Gabrio Vitali per Vito Russo con «Del buio e della luce»
![]() Del buio e della luce
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autori: | Vito Russo |
formato: | Libro |
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“La statura delle cose che accadono”
ell’alternarsi continuo del buio e della luce si dipana la permanenza delle cose quotidiane della vita e, insieme, si svolge il loro trascorrere; e la parola poetica di Vito Russo insegue quelle cose non per fissarle o trattenerle, ma per accompagnarle con dolcezza per come sono nel loro presentarsi all’esperienza, senza farsi lusingare, o irretire, da ipotetiche gradazioni d’importanza o da fallaci gerarchie di valore. Solo varia, nella scrittura del verso, il ritmo del respiro poetico, come a registrare il diverso adagiarsi del pensiero nel suono della voce che semplicemente dice quello che avviene. «Raccolgo i frantumi / di quello che accade. Mi ostino a ricomporli. / In certi momenti tutto è chiaro»: il senso delle cose è nella calibratura di tono della voce che le dice, non le è aggiunto dopo o caricato sopra.
La fioritura dell’acacia è in ritardo quest’anno. Nes-
suno sembra essersene accorto, eppure le tangenziali
non hanno lacrime da piangere, solo gocce di sudore
sulle tempie. È come se fosse saltato l’accordo che ci
rende parte del mondo. Invidio la capacità dei vecchi
di osservare il vuoto dai balconi, con il palmo d’una
mano sulla tempia. Io guardo i loro occhi che guar-
dano la luce opposta degli amanti.
La grammatica della vita che l’autore assume nel suo nuovo libro Del buio e della luce (La vita felice, 2023) è, infatti, la stessa di sempre e di tutti; diversa è la sintassi in cui viene impiegata per provare a cogliere «la statura delle cose che accadono». Non ci sono artifizi retorici nella voce poetica di Russo, non ci sono acuti o abbassamenti dell’emozione, non ci sono azzardi semantici o slanci d’intensità lirica, ma metrica e prosodia procedono alternandosi in modo ondulare, dal verso alla prosa e dalla prosa al verso, per l’intero tessuto narrativo del libro, diluendo così in ogni sua parte – compresi i passaggi più drammatici – emozione, intenzione semantica e intensità compositiva di cui sopra.
Per via di questa postura poetica di Russo, accadono dentro la misura tonale della scrittura anche gli effetti stranianti che sorprendono all’improvviso e si incontrano dappertutto nel libro, disseminandovi impreviste dilatazioni e intensificazioni di senso possibile: «mangi un gelato e mi dici “Papà / vorrei essere un mare per non morire mai”», oppure: «Oltre i vetri / osservi i ciclamini, i primi autobus, la scritta bianca / del supermercato. Mi insegni di nuovo / la meraviglia e l’abitudine», oppure ancora: «Non si conosce il fiato della notte» e ancora: «Io di morire non ho più voglia».
Nella sezione d’apertura del libro, Qualcosa di nascosto, la parola poetica trae dal buio e riveste di luce che non brilla, ma avvolge i paesaggi del quotidiano e ne fa la triste scenografia di un’esistenza che si passivizza nel grigiore e si abitua a contatti frettolosi in cui «Spesso ci si lascia senza salutarsi, sorpresi dai Monte- / negro, dal calcolo dei gesti e dell’attenzione»: sono i paesaggi urbani («dalla fessura della finestra si vedono le luci gialle, / ogni albero un frastuono di gomma e di metallo. / Le cicatrici aperte nella notte: tre o quattro scritte / di compagnie telefoniche rosse e arancio. Ѐ il quadro / immobile da fine dell’impero che avvolge la notte»); sono quelli delle autostrade e delle tangenziali («Senigallia / e poi Ortona sono nevrosi sulla mappa / all’ingresso dell’autogrill»); sono quelli delle periferie degradate («A ridosso dei quartieri popolari i resti / industriali, amianti, vetri, ruggini, lamiere») e anche quelli delle native campagne pugliesi (e qui con qualcosa in più di lancinante, come un mal di testa):
L’aria gelida entra nella scatola cranica dalle tempie
molli per l’acqua e disorienta, provoca emicranie.
Ai lati delle strade che portano allo Ionio
stanno le piante dei fichi d’india, tra i muretti
a secco, le spugne dei sedili posteriori.
Anche il sottosuolo del mondo inghiotte
rifiuti inorganici,
carcasse di lavatrici
nuove di zecca, fertilizzanti, fanghi industriali.
Si nasconde tutto per non vedere.
Si susseguono poi, nel libro, altre sezioni (Del sonno e della veglia e Il seme che non genera) dove, sullo sfondo degli scenari prima individuati, «la tragedia quotidiana / si fa abitudine, / resiste all’amore come alla morte», lungo «l’alternanza irregolare del sonno / e della veglia», e sfibra corpi e pensieri, accentua insufficienze e distanze, insterilisce gesti e sentimenti, fa della memoria un’eco arrocchita che più non vivifica il presente, impedisce alla parola di svincolarsi da ossessioni e automatismi per continuare a raccontare le possibilità di un senso, la voglia di un futuro:
È rimasto soltanto il letto
di sassi e di rovi
del fiume
ai bordi del quale camminare per ore,
e la voce di mia madre che mi diceva
che certa gente non è brava gente,
e mio padre: dai sempre più di quanto ricevi.
E poi viene il sudore sulla fronte,
il fiato si fa corto per il fumo.
Il ponte della statale interrompe il sentiero.
Mi ossessiona l’assenza di futuro.
E la morte che «ci attraversa ogni giorno» si prende tutta la scena nel racconto del dolore di padre per un bimbo nato morto, che occupa la quarta sezione della raccolta (Diario della morte e della vita), dove la poesia rinuncia ad ogni musicalità di canto e raggela il suo respiro in una prosa distanziante, dove la paratassi controlla l’emozione di chi scrive, trattiene quella di chi legge e mantiene la parola sul saldo crinale egualmente lontano dal silenzio dell’annichilimento e dal grido della disperazione. Sono parole che attraversano il nulla e la desolazione per riportarli dentro la sintassi tenace della vita:
«Nei giorni più brutti, mentre mia moglie era in ospedale, ho passato del tempo con lei, spesso in silenzio, ho sentito pochi amici, alcuni colleghi, ho cercato di distrarmi con alcune telefonate di lavoro, ho passato del tempo da solo, ma sempre in azione. Soprattutto ho sentito crescere definitivamente l’amore per mia figlia […] La sera abbiamo lavato i denti insieme, l’ho accompagnata a una festa, mi ha abbracciato come non mai, abbiamo dormito insieme abbracciati a un peluche. Tutte cose che avevamo già fatto, ma che adesso ci attraversavano con una profondità prima impensabile. Come ci attraversa ogni giorno la morte. E la vita».
L’irrompere della tragedia scardina le coordinate dell’esistenza e la devastazione si diffonde nell’orizzonte prossimo e inficia quello più lontano. Così, in Costellazioni, la quinta sezione del libro, c’è tutta la malinconia per lo scivolare di cose e fatti della vita che, dalla luce dove si manifestavano, raggiungono lentamente l’ombra del loro esaurirsi e del loro sparire: «si consumano gli amori. Quelli non dati, / i malcreati, / quelli che finiscono»; si confondono le prospettive dello spazio e i piani del tempo: «La panchina ha cambiato direzione. / Pure le costellazioni si son messe di traverso», oppure «Sono saltati tutti i piani. E allora / starò in giardino, perché come un ulivo vivo / di terra e di luce». Capitano cambiamenti di percezione di sé e degli altri: «tu insegui ammaole [fingimenti, imbrogli] / e sovrastrutture, io adoro il citazionismo, / gli enjambement e la gatte morte», oppure capita di «Sentirsi parte di un’abitudine indesiderata, / una condanna, un lavoro malcapitato, una cattiva / sorte».
Tuttavia, è proprio «al buio che la realtà / come un cinema si lascia guardare» e nel silenzio può accadere che «Un giorno si apre / un libro ed è un verso a scegliere, a passare il segno / tracciato dall’ombra, finché una voce / si fa urgenza, occhio che osserva / e tace grigio smeraldo». E allora, piano piano, «Il verso incespica (respiro corto, / a capo spesso), libera dal male e dal bene», e si torna ad essere «poeta per la prima volta», che cioè scrive la vita come una prima volta e ne rinnova il valore e la bellezza. Si capisce, così, che «Forse ci salverà l’amicizia, l’alternarsi / del silenzio e della parola». La poesia, come sempre, ritrasforma la vita in esperienza e la partecipa a chiunque la voglia leggere.
Per questo, nell’ultima sezione del libro, La misura del padre, la scrittura prosimetra di Vito Russo può recuperare la relazione fra passato e futuro, fra radici e ali, nella rielaborazione di una figura paterna che recupera il proprio esser stato nelle parole e nel ricordo del genitore («Rinasco ogni giorno, desidero perché sono padre, / sono figlio […] Non so chi dei due abbia trasmesso / all’altro un qualcosa») e che riapre il proprio poter essere nelle storie che di nuovo possono venire raccontate a una figlia («Ci stringeremo forte ogni sera che si può. / Inventeremo storie, tu, e giochi. Cercheremo la luna / e pesci immaginari nell’acquario»).
La poesia rinnova, così, la sua precipua funzione di senso che dall’esperienza del poeta si consegna a quella del lettore perché la assuma nella propria vita e ne comprenda e condivida, comunque vadano le cose, il valore. E questo vale anche se l’esperienza è corale, come in pandemia:
Quando leggo certe parole sgangherate,
quell’a capo, è come ritrovarti. Ne ho viste tante,
e di silenzi sui muri e nei telegiornali.
Ho ripreso dopo anni a leggere i quotidiani
oscuri, di quotidiani bilanci
di terapie intensive e intense morti.
Ho litigato anche con donne e uomini
e non me ne importava nulla. Perché contano
soltanto le tue di parole e numeri e voce che mi dice
«Grazie papà per questa nuova storia».