Vincenzo Guarracino per "Malattia e morte di Giacomo Leopardi" di Erik Sganzerla
![]() Malattia e morte di Giacomo Leopardi
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autori: | Erik Pietro Sganzerla |
formato: | Libro |
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Molti gli scrittori, medici e non, che si sono occupati, a vario titolo, dei malanni di Giacomo Leopardi, a partire dal recanatese Mariano Luigi Patrizi che aveva dedicato all’argomento un Saggio psico-antropologico su Giacomo Leopardi e la sua famiglia, con documenti inediti, edito nel 1895 in Torino, da Bocca, un libro famoso (o famigerato), in cui delle malattie, reali o presunte, di Giacomo si rintracciavano, con ottica prettamente positivistica, manifestazioni e sintomi i più diversi anche nell’albero genealogico (tanto da aver suscitato interesse anche nel Lombroso, di cui il Patrizi era stato, oltre che allievo, successore nella cattedra torinese di antropologia criminale), non meno famoso (e famigerato) dei pressoché contemporanei Le origini psicologiche del pessimismo leopardiano (1898) e Leopardi al lume della scienza (1899)di Giuseppe Sergi, fondatore della psicologia scientifica italiana. Ipotesi, specie quella del Patrizi relativa a fattori genetici ereditari, ripresa ancora nel ‘900 da Luigi Masciangioli (Il morbo che spense Leopardi, 1937).
A fare il punto sulla faccenda giova un libro di Silvestro Baglioni, Le malattie di Giacomo Leopardi,edito nel ’38 dalla Tipografia Guggiari di Roma, con ampia discussione e confutazione di tutti i precedenti risultati diagnostici clinico-psichiatrici, prima che a riassumere l’intero stato della questione si è applicato in tempi più vicini a noi M. Picchi, in Storie di casa Leopardi (1986), in particolare nel capitolo “Psichiatri e medici” (pp.291-327).
Un contributo importante, dal punto di vista medico, è quello più recente di Erik P.Sganzerla, che con Malattia e morte di Giacomo Leopardi (2016), accompagnato da un avallo critico importante, quello di Armando Torno, sembra dire una parola definitiva sull’argomento delineando una cartella clinica davvero inquietante, con sintomi che, dall’età infantile in poi, sono andati segnando la vita del Poeta per accompagnarlo fino alla morte, il tutto indicato con un linguaggio assolutamente scientifico, senza lasciare nulla al campo delle ipotesi, come si addice a un clinico rigoroso.
L’autore, neurochirurgo di riconosciuta competenza e professionalità nella sua qualità di direttore della Clinica Neurochirurgica dell’Ospedale San Gerardo di Monza, traccia infatti un quadro ampio e dettagliato dei numerosi problemi fisici che affliggevano Leopardi, “affetto da una pneumopatia restrittiva con insufficienza respiratoria cronica, aggravata da episodi infettivi intercorrenti”,a causa di una “spondilite anchilopoietica a esordio giovanile”, non curata e progressivamente degenerata, tradottasi in un forte disagio esistenziale e nella riconosciuta e ben nota disperata sofferenza riflessa nella sua poesia, al punto da provocare, come causa della morte, uno “scompenso cardiorespiratorio terminale in paziente affetto da cuore polmonare e possibile miocardiopatia”.
Sganzerla, a queste conclusioni perviene fondandosi, da buon clinico, su tutto quanto può essergli di aiuto (lettere), testimonianze coeve (familiari, conoscenti e amici, soprattutto Ranieri), documenti diretti e indiretti, varia saggistica critica e biografica. Non certo riscontri oggettivi, impossibili da ottenere, e neppure referti, autopsie, resti ossei (questi ultimi, soprattutto, essendo assolutamente improbabili per via di manipolazioni e trafugamenti), ma indagati con onestà scientifica e acume intellettuale. Particolarmente convincente la sua conclusione riguardo al suo atteggiamento mentale definito “un realistico anti-ottimismo”, di contro alla diagnosi di “depressione psicotica”, stilata superficialmente da alcuni (vedi Citati), se non alla classica e scolastica vulgata del “pessimismo” (storico o cosmico che sia).
“Spondilite anchilopoietica a esordio giovanile”, dunque, come un responso definitivo e inappellabile: al di là di tutto, è una sentenza che lascia emergere e conferma l’immagine di un uomo per sempre ripiegato su se stesso, sui propri mali, intento ad auscultare i “moti del cuore”, tal quale lo vediamo nei Canti (penso in particolare a “Solo il mio cor piaceami, e col mio core / in un perenne ragionar sepolto, / alla guardia seder del mio dolore”, Primo amore, vv.82-84), e la poesia ne acquista umanissimo risalto.
Con in più, oltre la franchezza e durezza scientifica della diagnosi, un dato che val la pena di sottolineare, l’aver incontrovertibilmente risolta una questione abbastanza delicata, legata a una lettera inedita di Giuseppe Rovani del 1851 a Carlo Tenca, con cui si apre uno squarcio sul rapporto “tra spirito e materia”, tra i mali di cui soffriva il “prodigio di Recanati” e le conquiste della sua lirica e del suo pensiero.
VINCENZO GUARRACINO