Gaetano G. Magro - Il vaniloquio delle cellule ebbre con una nota di Lino Angiuli

incroci semestrale di letteratura e altre scritture
anno XV, numero 29
gennaio-giugno duemilaquattordici
Il codice liberato
Parafrasando la parola d’ordine di Ginsberg & company («dilatare i confini della coscienza»), direi che una delle funzioni primarie della poesia è quella di dilatare i confini della lingua, sia in quanto privata parole che in quanto pubblica langue, rendendoli mobili, dinamici, inclusivi. Insistendo invece su un teorema già significato su queste pagine, direi che uno dei compiti paradossali della creatività poetica è quello di emanciparsi dal dominio della Letteratura in quanto istituzione culturale, corpus fatto di miti riti dogmi convenzioni schemi tendenti all’auto-riproduzione più o meno inerte. Mettendo insieme questi due concetti, si capisce come ogni persona che chieda alla poesia di farsi mezzo di trasporto della vita debba in primo luogo scansare la barriera architettonica che separa la vita stessa dalla sua metamorfosi poetica.
Scendendo nel concreto, possiamo notare come un magistrato che scriva versi di tutto scriva e tutto metaforizzi e tutto sublimi al di fuori delle leggi che deve interpretare, della crisi del suo ruolo, dell’assenza di dattilografi e di come, di fronte alla legge, qualcuno sia più uguale degli altri. Così come possiamo notare che tra i numerosi docenti che approdano alla poesia, quasi nessuno ci fa arrivare un sentore di aule fatiscenti, il disagio professionale, il passaggio dalla paideia all’azienda e il trionfo della tecné sull’umanesimo. E così via.
Una conferma di questa considerazione proviene dalla narrativa, dove non vige la dogana attiva in poesia e dove il principio dei vasi comunicanti tra vita e scrittura funziona abbastanza.
Un’ulteriore prova la si può desumere dal fatto che, pur essendoci pochi carrozzieri elettrauti idraulici contadini tra i praticanti la poesia, quando anche questi soggetti, a modo loro, danno luogo a qualche manifestazione versificatoria – come accade in alcune aree in cui resistono ancora i cosiddetti ‘poeti spontanei’ – le loro rime più o meno baciate trasudano di riferimenti al mestiere e all’orizzonte culturale di provenienza (considerazione – questa – che può aiutare a spiegare anche l’abbondante florescenza di poesia neo-dialettale: il dialetto diventa un deposito espressivo cui attingere a piene mani per prendere in prestito parole, costrutti, atmosfere più vicine alla vita reale, come se la perdita di corporeità espressiva patita sul versante della lingua italiana venisse così risarcita).
C’è, però, una categoria professionale che, per una vantata contiguità con le scienze dette umane, sembrerebbe meno afflitta dalla rimozione di cui si è detto: i medici; ma anche a tale tipologia la poesia impone i suoi filtri e le sue leggi, e difficilmente sentiremo odore di cloroformio o incontreremo tracce del pur ricchissimo e ‘umanistico’ codice in uso tra i camici bianchi (l’eccezione che conferma la regola è costituita dal caso di Cesare Ruffato).
Eppure cos’altro è la poesia se non ricerca sulla / nella / con la lingua? Ricerca che agevoli l’emersione di quel materiale espressivo interdetto o deperito o nascosto che aspetta proprio il poeta per essere legittimato rivitalizzato integrato liberato?
Se le cose stanno così, allora siamo davvero grati allo scienziato Giuseppe Gaetano Magro, al Docente di Anatomia ed istologia patologica, per aver accettato il nostro invito a misurarsi poeticamente con il proprio codice scientifico in un tête-à-tête dagli esiti imprevedibili…
(Estratto dalla nota di Lino Angiuli)
Di medici approdati alla poesia ce ne sono diversi; di scienziati un po’ meno. L’autore di questo poema è sia medico che scienziato (professore di Anatomia e istologia patologica) e frequenta sia la poesia (Le lumache mediocri, LietoColle 2011) che la narrativa (Formalina, Fara 20013). Nel presente ‘esperimento’ ha miscidato gli strumenti espressivi rivenienti dalla sua duplice ‘veste’ di scienziato e di poeta, cercando di dare voce al codice linguistico professionale che, a ben vedere, non solo ha tante cose da dire, ma le sa dire con inaspettata carica metaforica.
da Il vaniloquio delle cellule ebbre
di Gaetano Giuseppe Magro
siamo un errore di trascrizione aminoacidica venuto molto bene,
una cucitura magistrale di cellule che formulano sapientemente
le impronte del morso che lasceremo sull’alata botola in argento
ciascuno prova la propria compatibilità con gli ingranaggi
esistenti nel mondo animale, sperimentando furbi stratagemmi
ed agguati di risonanza; ci si adegua, infine, al sacro torpore della
convenienza che avvolge rara, la fisionomia da post big-bang
ogni cellula – si sa – fa la sua prima prova nel ristretto passaggio
con valvola a chiusura, svelto è il passo nel cunicolo feroce, lusso
di nascondimenti tra l’ectoderma, il mesoderma e l’endoderma:
la vita è per pochi, di tutti la morte; riecheggia, poco più che
pietra, la maledizione del buio ai bordi della grande ovaia
creatrice, ove contorte vivono figure snelle d’epitelio cordonale
lungo cui s’inseguono e strattonano i pochi gameti per stonature
catturare la testa dei vuoti dei girasoli, il lor bel giallo dei limoni,
prima che rivendichino, a gran voce, un riporto d’ombra,
falsariga della materia proponente, è il gesto nobile da rischiare:
evitare questo nostro ambulare di rimandati a capo, che sperano
ancora nel prossimo appello riparatore, noi, come malati
terminali di tumore al polmone, colti nei bagni a fumar di frodo,
giurando che quella tra le mani sarà l’ultima sigaretta sugli altari,
le cellule mutano continuamente, e per questo, accumulano,
riparano, e dappertutto, in aria, ci salvano sempre, avvezze come
sono ad atterraggi di fortuna su lenti e malandati bimotori
mantengono, comunque e ovunque, la sconsiderata capigliatura
della medusa matrigna; le vedi care, incommensurabilmente
agghindate, queste magre cortigiane di lusso che s’appartano
vocalmente, nelle stanze, l’aspro diverbio per i soliti futili motivi
s’inarca alta tra tutte, la più sicura e maestosa, la cellula bizzarra
del male, ci mostra l’inguine attraente del peccato monoclonale,
si parla a bassa voce, aggrappati, appena, alla carena di una lama
che sgrossa: tanta è la paraffina che tocca, prima di arrivare alla
sezione istologica della verità che scotta; forse sono rimasto solo
a non sapere che i sogni si sognano tra loro, che le parole sono
porte aperte che s’accoppiano, in bocche di scanalature coerenti
m’inseguono i cordoni d’ansia e tutte le minuterie genetiche
prossime alla congiura sgargiante di alte ortografie di tendenza,
l’alta dinastia è un risibile reame di storte catene amino-acidiche
che si piegano sugli introni delle cose in sé, che non trovano
carne di cui parlano, e brindano sui tetti i tuoi occhi che sono
trabecole bucate, che delle verità copiano il labbro leporino,
l’equivoco del binario che guarda due direzioni: le cellule – lo sai –
in fondo, sono donne senza gambe, smorfie eleganti pleomorfe,
kantiane finezze sintattiche che incontri, cavalcando, raramente, i
gusci di vita confidenti, e le planimetrie multipiano delle vanità.[...]