Flaminia Cruciani - Archeologia e poesia

C’è un rapporto d’imprevedibilità che accomuna l’archeologia con la poesia: il segreto con il nascosto, col sepolto che come tale è sconosciuto. Si parte in entrambi i casi da frammenti, tracce, materiali sensibili che conducono verso un processo interpretativo e alla composizione di un valore espressivo che si riconosce coerente a quell’esperienza. Qualcosa d’altro accomuna il lavoro dell’archeologo a quello del poeta: una certa lentezza. L’archeologo trasforma il segreto della terra in documenti. Il poeta converte il silenzio delle emozioni, della oscurità delle sue fondazioni nella leggerezza della parola.
L’archeologia e la poesia sono due dimensioni dell’uomo che si muovono su un tessuto comune: la memoria, il tirare fuori dal profondo per riportare alla luce. L’archeologo è un investigatore, nella ricerca sul campo indaga, procede all’indietro rispetto alla direzione del tempo, fra stratificazioni, per resuscitare un passato perduto. Analizza, interpreta, restituisce significato, scavando testa il destino della materia e le sue qualità, il fenomeno della rovina verso cui tutto tende, con esiti diversi a seconda delle condizioni in cui il sito si trova. Nel sottosuolo dell’anima i ricordi, le emozioni, sono deposte ma non subiscono le procedure del disfacimento. La stratificazione archeologica assomiglia a un inconscio che contiene, trasforma e spesso non restituisce se non scandagliato attentamente attraverso un percorso profondo o creativo capace di far affiorare i reperti della vita psichica dell’individuo. Il disagio della civiltà contiene un’importante riflessione di Freud in merito: «Dal momento in cui abbiamo superato l’errore di supporre che il dimenticare cui siamo abituati significhi distruggere la traccia mnestica, sia cioè un annullamento, propendiamo per l’ipotesi opposta, ossia che nella vita psichica nulla può perire una volta formatosi, che tutto in qualche modo si conserva e che, in circostanze opportune, attraverso ad esempio una regressione che si spinga abbastanza lontano, ogni cosa può essere riportata alla luce. Cerchiamo di chiarire il contenuto di tale ipotesi ricorrendo a un paragone desunto da un altro campo. Prendiamo come esempio l’evoluzione della Città Eterna. Gli stori-ci ci insegnano che la Roma più antica fu la Roma quadrata, un insediamento cintato sul Palatino. Seguì la fase del Septimontium [...] Non vogliamo considerare ulteriormente le trasformazioni dell’Urbe; domandiamoci che cosa pos-sa ancora trovare nella Roma odierna, di tali stadi precedenti, un visitatore che supponiamo dotato di vastissime conoscenze storiche e topografiche [...] Salvo poche interruzioni, potrà trovare tratti delle mura aureliane. In alcuni luoghi potrà trovare tratti delle mura serviane portate alla luce dagli scavi. [...] Non c’è bisogno di ricordare che tutti questi resti dell’antica Roma sono disseminati nell’intrico di una grande città sorta negli ultimi secoli, dal Rinascimento in poi. Qualcosa di antico è senza dubbio tutt’ora sepolto nel suolo della città o sotto i suoi moderni fabbricati. Questo è il modo in cui la conservazione del passato ci si presenta in luoghi storici come Roma. Facciamo ora l’ipotesi fantastica che Roma non sia un abitato umano, ma un’entità psichica dal passato …
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