncio della “disperazione mortale” di cui parla nell’ultimo biglietto; e la strada che Antonia sembra vagheggiare è quella del cimitero, forse depositario dell’agognata serenità.
Nel 2009 le ha reso giustizia, magari passando all’eccesso opposto, la regista Marina Spada che, dalla biografia di Antonia, accuratamente scritta da suor Onorina Dino, ha ricavato un film- documentario TU CHE MI GUARDI, POESIA in cui con delicatezza si sviluppano le vicende che ho qui sintetizzato. Il titolo è il verso finale della lirica (PREGHIERA ALLA POESIA) da cui appare chiaro che cosa rappresenti per Antonia (come per me) la poesia :
Oh tu che bene mi pesi/ tu sai se io manco e mi perdo,/tu che allora ti neghi/e taci//. Poesia, mi confesso con te/ che sei la mia voce profonda// Poesia che ti doni soltanto/ a chi con occhi di pianto/ si cerca/. Oh fammi degna di te,/poesia che mi guardi.
L’autunno, che, come ho già detto, è metafora di uno stato d’animo, è tutto giocato sui particolari: nebbie leggere, rugiada sulle foglie morte “mentre il terriccio accoglie/petali stanchi di ciclamini/e crochi velati/di uno stesso pallore/roseo.
Così la montagna d’autunno “venata di sole” porta in grembo”[come se fosse una madre] “ il cielo tutto azzurro” mentre cerca di richiamare “voli d’uccelli alle mani/colme di vento”.
Sull’argomento cito la poesia “LA VITA” (che è molto breve):
Alle soglie d’autunno/ in un tramonto muto/ scopri l’onda del tempo/ e la tua sete/ segreta e/ come di ramo in ramo/ leggero/ un cadere d’uccelli/ cui le ali non reggono più.
Sul rapporto Natura- Vita trascrivo: NINFEE
“anch’io non ho radici/che leghino la mia/ vita alla terra /Anch’io- cresco dal fondo/di un lago colmo/ di pianto”
E ancora da “Naufraghi” (19 dic. 1933
Triste orto abbandonato l’anima/si cinge di selvagge siepi/ di amori:/ morire è questo/
ricoprirsi di rovi/ nati in noi.
Sull’amore
L’ALLODOLA [dopo il bacio dato e ricevuto]
Dall’ombra degli olmi/sulla strada uscivamo/per ritornare./ Sorridevamo al domani/come bimbi tranquilli./Le nostre mani/congiunte/ componevano una tenace/ conchiglia che custodiva/la pace. E io ero piana/ quasi tu fossi un santo/che placa la vana/ tempesta e cammina sul lago.//Io ero un immenso/cielo d’estate/all’alba/su sconfinate /distese di grano//E(d) il mio cuore/ una trillante allodola/ che misurava/la serenità.
Anche l’ amore si fa poesia, pudica, delicata, sommessa. Ed ecco la lirica (che mette in evidenza in contemporanea l’amore per l’uomo e l’amore per la poesia), intitolata:
PUDORE
Se qualcuna delle mie povere parole/ti piace/ e tu me lo dici/sia pure con gli occhi/ io mi spalanco/in un riso beato/ma tremo come una mamma piccola giovane/che perfino arrossisce/se un passante le dice/che il suo bambino è bello.
Sono versi che ci fanno capire quanto fondamentale sia per lei la POESIA in cui si concentra il “compito sublime di prendere tutto il dolore che ci romba nell’anima e di placarlo, trasfigurandolo nella suprema calma dell’arte, come sfociano i fiumi nella vastità del mare”.
Si tratta di una dichiarazione di poetica che troviamo anche nella lettera all’amico Tullio Gadenz del gennaio 33.
Non si può non considerare, a questo punto, se si vogliono capire almeno in nuce tutti i motivi che hanno determinato Antonia al passo fatale, la poesia “Preghiera”. Questa, infatti, bene evidenzia un tormento religioso, che potrebbe essere placato solo dalla fede. Ma, la fede, lei non ce l’ha.
PREGHIERA
Signore, tu lo senti/ch’io non ho voce più/per ridire/ il tuo canto segreto/. Signore, tu lo vedi/ ch’io non ho occhi più/per i tuoi cieli, per le nuvole tue/ consolatrici// Signore, per tutto il mio pianto/ ridammi una stilla di Te/ ch’io riviva// Perché tu sai, Signore che in un tempo lontano/anch’io tenni nel cuore/tutto un lago, un grande lago/,specchio di te//.Ma tutta l’acqua mi fu bevuta/o Dio/e ora dentro il cuore/ho una caverna vuota/cieca di te//Signore, per tutto il mio pianto/ ridammi una stilla di Te,/ch’io riviva.
Come si nota, quasi in ogni verso ricorre una supplica col vocativo “Signore”. Ma la sofferta domanda non ha ottenuto risposta. O perlomeno Antonia non è riuscita a sentirla. E anche il rovello di questa “assenza” ha contribuito a portarla a quella drammatica notte del 3 dicembre del 1938.