La parola arrabbiata: poetica della crisi e pre-modernismo in Fabio Pusterla

Articolo pubblicato sulla rivista "Incroci" semestrale di letteratura e altre scritture - n.ro 25 (genn/giu 2012), Adda editore (puoi scaricare l'intero articolo in Pdf qui)
La parola arrabbiata:
poetica della crisi e pre-modernismo in Fabio Pusterla
un saggio di Salvatore Francesco Lattarulo
Ultimo dei ‘lombardi’, il ticinese Fabio Pusterla si attesta lungo una linea tutta sua, pur incrociando tanto l’itinerario creativo degli interpreti iniziali ed epigonali del gruppo anceschiano quanto la lezione dei classici del Novecento, da Montale a Fortini. Entro questa trama di relazioni plurime, il poeta di Mendrisio fotografa con la sua più recente raccolta, Corpo stellare (Marcos y Marcos, Milano, 2010), sulla scia di quelle precedenti, gli esiti più bui della crisi strutturale di questi anni (politica, sociale, etica), riportando di contro in emersione i resti dispersi non già di un’epoca ma di un’era che precede la modernità e la storia stessa dell’uomo.
Fin dalle sue prime prove il movente della scrittura di Fabio Pusterla, la sua radice primaria e germinale, è la denuncia dell’universo frantumato del nichilismo contemporaneo. Anche l’ultimo libro, Corpo stellare1, che lo scorso anno ha meritato al suo autore l’ambito premio Schiller, ne contiene una puntuale e cospicua traccia. Già la facies editoriale del volume, presentato nelle note finali come una collettanea di testi pubblicati alla spicciolata su riviste o antologie tra gli anni 2003 e 20092, dice di una vocazione sempre nettamente avvertita a concepire la poesia come operazione rapsodica, convocazione di lacerti di realtà fissati sulla pagina con la stessa aperta e provvisoria intenzionalità della stesura di un taccuino, della trascrizione di un bloc notes di minima mortalia. E non si tratta, a ben vedere, di un’eredità del frammentismo novecentesco. Anche perché la silloge, pur dotata di una silhouette meno definita rispetto alle opere precedenti, ha una sua tenuta d’insieme, un’articolazione coesa, insomma una struttura poematica. In definitiva, essa appare, sulla falsariga della prima parola del titolo, un ‘corpo’ testuale unitario dal respiro largo. Per altro, proprio la perifrasi onomastica della raccolta alluderebbe a qualcosa come una compatta massa luminosa, un grumo solido e irradiante, «un punto chiaro di luce» intorno a cui l’autore ha aggregato frantumi dei suoi trascorsi umani e letterari. Fa fede la lirica eponima – forse la meno riuscita del libro, per via di un fraseggio talora un po’ troppo studiato («sei un pensiero/ che non sa nemmeno pensare») – ove il poeta dà l’impressione di aver trovato una scia luminescente che attraversa la trama opaca dei suoi ricordi. Allo stesso tempo, l’espressione «corpo stellare» porta il segno preciso di una frattura, di uno strappo, giacché è giocata su un accostamento ossimorico. Da un lato sta l’essenza materiale, la componente biologica e organica dell’individuo; dall’altro sta la sua tensione celeste, la sua propensione siderale3. Corroborano questa tesi partiture antifrastiche del tipo «imbrattato di luce e di bassezza», «l’oltraggio e la dolcezza», «la voragine e il canto». Il baricentro è in ogni caso la bruta terrestrità, colta nella sua cruda e insieme mite arroganza. Una nauseante evidenza fisica appena virata a un’ansia frustra di sublimazione.
In Pusterla la sfera del sensibile si dà per segmenti, spezzoni «smangiati», irredimibilmente corrosi dalla spietata legge del divenire e pertanto necessitati a mai più combaciare. Quasi che la rappresentazione in versi della fenomenologia della vita sia possibile solo a patto che si sintetizzi nell’inventario caotico di ciò che è scampato a una violenta deflagrazione o di quel che resta alla fine di un naufragio di millenni. La civiltà, scrutata attraverso la lente di una allucinata ma realistica allegoria, ostenta i postumi di un collasso, le macerie fumanti di un «crollo», rinculando verso il suo grado zero, sdrucciolando verso un punto morto. Il risultato è una dizione smozzicata che fotografa un presente destrutturato, incrinato com’è dalla crisi di certezze e di riferimenti. La cappa di declino che si deposita sulle spalle di una società che ha già fatto default sul piano etico e politico si traduce in una crisi di dicibilità, in una nuova babele linguistica. Ne viene fuori che la sonda che misura la poesia di Pusterla, che fatica a stare entro l’alveo di una narratività piana e distesa, cui purtuttavia tende, è una contabilità alla rinfusa che scompagina l’ordine dei significati e sovverte le categorie logico-razionali. Enumerare gli oggetti, rovistare nella sfera del sopravvissuto e del rimanente ispessisce il sentimento della perdita, il dolore della privazione, l’angoscia dello spossessamento. Tanto più testarda e ossessiva si fa la pulsione a catalogare l’esistente, tanto più penosa e bruciante si fa la resa dei conti con ciò che ha smesso di esistere. Ecco quindi che a contrassegno testuale della ricerca pusterliana può essere additato il montaliano Forse un mattino andando in un’aria di vetro, ove l’elencazione simultanea degli elementi del paesaggio non è che un pieno apparente, uno spettacolo ingannevole, un trompe-l’œil, che in realtà sottintende la fin troppo nota epifania del «nulla», la terrifica scoperta del «vuoto»4. Va da sé che nel poeta ticinese, come per altro nel grande ligure, che sta a quello come una specie di punto di partenza obbligato, l’accorgersi del niente è in asse con la rapina del passato, la mutilazione della memoria. Le cose sono abrase, erose, espunte. I disiecta membra di Pusterla, che compongono quasi un registro di oggetti scomparsi, un reliquario bislacco, vera e propria impaginazione di «indizi senza senso», si nascondono nei recessi, nelle fenditure, negli angoli in penombra, dentro qualche «solco», affiorano da sotto, risalgono dal buio.
Corpo stellare, pur nella sua apparente disorganicità e promiscuità di temi, scanditi in sei sezioni, si struttura lungo alcune linee di forza di cui qui si intende dare conto privilegiandone la dimensione civile e politica. L’eco della tragedia dell’olocausto che s’insinua nella prima parte5 è forse in parte debitrice al Sereni degli Strumenti umani, autore nel cui solco s’inscrive, come si dirà meglio più avanti, l’atto poetico pusterliano. Al punto che si potrebbe dire, giocando con il titolo, che Sereni è un po’ la ‘stella’ polare dello scrittore di Mendrisio e che questi avrà avuto forse in mente, nel battezzare la sua più recente fatica letteraria, il nome dell’ultima raccolta del luinese (Stella variabile).
Ma lasciando stare gli astra per tornare ad aspera, si dirà che l’immagine pusterliana della deportazione dei maiali-ebrei ha l’aria di risentire di un testo sereniano già per altro frequentato in Settembre 2003, nuovo anno zero, che fa parte di Folla sommersa. Il modello esplicito e confesso di questa lirica è il Nuovo anno zero di Strumenti umani. In Pusterla il polo polemico è la deriva negazionista delle atrocità nazifasciste propagandate dal «ventennio» berlusconiano. In Sereni il tema è la perdita della memoria del lager, divorata dalla famelica Germania post-bellica sull’onda della sua accelerazione consumistica. Ebbene, ciò che aziona la metafora suina6 di Corpo stellare sarà forse l’espressione «mangiare carne di porco» con cui il luinese allude a una tipicità gastronomica tedesca inoculando nelle pieghe del discorso «un che di sinistro», come scrive Dante Isella7. I maiali vengono caricati sui camion per essere portati al macello, alla stregua dei figli di Davide messi dai loro aguzzini sui carri bestiame per andare verso un destino di morte. È una belluina rappresentazione della storia umana dove, per dirla di nuovo con Sereni, i lupi feroci che stanno al potere «si mangiano cuore e memoria». Dalla mattanza dei maiali allo strazio dei cani all’uccisione del toro, che fa coppia con la vacca che attende di essere scannata in Ritratto bovino di Folla sommersa, il bestiario pusterliano si dispiega lungo una sequenza tesa e organica di immagini che rimandano all’idea del sacrificio espiatorio, osservato attraverso l’occhio di disincarnata purezza delle stesse vittime. La morte, barbara e rituale, remissiva eppure dignitosa, ne sancisce l’estraneità al mondo. La poesia zoologica di Pusterla, consenziente per altro con quella, saggiata più oltre, di Giampiero Neri, autore con cui sovente la critica ha instaurato un piano di confronto, si incarica di rappresentare il tema dell’incomunicabilità e della distanza tra specie viventi che si guardano, si annusano, si sfiorano, si toccano, ma non si comprendono. L’animale, sanguinante e uncinato nella carne, lascia la sua stria di dolore lungo rotte solitarie, nell’assoluta noncuranza degli esseri umani. Unica via di fuga è allora la filosofia dell’armadillo che, mite e inoffensivo, segue a ritroso una pista visionaria e distopica, fiutando un «nessundove». Si va per andare, non perché s’è avvistata la meta. Ma la salvezza, se salvezza c’è, è nell’uscire di strada, nello scartare, nell’avanzare per vie discrete e laterali.
Pusterla è poeta che si misura con il proprio tempo, interrogandone il volto inquieto e assumendolo come oggetto di una vigilanza critica e testimoniale. Ed ecco la satira contro il potere costituito, che la coscienza civica obbliga a «guardare in faccia» per smascherarne l’ipocrisia, a dispetto di quanti, per paura, indolenza o rassegnazione, mettono in piega le loro idee, si allineano al credo laico professato dalle auctocritates di turno. Il ticinese carica invece la sua «rabbia» cavernosa, ringhiosa, contro la cricca dei governanti, un manipolo di cialtroneschi imbonitori che al di sotto della cortina fumogena della ragion di Stato cela il proprio côté crudo e aggressivo, mimetizza le sue livide ambiguità («Dietro maschere o griglie/ d’oro, protetto in anfratti accoglienti,/ è sempre cauto lo sguardo del potere, si dissimula, canta», Leggendo Svetonio). Fasti e nefasti ascrivibili al cinismo disincantato di chi aziona le leve del comando per castrare la democrazia alimentando uno scenario da repubblica monarchica. Al Palazzo si guarda con un misto di ripugnanza e passiva accettazione: «Potere comanda famelico, da sempre/ e noi come sempre ubbidiamo» (Da Marmorera - Pensando a Brassempouy). Questo soffocato ma vibratile J’accuse contro gli arcana imperii, che pur se perentoriamente risentito non ha comunque mai i tratti di una disposizione alla requisitoria, si traveste per un istante di letterarietà in una lirica come Una telefonata a Ravecchia, dove affiora negli ultimi versi una tessera leopardiana ricavata e riattata dal ben noto finale di A se stesso («poteri/ ascosi e splendidissimi»). A rimorchio della denuncia della malapolitica cammina l’invettiva dei commercianti strangolati dall’affarismo e dalla corruzione del sistema Paese. Monta «la rabbia e l’ingiuria» contro il capitalismo di Stato, all’indirizzo di chi intinge le dita nella marmellata dei pubblici affari. La malinconica insegna di una piccola bottega artigiana messa in ginocchio dalla crisi si fa portavoce dell’indignazione collettiva («Questo bisogna dire: sono ladri,/ ministri e presidente»).
La scrittura di Pusterla non è estranea alla frequentazione della cronaca pubblica e civile. Il poeta si fa carico di una responsabilità etica difronte alla storia di questi anni e procede così a un resoconto grottesco dell’attualità politica, mette mano a una notazione, corrosa dall’acido del sarcasmo, della sconcertante quotidianità istituzionale, tenendosi tuttavia lontano da letture tendenziose, prese di posizione ideologiche e partigiane. Nella sezione Aprile 2006. Cartoline d’Italia, strutturata in forma di mini-tetralogia, l’innesco è costituito dal dopo elezioni, segnato dalla rissosa polemica del centrodestra che imputò a presunti brogli nel conteggio delle schede la vittoria del centrosinistra alle penultime votazioni nazionali. Lo sfondo è pertanto il clima guasto tipico di quella guerra di successione con cui i partiti usano interpretare il confronto nelle urne. L’autore rimesta il terreno inquinato della vita pubblica della nazione, ingrigita dalla menzogna, adulterata dalla droga dell’ideologia fai-da-te, azzoppata dall’atonia morale. La cannibalizzazione del dibattito politico figlia dell’età berlusconiana8 porta in dote una sorta di eutanasia della patria, che ha confinato nel recinto dell’oblio i propri figli, spinti dalla miseria e dalla mancanza di lavoro a cercare fortuna al di là delle Alpi. La riflessione intorno al dramma dell’emigrazione, germoglia, anche in questo caso, dal seme irrorato dalla cronaca battente di quei giorni, quando al successo sul filo di lana del centrosinistra contribuì in misura determinante il voto degli italiani all’estero. Su questo tronco si innesta l’allusione al tema collaterale del diverso e dell’emarginato, che sta molto a cuore a Pusterla, intellettuale di frontiera, italiano in terra elvetica, che non ha mai fatto mistero del «disagio» con cui vive l’etichetta convenzionale di scrittore ticinese, vagamente evocativa di una condizione periferica e provinciale se non addirittura attardata rispetto alle linee generali del dibattito culturale9. E ancora, la testualizzazione del dramma dell’esodo e dello sradicamento serve a intonare il canto dell’escluso, l’elegia dello straniero che, al suo ritorno, deve fare i conti con un paese che non è più il suo, con lo sventramento della memoria dei luoghi cari, stante la nuova geografia dei contesti urbani disegnata dall’edilizia selvaggia e dall’industrializzazione massiccia. Al verde dei boschi e all’azzurro dei laghi subentra l’onnivora tetraggine delle fabbriche e dei supermarket, in una brusca metamorfosi del paesaggio che allenta i legami generazionali e sancisce un rapporto di alterità culturale e linguistica. È la condizione straniante di chi si sente espulso dal mondo e dalla storia.
Una robusta corda civile e politica, lascito del «maestro» Franco Fortini10, vibra già nel primo Pusterla, quello di Concessione all’inverno11. Si prendano, ad esempio, i versi seguenti che, benché scritti a metà degli anni Ottanta, sembrano dettati dalla più stretta attualità: « – gli applausi, i panegirici,/ i grafici economici, i tagli indispensabili/ alle spese sociali / i purtroppo inevitabili/ sacrifici – ». La sequenza nominale è un inciso di Heteroptera, una sorta di pasquinata contro i rappresentanti delle istituzioni, paragonati, come suggerisce il titolo preso di peso dal lessico entomologico, a un nugolo di insetti, a un semenzaio di ‘cimici’, veri parassiti appiccicati come ventose al ventre molle della nazione («famelici, energetici/ questi cari/ politici»)12. La canzonatura del potere, sanzionato come patologia interna al corpo sociale («una politica/ medicamentosa, sordida», Storie dell’armadillo 15), si avvale di una dizione oloparatattica, ritmata da semi-asindeti e asindeti forti e pieni, che funge da senhal formale e grammaticale della poesia pusterliana, intesa come trascrizione del reale in termini di addizione di contrari, di rassegna sgangherata, come si diceva, di elementi legati tra loro per intima sconnessione. La sintassi appare sfarinata, irta com’è di nessi «anacolutici» e di «parentesi», lemma morfologico, quest’ultimo, emblematicamente eletto a titolo di una poesia della raccolta d’esordio. L’autore si compiace di attivare la funzione metalinguistica («serpenti sintattici») nell’ottica di un iperbolico divertissement intorno alle strutture del discorso che fa venire in mente certe rutilanti e dissacranti provocazioni verbali dei sonetti cinquecenteschi del Burchiello, primo fra tutti il celebre componimento che prende le mosse dai «nominativi fritti». E come nella tecnica dello sproloquio in versi, costruito attraverso associazioni spiazzanti e soluzioni parolibere, che fa capo al barbiere fiorentino l’approdo finale è il nonsenso, la chiave di volta della lirica del poeta italo-svizzero è la denuncia dell’insignificanza del reale, della sua spiazzante disarticolazione, della sua totale disarmonia. La tessitura frastica lassa, che allenta e brucia i legami tra le singole parti, è indizio sul piano del significante della slogatura tra presente e passato e della slabbratura prodottasi nella trama delle relazioni autentiche tra gli individui. Non resta pertanto già al Pusterla prima maniera, davanti allo sconquasso generale, al sequestro della verità, alla confisca della democrazia, alla dismissione dell’etica pubblica, che prendere atto del «fallimento totale» di quel «delirante nulla» in cui la «politica» finisce per confondersi mescidandosi persino con il «sesso». A voler usare un’immagine pregnante è l’Italia andata in vacca, apostrofata con amara ironia nella chiusa del già ricordato Settembre 2003, nuovo anno zero, «O Italia renovada in di to vacch!13», dove l’inserto gergale milanese è un prelievo secco dalla Canzone dell’Olga di Delio Tessa, messo a reagire in modo stridente con l’interiezione iniziale dall’accentuato sapore aulico, assente nell’originale. Il discorso si apre poi alla critica dei miti consumistici e dell’apologia del benessere, in un dialogo a distanza con il Montale di Satura. E infine, il tema della denuncia sociale e politica esce dai confini nazionali per assumere un respiro più ampio in Lettere da Babel, dove si compiange la fine dello European dream, quel modello postmoderno di governance unitaria del Vecchio continente che l’economista statunitense Jeremy Rifkin ha indicato come potenzialmente in grado di rivaleggiare con il noto slogan in cui, per tradizione, si identifica la cultura della nazione a stelle e strisce («Chiamala Europa, o mondo,/ o solo un altro sogno; e forse è l’ombra/ di un secolo e di un vuoto/ che abbiamo visto e sperato di cancellare con la gioia»).
***
Pusterla, anagrafe alla mano, può essere considerato l’esponente più fresco della cosiddetta linea lombarda, e forse il più talentoso14, sempre che la formula ‘magica’ coniata da Luciano Anceschi a metà del secolo scorso conservi ancora oggi intatto il suo alone di legittimità15. Non molto tempo fa Marco Merlin ne ha cantato il de profundis in un appassionato editoriale di «Atelier»16. La sua tesi è che «tale linea non esiste più» perché «alcuni dei suoi tratti peculiari, quelli che si ricollegano al nucleo morale che ha caratterizzato tanti maestri del Novecento e che erano riconoscibili all’interno di un preciso contesto storico, si sono disseminati in un generale stile che predilige l’epica del quotidiano, lo sguardo realistico pronto a sconfinare nell’impoetico e nel prosastico». In sostanza, il grumo ideale proprio di quella temperie poetica si sarebbe come diluito, disperso, se non proprio dissolto, nel frastagliato panorama della scrittura contemporanea, tanto da renderne inattuale e forzosa la tendenza a perimetrare alcune personalità, in qualche misura riconducibili a quel filone espressivo, entro un preciso ambito territoriale connotandole come il prodotto di un milieu regionale. Al di là del generico fastidio suscitato dalle etichette storico-letterarie, che piegano le specificità individuali ad approcci insiemistici di comodo, Merlin sostiene che l’esaurirsi di una lirica di marca lombarda vada ricercato nell’assenza di figure in grado di reggere il confronto, «anzitutto da un punto di vista umano», con i protagonisti di un’esperienza maturata nell’immediato secondo dopoguerra, negli anni della ricostruzione etica e civile, oltre che materiale, della nazione17. Del resto, fatta eccezione per la risaputa e conclamata aderenza alle cose (la poetica in re), il punto di sintesi e di mediazione della linea lombarda fu anche una certa «vocazione morale»18. Orbene la tensione etica costituisce, come si è andato fin qui dicendo, il propellente solido, il tratto più riconoscibile della poesia di Pusterla, a segno che già Maria Corti, nelle righe prefatorie a Concessione all’inverno, indicava nella «rabbia inespressa» denunciata in un verso dall’autore la sigla del suo poetare19.
Non è certo questa la sede per riaprire o suggerire una prospettazione aggiornata della vexata quaestio intorno alla persistenza o meno in poesia di una modalità tipicamente lombarda. I dibattiti storiografici sono, si sa, un vezzo che il più delle volte rischia di sconfinare in vizio da parte di una critica che si compiace di posture ideologiche pomposamente definite. Di recente, Giorgio Linguaglossa, in scia con la netta stroncatura di Pier Paolo Pasolini al volumetto anceschiano apparsa su «Officina» nel ’5420, ha alzato sommessamente la voce contro la pretesa di «egemonia totalizzante» facente capo a quel «nuovo petrarchismo regionale»21che ha avuto nel fondatore del «verri» un padrino d’eccezione. E perciò, lungi dall’essere morta e sepolta, «la linea lombarda si è trasformata in una vera e propria Istituzione»22, dotata, aggiungo io, di una sua vocazione maggioritaria in seno alla repubblica delle lettere. Segno che il tema è a tutt’oggi scivoloso se non incendiario. Il numero di coloro i quali, con il Virgilio dantesco, possono dire, alludendo a una primogenitura letteraria, che ‘li parenti loro furon lombardi’, e milanesi ‘per patria’ è cresciuto a dismisura, fino a costituire un vero e proprio limbo poetico, una specie di zona franca avvolta da un fitto nebbione in cui è difficile orientarsi. Già al canone minimo del ’52, che incrociava autori della terza e quarta generazione, si sono aggiunte figure nate quasi a ridosso di quella prima leva, e cioè tra la seconda metà degli anni Venti e la prima metà dei Trenta, come il comasco Giampiero Neri e i meneghini veraci Giancarlo Majorino, Giorgio Cesarano e Tiziano Rossi, che formerebbero una «seconda linea lombarda», nella quale pure c’è chi inserisce il milanese d’elezione Franco Loi23. Ma l’elenco comprenderebbe anche il quasi coetaneo Giovanni Giudici, anch’egli un ligure trapiantato nella città del Duomo, Giovanni Raboni, venuto alla luce nello stesso torno di tempo – il quale però, all’interno del denso autodafè curato da Patrizia Valduga per il mondadoriano Almanacco dello specchio 2006, in margine al concetto di linea lombarda ha dichiarato: «non ho mai capito bene cosa sia» – fino ad arrivare ai nati tra gli anni Quaranta e Cinquanta, che si agglutinerebbero, dunque, intorno a una teorica ‘terza linea’ (secondo un asse tripartito padri-figli-nipoti), composta da poeti come Maurizio Cucchi e Milo De Angelis, il quale, a sua volta, non solo si chiama fuori da questo solco, ma recide di netto il nodo gordiano della questione: «Non c’è nessuna Linea Lombarda»24.
Non resterebbe che parlare, allora, di una ‘linea d’ombra’. Del resto, Linguaglossa, che pure salta a piè pari il ‘lombardo’ Pusterla, a riprova di quanto la mappatura, sul fondamento del cronotopo anceschiano, di un arcipelago di nomi che ruoti intorno a un supposto mitologema ambrosiano non sia mai tutelata dal rischio di derive ora inclusive ora omissive, traccia una via alternativa, denominata «esistenzialismo milanese»25 in cui colloca non solo Cucchi e De Angelis, ma anche quel Neri con cui forti sono le consonanze, ne si accennerà più avanti, proprio con il poeta di Mendrisio26.
Ora, per sintetizzare con un’immagine figurata tutta la matassa che fin qui s’è cercato di sbrogliare, mi sia consentito di attingere a uno dei topoi più ricorrenti della, a questo punto, ‘famigerata’ linea lombarda, vale a dire l’acqua e dintorni. Si dirà allora che la sua onda lunga ha attraversato ora in profondità ora in superficie il terreno della discussione critica nella seconda metà del secolo passato fino a lambire il nuovo continente letterario che si è affacciato all’orizzonte con il terzo millennio. A partire dal ‘gran lombardo’ Sereni, il più autorevole esponente, quasi il nume tutelare, della generazione censita da Anceschi, fino appunto a Pusterla, che non a caso guarda al poeta degli Strumenti umani, se ne accennava sopra, come alla sorgente primaria della sua scrittura, un dato genetico persino programmaticamente esibito nella quarta di copertina della già citata antologia d’autore einaudiana. Anche perché Luino, che si trova quasi al confine con la Svizzera27, è emblematica proiezione topografica di quell’idea tutta sereniana di «frontiera» che allude non solo a una barriera fisica e spaziale ma anche intima ed esistenziale, «luogo estremo oltre il quale si schiude una promessa rischiosa di avventura e di scoperta»28.
Ma se si schiaccia la prospettiva limitando la visuale d’angolo al presunto epigonismo lombardo il rischio è quello di individuare di volta in volta il nuovo affluente che si getta in un fiume maestoso e dal corso perenne. Ridurre la vicenda creativa di un poeta a un’esperienza di fiancheggiamento finisce inevitabilmente per farla sentire come minore rispetto a una linea alta. Non è difficile immaginare che l’etichetta di ‘neo-lombardo’ sia un abito che starebbe stretto allo stesso Pusterla, proprio in ragione del rifiuto che gli appartiene da vicino di ogni arroccamento dentro il chiuso recinto di una ristretta identità geografica e culturale. Né gli si farebbe torto meno grave arruolandolo in una ‘linea ticinese’ o ‘cantonale’, magari insieme con quel Giorgio Orelli, unico non milanese e il solo ancora vivente dei sei poeti inseriti da Anceschi nella sua storica antologia29, conterraneo di Pusterla, e che Pier Vincenzo Mengaldo ha definito, per le interferenze dialettali della sua lingua poetica, un «lombardo di Svizzera»30, correggendo, o piuttosto integrando, la ben nota formula continiana di «toscano di Svizzera», complice questa volta il suo sermo purus31.
D’altra parte che una ‘funzione settentrionale’ o piuttosto (perché no?) ‘padana’ costituisca il sottotesto della scrittura pusterliana va pure riconosciuto. Se non altro per il motivo che è lo stesso interessato ad autorizzare questa lettura: «Uno dice “Lombardia”, ma solo perché ci è abituato; più in generale mi pare si tratti di una miscela di ingredienti: boschi, colline, fiumi e laghi, luci e ombre quasi mai troppo violente, colori che sfumano; e dietro a ogni cosa il senso di un passato, di uno scorrere, e un vago ricordo di coltivazioni, di campi arati»32. Si tratta, a ben vedere, di quel sentimento dei luoghi, di quella geografia degli affetti, di quella topografia dell’anima, di quel paesaggio di memorie condivise che Anceschi chiamava in causa per giustificare l’esistenza, pur con accenti diversi, di una comune poetica, compendiata e come scolpita in uno verso-manifesto di Sereni («E ci si sente tutti lombardi»), e nata, per ammissione stessa del suo fine teorizzatore, non già da una corale e premeditata spinta programmatica ma da un occasionale conversare amico e vacanziero in riva al lago. Una nozione un po’ peregrina, nebbiosa, vaporizzata, che può avere nella tecnica dello sfumato di Leonardo il suo termine di paragone pittorico. Un impasto di tonalità tenui e cangianti che vira al pastello espungendo dalla tavolozza le cromie forti e accese. Questo mood agisce nel poeta ticinese, specie agli inizi, con un certo grado di inconsapevolezza, quasi un moto spontaneo, irriflesso, dunque, benché mediato dalla lettura di Sereni e Orelli, che Pusterla convoca espressamente come suoi interlocutori più vicini per poi allargare l’orizzonte delle influenze letterarie a Manzoni e Parini, frequentati con regolarità anche grazie al lavoro di insegnante al liceo di Lugano33.
Insomma l’ottica sia pure ‘ingenua’ con cui Pusterla getta lo sguardo sul paesaggio, che è quello nordico tout-court, non può tuttavia disattivare il filtro della memoria letteraria (in primis di una ‘linea Sereni’), ma entro il reticolato di questa intertestualità, che per certi versi si rivela un’eredità scomoda e pesante, se non ingombrante, e che si nutre anche di echi e intarsi pregni di una certa allure letteraria - cavalcantiani («Chi è questo che fuma accanto a me…», Aprile 2006. Cartoline d’Italia, 5 da Corpo stellare)34, danteschi («scoscesa ripa prima», Val Trodo da Concessione all’inverno), leopardiani («odo greggi belar, muggire armenti», Nottetempo, ivi) e, andando a ritroso, persino esiodei («le nostre opere e i giorni», Presenze da Corpo stellare) – egli scopre una ‘linea’ immaginaria tutta sua, un meridiano zero, assoluto, un sincero timbro personale, una sua voce originale. Nella poesia in limine dell’ultima raccolta (Con piccole ali), quasi un avantesto, l’epicentro tematico è l’acqua. Il testo ha tutta l’aria di un omaggio indiretto ai ‘padri’ lombardi. L’ambientazione in riva al Po, sottolineata sin dal verso iniziale, richiama le atmosfere fluviali familiari alla cultura poetica insubre, ma contiene anche ascendenze ungarettiane35. Epperò questi cenni d’intesa con la tradizione non hanno mai l’aria del pillage, del saccheggio letterario, ma sono tuttalpiù permanenze che si depositano in fondo al ‘lago del cor’. E il «laghista» Pusterla, per dirla con un aggettivo caro ad Anceschi, che, letto con il senno di poi, sembra un’ironica errata corrige rispetto al ‘leghista’ sdoganato dal recente vocabolario politico, viene a galla a più riprese in questa silloge. Se non che la tematica lacustre è funzionale alla poetica del ‘sommerso’, per riattare il titolo di una sua precedente raccolta. L’acqua diventa lo spazio della riemersione, il luogo del riaffioramento di una memoria archeologica, di una preistoria sepolta dall’azione demolitrice del tempo e dell’uomo, responsabile di una lenta erosione del principio d’identità. È lungo questa linea di faglia che si registra uno smottamento, uno scarto rispetto all’amato Sereni, poeta della memoria storica. Pusterla è semmai il poeta della memoria geologica, della reminiscenza giurassica, della «realtà preapocalittica»36. Il ticinese non guarda a età passate, ma ad ere lontanissime. Sotto la superficie lacuale sta un precipitato di ricordi, un giacimento mnestico. È dentro questa sacca del tempo che si raccoglie il succo genuino secreto dalla sua viscerale investigazione poetica, che draga abissi secondo «una prospettiva verticale»37. Non gli interessa ciò che sta dopo la storia, ma ciò che sta prima. Il postmodernismo curva come un’ansa di fiume in pre-modernismo.
Il paesaggio distende le sue linee irte e aguzze, tra spazi silenti, appena mormoranti, vocianti, sferzati da gelide ventate o rotti nella loro muta fissità solo dall’urlo di qualche bestia morente, agonizzante, acquattata nel folto della boscaglia, come a covare tra pietre scabre e secche piante l’oscuro presagio di un agguato, di un ultimo disperato assalto. In questo fondale dai toni cupi e brumosi e dall’aspetto brullo, argilloso, riarso, la presenza antropica è rarefatta, percepibile appena come il respiro stanco della natura. E quando la figura umana prende la scena appare compresa della stessa inesorabile malinconia del paesaggio. Esemplare un incipit in litote come «Non serena la curva orientale degli occhi, non ilare il volto/ della donna ragazza» (Sul tram) che ricorda certi avvii martellanti sulla negazione di Fortini («Non questi abeti non/ il ribrezzo della cascara», Deducant te angeli da Questo muro)38. Sulla pagina scorrono in sequenza alberature magre e solitarie, pianure fredde e deserte, campi vasti e svuotati, casamenti nudi e grigi, impaginati con una precisione definitoria e un’asciuttezza cristallina che può fare il paio con il tratteggio fermo e nitido di un Erba o del ‘fratello maggiore’ Orelli. A un tratto, in mezzo a scenari anonimi e opalescenti, balugina il volo enigmatico di un passero, di un corvo o di un falco, epifanie che tuttavia una volta evaporate non fanno che addensare il senso di vuoto e smarrimento e che risentono verosimilmente di suggestioni neriane (si pensi al volo solitario della poiana, così caratteristico nel poeta di Erba, in particolare nei Paesaggi inospiti39) ma anche, ancora una volta, montaliane (si pensi a un verso come «e il falco alto levato» in coda a Spesso il male di vivere ho incontrato). La strategia del rinvio e dell’allusione, del resto inevitabilmente consustanziale a una figura di poeta-critico quale Pusterla è, «intellettuale e coltissimo» non meno del corregionale Orelli nel giudizio di Pier Vincenzo Mengaldo40, si concreta anche in un modulo del tipo «E tu pensi a certi fiumi» in Lungolago domenicale, di chiaro sapore ungarettiano. Qui l’intertestualità è vieppiù attivata sotto forma di risonanze, non parlerei di pose, neo-crepuscolari41, dal momento che vi si deposita al fondo quel «languore» – probabile ammiccamento, tra le altre cose, all’omonima e fin troppo celebe lirica di Verlaine, vera e propria affiche della corrente simbolista e decadente – che s’accompagna spesso alle ore pomeridiane del dì festivo, scandite dalla solitudine e dall’uggia, tema, questo, variamente sfruttato in autori come Moretti o Gozzano, a tal punto che li si potrebbe definire, con un innocuo calembour, poeti della domenica.
Ma risalendo la corrente che costeggia le sponde sedimentate dalla tradizione si impatta in isolotti vergini, autonomi. «Nelle fosse del lago un nastro riversa sterro, materiali di ripiena o di scarto»: ecco qui un basso ostinato della scrittura pusterliana, che è poesia di corrosione, poesia di reperto, poesia di scoria. I rottami poi ‘ossificati’ di Montale sono in questo caso più che una suggestione. Va detto che l’elencazione caotica e farraginosa del reale – per ritornare alla prima parte di questo saggio –, e cioè l’insistenza parossistica sulla catena associativa (copia verborum) che trasforma il mondo visuale di Pusterla in un repertorio seriale di oggetti, in un’epitome che asciuga la descrizione del paesaggio fino a farne una texture di segni puramente metonimici, è un tratto modulato e calibrato sull’orizzonte della linea lombarda42. Ciò che illumina le ragioni della poesia, che ne investe tessere e linee di svolgimento nell’arco di questa come di altre raccolte, non è tuttavia il recupero della memoria. La memoria non è che un compromesso fatuo tra conservazione e perdita. La consunzione delle cose, disfatte dal fluire del tempo, disinnesca lo sforzo di rimemorazione, vanifica l’opera di disvelamento. Lo scacco della parola si traduce in intransitività, indicibilità, inenarrabilità, aposiopesi. Di qui una similitudine del tipo «tace come una capra» nel secondo dei Sette frammenti della terra di nessuno, tratto da Folla sommersa, che ha l’aria di sintonizzarsi su Saba ma che è congeniale, neanche a dirlo, a un certo Orelli, quello della Sera a Bedretto in L’ora del tempo, che mette in scena all’ingresso di un’osteria un gregge di capre «lunatiche e pietose», mute messaggere di morte. L’esito delle epifanie subacquee è uno sgorgo che si prosciuga in fretta nel deserto di significazione della vita quotidiana. Tant’è che «deserto» è lemma-chiave in Pusterla43. Il suo fiume è un Acheronte contemporaneo in cui si riversa un «transito di esistenze». È il canale lungo il quale scorre la sua ‘morta poesì’. Questa «fiumana dolorosa» rasenta le paratie oltre le quali sembra schiudersi la promessa di un’«improbabile gioia». E tuttavia non c’è risurrezione o palingenesi, a differenza, per esempio, dell’amico Orelli che pure indulge a una topica fluviale in cui annegano immagini senza vita44. Laddove la lingua tace, safficamente s’inceppa, anche l’occhio s’ammutolisce, si riempie di foschia. Si spiega così l’insistenza sull’organo della vista45, che spazia su specchi d’acqua calati in un ambiente percepito nella sua immobilità senza tempo («Si guarda…il fluire dell’acqua. Si respira/ tutta l’assenza e tutta la presenza/ di qualcosa», Pont d’Arve), superfici stagnanti incapaci di restituire immagini nitide e significanti («conche di senso precario», Lezioni di nuvole), trasparenze sospese in attimi di assoluta impotenza, che s’apparentano a certe istantanee ‘liquide’ di targa fortiniana riflettenti l’ondivaga consistenza dell’io («Guardo le acque e le canne/ di un braccio di fiume e il sole dentro l’acqua.// Guardavo, ero ma sono», Il presente in Questo muro). La corrente trascina da inaudite lontananze povere cose e basta. I realia su cui Pusterla dirige la sua messa a fuoco sono stimmate della putrefazione, cose andate a male («avanzi di cibo», «carcasse di pesci e di animali», «verdure avvizzite»)46. Il male è disseminato ovunque come la zizzania nell’evangelico campo di grano. Gli effetti tossici di una crisi di sistema incancreniscono nel corpo della terra, segnato da cicatrici, mutilazioni e ferite. Si potrebbe parlare con Mattia Cavadini di «pietas ecologica»47, se non fosse che questo dare la parola agli oggetti, inscrivibile a pieno entro coordinate lombarde, denuncia, nell’accordare la sua preferenza al mondo dei rifiuti, una quasi feticistica attrazione per tutto ciò che è inquinamento merceologico, una sorta di sotterranea pulsione escrofila. Il poeta scava nel letame («Io scavo, scavo, non so perché», Bocksten I da Bocksten48), rovista in un immondezzaio in caccia pur sempre di un piccolo pertugio di umanità in cui infilarsi, di una cruna strettissima che immetta fin nell’intimo delle cose. Sicché tra le crepe si annida quasi come un aprosdóketon il controcanto della bellezza. Che se ne sta lì, sotto le «macerie» dell’incoercibile noia quotidiana, mentre tutto fuori appassisce e soffoca in un abbraccio mortale che sa di «pathos cosmico»49. Si fa strada allora la «dignità». La saldatura chiave è qui. Pasolini storceva il naso e la bocca di fronte alla «disperazione-rassegnazione» che filtrava attraverso la pagina dei lirici lombardi50. In Pusterla prende corpo al contrario un’ideologia ‘fortiniana’ della «Resistenza» come risposta alle convulsioni e alle contraddizioni del presente, come reazione alla rottamazione dell’etica. È questa la molla che tiene costantemente in tensione la sua scrittura. E che scatta soprattutto in quella suite di testi che sono «le poesie d’acqua», come le chiama Franco Buffoni51, che in Corpo stellare sostanziano in particolare la quinta sezione ma che gocciano un po’ ovunque. Si leggano versi come questi: «Le acque passano liete/ anche se sanno già tutto, e vanno verso/ l’inevitabile, col loro coraggio d’acqua, elemento liquido/ che deve correre al basso prima di salire» (Lezioni di nuvole). E perché non vedere qui una sollecitazione proveniente dal Luzi che identifica «il nostro stare al mondo» con il «tracciato di un corso fluviale che con pena, tra ristagni e flussi, distende le sue anse dalla sorgente alla foce e da questa risale verso il punto d’origine»52? Nel Pusterla ‘cercatore’ d’acqua53 l’essenza della vita è da rintracciare tra cose senza vita, tra una massa disanimata di oggetti che non servono più, ma che tuttavia sono quasi rivitalizzati dal moto continuo della corrente che trascina sotto gli occhi svagati del poeta il suo carico di memorie perdute verso chissà quali nuovi territori feritili di umanità54. Sgusciando torbida dal fondovalle, la parola s’arrischia d’un tratto verso una ignota vertigine d’altezza, ‘dislaga’.
------------------------------------------------
1 Marcos y Marcos, Milano, 2010.
2 Un’anticipazione di alcune liriche della nuova raccolta era apparsa già in «Atelier», 56, 2009, pp. 114-118 – in coda a una sezione monografica, corredata di bibliografia e antologia della critica, dedicata al poeta nato a Mendrisio nel 1957 – e nelle pagine finali (sotto la dicitura “Testi inediti”) dell’auto-antologia uscita lo stesso anno nella mitica ‘bianca’ di Einaudi (Le terre emerse. Poesie scelte 1985-2008).
3 Utile il confronto con l’endiadi antinomica «Ero un tumore e una stella» di Dopo trent’anni in Folla sommersa (Marcos y Marcos, Milano, 2004).
4 Una distinta eco del finale del celebre testo montaliano («ed io me n’andrò zitto/ tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto») risuona nella lirica I gesti del lavoro: «Allora non ho più peso e sono libero,/ in fondo al mio segreto quotidiano». Giova ricordare che Pusterla si è laureato con una tesi sul poeta dei limoni, relatrice Maria Corti, discussa all’Università di Pavia.
5 L’universo concentrazionario affiora altrove in Pusterla, come nell’istantanea della piccola Anna Brichtova, morta nel campo di Terezin a Praga (Visita notturna in Le cose senza storia, Marcos y Marcos, Milano, 1994).
6 E si veda una lirica come A un liceale annoiato: terzine, contenuta in Folla sommersa, dove il poeta invita l’interlocutore a prestare orecchio al «grugnito animale della storia/ umana».
7 Vittorio Sereni, Poesie, a cura di D. I., con la collaborazione di Clelia Martignoni, Einaudi, Torino, 20022, pag. 170.
8 I versi «Ma io sono un coglione, e di questo mi vanto» sono una verisimile allusione alla denigratoria definizione degli elettori di sinistra pronunciata dall’ex capo di governo durante un comizio elettorale.
9 Cfr. F. Pusterla, Le ragioni di un disagio: dubbi metodologici sulla «letteratura della Svizzera italiana», in AA.VV., Lingua e letteratura italiana in Svizzera, Atti del Convegno dell’Università di Losanna, Casagrande, Bellinzona, 1989 pag. 60.
10 A questo discepolato ideale il poeta di Mendrisio accenna con calore umano nella Testimonianza premessa a Il nervo di Arnold. Saggi e note sulla poesia contemporanea, Marcos y Marcos, Milano, 2007, pp. 22-23. Non ci si allontanerebbe dal vero nel dire che a instradare Pusterla verso la poesia è stata propria la lettura di Fortini, dalla quale l’‘allievo’ confessa di essere rimasto «affascinato», in quanto ha significato per lui «lo schiudersi di un mondo; di una finestra sul mondo». La vicinanza con il poeta fiorentino è anche il frutto di un particolare biografico: dopo l’armistizio, Fortini riparò in Svizzera. Sugli accenti fortiniani presenti nella scrittura di Pusterla poggia la sua analisi Andrea Afribo, che trasferisce pari pari all’autore di Corpo Stellare quello che Pier Vincenzo Mengaldo (Poeti italiani del Novecento, a cura di, Mondadori, Milano, 1978, pag. 831) scrive a proposito dell’autore di Foglio di via: «politico e allegorico anche quando parla di alberi fiori e nidi» (Poesia contemporanea dal 1980 a oggi. Storia linguistica italiana, Carocci, Roma, 2007, pag. 116). E osserva Pietro Montorfani che in Pusterla si avverte «il bisogno urgente di una passione comune, di un discorso “politico” nell’accezione più alta possibile (civile, umana, religiosa) di questo aggettivo» (Fabio Pusterla: l’emersione di un itinerario, «Atelier» 56, 2009, pag. 91).
11 Casagrande, Bellinzona, 1985 (con prefazione di Maria Corti). Il libro, uscito nella collana «Versanti», vinse il premio Montale l’anno successivo.
12 Annota di suo pugno l’autore: «Con il nome scientifico si maschera il primo di una lunga serie di termini sdruccioli: cimici, in quasi rima con la parola finale del testo (politici). È voluta questa quasi rima? È voluta». (F. Pusterla, Le terre emerse, cit., pag. 198).
13 «…rinnovata nelle tue vacche».
14 Si veda da ultimo Uberto Motta, Vittorio Sereni e i poeti della “linea lombarda”, in Il canto strozzato. Poesia italiana del Novecento. Saggi critici e antologia di testi, a cura di Giuseppe Langella e Enrico Elli, Interlinea, Novara, 2011 (quarta edizione aggiornata), pag. 192. Mengaldo, allungando lo sguardo fuori dai confini cantonali, fa di Pusterla «il maggior poeta» esistente «fra i coetanei in lingua italiana», che si caratterizza per un’«estraneità complessiva» rispetto agli autori più vecchi di lui, «compresi quelli lombardi» (cfr. Fabio Pusterla in Giovanni Bonalumi, Renato Martinoni, P.V. M., Cento anni di poesia nella Svizzera italiana, Dadò, Locarno, 1997, pag. 395 e pag. 398).
15 Linea lombarda, Sei Poeti a cura di Luciano Anceschi, Magenta, Varese, 1952.
16 La fine della linea lombarda, 55, 2009, pp. 6-7.
17 Va detto che Merlin ha dedicato ampio spazio a Pusterla in Poeti nel limbo. Studio sulla generazione perduta e sulla fine della tradizione, Interlinea, Novara, 2005, pp 112-118.
18Alfredo Giuliani, Poeti del secondo Novecento, in Le droghe di Marsiglia, Adelphi, Milano, 1977, pp. 215-216.
19 Di «piena affidabilità etica dell’intonazione» parla ad esempio Roberto Galaverni (Note in margine a “Pietra sangue” di Pusterla, in Dopo la poesia. Saggi sui contemporanei, Fazi, Roma, 2002, pag. 238). Non diversamente da lui, Giorgio Luzzi batte il chiodo dell’«inquietudine civile» (Fabio Pusterla in Poesia italiana 1941-1988: la via lombarda, Marcos y Marcos, Milano, 1989, pag. 280).
20Implicazioni di una linea lombarda, ora in Passione e ideologia (1948-1958), Garzanti, Milano, 1973, pp. 429-436. In realtà la scure censoria di Pasolini sì abbattè non tanto sull’impianto formale e metodologico del libro, da lui definito «uno dei più rigorosi (…) che siano usciti in questi ultimi anni», quanto sui contenuti espressi dagli autori antologizzati, cui veniva contestato «il regresso rispetto alla letteratura montaliana» (pag. 436).
21 Dalla lirica al discorso poetico. Storia della poesia italiana (1945-2010), Edilazio, Roma, 2011, pag. 18.
22 Ivi, pag. 17.
23 Cfr. diffusamente Victoria Surliuga, Figure della seconda linea lombarda: L’opera di Franco Loi, Giancarlo Majorino, Giampiero Neri, dissertazione, RutgersUniversity, New Brunswick, New Jersey, 2000-2003.
24 «Spesso la critica – sono sempre parole di De Angelis – cerca analogie tra poeti che hanno fatto insieme una rivista, hanno vissuto negli stessi luoghi, hanno condiviso una certa idea di poesia. Nulla di più errato. Le analogie sono imprevedibili. (…) Cucchi è nato dalle parti di Federico Tozzi, Raboni è più prossimo a Luzi che a Luciano Erba, come Neri è più vicino a Magrelli che a Majorino» (Carla Gubert, Dialogo con Milo De Angelis su “Niebo”, in Colloqui sulla poesia. Milo De Angelis, a cura di Isabella Vincentini, La Vita Felice, Milano, 2008, pag. 181).
25 Si tratterebbe di «un esempio di scrittura topologica e tematica», situata «mezza strada tra proto minimalismo ed esistenzialismo» (G. Linguaglossa, op. cit., pag. 179).
26 Per un panorama ancora più allargato del ‘secondo tempo lombardo’, che abbraccerebbe anche il siculo-milanese Bartalo Cattafi, il viserbese Elio Pagliarani (scomparso pochi mesi fa), il lodigiano Sandro Boccardi, il bresciano Lento Goffi (caro tra l’altro a Pusterla) e il romano di Gallarate Franco Buffoni (altro compagno di strada del poeta ticinese) cfr. ampiamente Giorgio Luzzi, Poeti della Linea lombarda.1952-1985, Cens, Milano, 1987.
27 Alle frequenti sortite di Sereni in quell’«angolo di terra “lombarda”» che è il Canton Ticino accenna Isella (Vittorio Sereni, cit., pag. XIV).
28 F. Pusterla, L’inferno è non essere gli altri. Scrittura poetica, traduzione e metamorfosi dell’io, in Il nervo di Arnold, cit., p. 295.
29 Oltre a Sereni e Orelli, Luciano Erba, Nelo Risi, Renzo Modesti e Roberto Rebora. Tutti nati negli anni Venti, a eccezione di Sereni e di Rebora (nipote di Clemente), il più anziano del gruppo, e del quale, proprio quest’anno, cade il decennale della morte.
30 Vale la pena evidenziare che a livello di auto-identikit l’espressione figura in una lettera scritta a Bellinzona il 2 febbraio del ’67 e indirizzata dallo stesso Orelli a Maria Corti («noi lombardi della Svizzera»): cfr. Nicoletta Leone, Spigolature ticinesi nell’epistolario a Maria Corti, «Arte & Storia», 30, sett.-ott. 2006, pag. 86.
31 Cfr. P.V. M., Giorgio Orelli traduttore di Goethe, in Premio Città di Monselice per una traduzione letteraria. Atti del XXVIII Convegno sui problemi della traduzione letteraria: Goethe traduttore e tradotto, vol. XVII, Il Poligrafo, Padova, 2003, p. 245. L’«inserimento» di Pusterla nella linea lombarda «va comunque considerato con molte cautele» e «in ogni caso non esaurisce le prospettive e le collocazioni culturali della sua esperienza poetica» (Poeti italiani del secondo Novecento, vol. primo, a cura di Maurizio Cucchi e Stefano Giovanardi, Mondadori, Milano, 1996, pag. 195).
32 Riccardo Ielmini, Intervista a F. Pusterla, «Atelier», 56, 2009, pag. 81. E si vedano questi versi: «Un salice/ s’incurva, e questo senso/ di vastità e d’angustia, un desiderio/ fluviale, Lombardia o Svevia…» (Sera dei morti a Tübingen, da Folla sommersa).
33 R. Ielmini, Intervista, cit., pag. 81. Per questa visione a maglie larghe, latamente inclusiva della lombardità, che affonda le sue radici nei classici della tradizione, si veda anche Alfredo Giuliani, Poeti del secondo Novecento, in Le droghe di Marsiglia, cit., pp. 215-216).
34 Pietro Montorfani (Fabio Pusterla: l’emersione di un itinerario, «Atelier» 56, 2009, pag. 91) vi ha scorto la mediazione dell’Orelli di Sulla salita di Ravecchia ne Il collo dell’anitra («Chi è questo che viene…»). Ma si veda anche un verso pusterliano come «E Cavalcanti/ padre /stavolta avrà sorriso» (in Congedo da Maria di Folla sommersa), dove, tra l’altro, la mise en relief del lemma “padre” attraverso il ricorso all’enjambement, tanto da ottenere un verso monoverbale, accentua il già di per sé chiaro rinvio al canto decimo dell’Inferno, tutto giocato sul capovolgimento dell’umore di Cavalcante dei Cavalcanti, che in Dante ripiomba nell’arca infuocata accanto a Farinata affranto dall’erronea convinzione che il figlio Guido sia morto.
35 Cfr. Sibilla Destefani, “Corpo stellare”. Letture pusterliane, diss., Facoltà di Lettere dell’Università di Ginevra, giugno 2011, pag. 6.
36 Rubo l’espressione a Mauro Bersani, rec. a F. P. Concessione all’inverno, «Alfabeta» 81, 1986, pag. 16.
37 Dopo la lirica, Poeti italiani 1960-2000, a cura di Enrico Testa, Einaudi, Torino, 2005, pag. 396.
38 Ma si vedano anche sintagmi montaliani in apertura di testo come «Non il grillo ma il gatto» (A Liuba che parte) o al mezzo come «Non torba m’ha assediato, ma gli eventi» (L’alluvione ha sommerso il pack dei mobili).
39 Mondadori, Milano, 2009. Anche la poiana, rapace diurno assai diffuso nei territori alpestri, fa parte del ricco bestiario pusterliano («È un temporale d’agosto il suono breve/ sulle ringhiere a picco verso il lago,/ il vortice più scuro che rinfresca,/ un tuffo di poiana», Sotto il giardino, VII, in Le cose senza storia).
40 Poeti italiani del Novecento, a cura di P.V. M., Mondadori, Milano, 1978, pag. 818. Lo stesso Orelli, d’altra parte, nel recensire il libro d’esordio di Pusterla, ha messo l’accento sulla sua raffinata educazione letteraria pescando puntuali parallelismi con la tradizione alta, da Montale al Dante infernale (Poesie di uno svizzero inquieto, «Autografo» 6, 1985, pp. 18-20).
41 La matrice «indirettamente (vorremmo dire psicologicamente) crepuscolare» era già per Pasolini un’incontestabile chiave di lettura della poesia lombarda (cfr. Implicazioni, cit., = Passione e ideologia, cit., pag. 431) e al tempo stesso ne costituiva il suo peccato d’origine, la genesi ‘regressiva’, in quanto «ritorno a un crepuscolaresimo che in sede morale rappresenti un vizio, un’acquiescenza colpevole alle cattive soluzioni del secolo» (pag. 436).
42 Su questo aspetto si veda almeno Tommaso Lisa, Le poetiche dell’oggetto da Luciano Anceschi ai Novissimi: linee evolutive di un’istituzione della poesia del Novecento (con un’appendice di testimonianze inedite e testi rari), Firenze, Università degli Studi, 2007, pp. 44ss.
43 Lo ha notato anche Roberto Galaverni in margine alla poesia di Neri (Giampiero Neri: come attraversare il deserto, in Dopo la poesia. Saggi sui contemporanei, Fazi, Roma, 2002, pp. 149-161).
44 Sulla poesia come strumento in Orelli che assicuri «una incorporea risurrezione» agli oggetti cfr. Pietro De Marchi, Una cosa che comincia con la “r” in mezzo. Sul tema della morte in Giorgio Orelli, «Zeta», 17-18, 1996, ora in P. De M., Dove portano le parole: sulla poesia di Giorgio Orelli e altro Novecento, Manni, Lecce, 2002 pag. 27.
45 «Ma la cosa che davvero colpisce è la presenza continua della voce, anzi di un tono espressivo che evoca istantaneamente l’apertura dello sguardo, come se il poeta dicesse, in primis a se stesso, proviamo a guardare, a vedere, a sentire che ne è, dopo tutto, qua dentro o là fuori, di me, di tutti noi» (Massimo Raffaelli, Il ticinese Fabio Pusterla, la vita è un lungolago, «Alias», suppl. al «Manifesto» del 7 agosto 2010, pag. 14).
46 Può valere anche per Pusterla ciò che Daniela Marcheschi scrive a proposito della sfera del poetabile di Neri: «Oggi, animali, persone di ieri e di oggi: tutti, in vario modo, spurghi del tempo, della sua macina inarrestabile che abbandona qua e là i propri avanzi» (La memoria e l’orrore della storia. Tre interventi per Giampiero Neri, «Kamen’», 2, 1992, pag. 62).
47 Il poeta ammutolito. Letteratura senza io: un aspetto della postmodernità poetica. Philippe Jaccottet e Fabio Pusterla, Marcos y Marcos, Milano, 2004, pag. 157.
48 Marcos y Marcos, Milano, 1989.
49 Gianni Turchetta, rec. a F. Pusterla, “Bocksten”, «Belfagor», a. 45, n. 3, 1990, pag. 356.
50 Op. cit., pag. 435.
51 “Bocksten” di F. Pusterla, «Poesia», 27, 1990, pag. 61.
52 Salvatore Francesco Lattarulo, Le «sassifraghe» di Giacomo Leronni, «Capoverso», 18, 2009, pag. 75. Alle umili «sassifraghe» di luziana memoria Pusterla allude, tra l’altro, in Appunti della sabbia di Folla sommersa.
53 «L’acqua, si pensa all’acqua che non c’è./ Cercare l’acqua, sempre » (Galleria dell’evoluzione, 4).
54 Come in una sequenza di Bocksten che recita «se il senso è questo allora tutto ha un senso,/ lo dice l’acqua che scivola tranquilla/ e i rami rotti che trascina il fiume» e che sembra portarsi dietro la suggestione del sereniano Settembre di Frontiera («il lago un poco/ si ritira da noi, scopre una spiaggia/ d’aride cose,/ di remi infranti, di reti strappate»). Scrive inoltre Pusterla: «Come quando lo scorrere anonimo e pacifico – perché non realmente avvertito, vissuto, ma solo distrattamente osservato – dell’acqua di un fiume prende vita e realtà grazie a un dettaglio qualunque (un ramo, un riflesso, che danno concretezza sensoriale all’idea del trascorrere: li vedi danzare, sparire per sempre)» (Appunti della luce in Folla sommersa).
Download:
Scarica l'allegato