(di Paolo A. Paganini) – Nella sua scombinata esistenza, tragica e vagabonda, Arthur Rimbaud (1854-1891), genio precoce della poesia francese, a 19 anni aveva già scritto tutto. Poi spezzò definitivamente la penna.
Visionario e ribelle contro ogni imposizione familiare, religiosa e politica (venne attratto, ancor giovanissimo, dagli ideali rivoluzionari della “Commune” di Parigi), mai acquietò le sregolate inquietudini, le turbolenze di una mente avida di scoperte e di sperimentalismi linguistici. I non angelici fantasmi del suo mondo poetico non gli furono di aiuto. E tanto meno l’iracondo Paul Verlaine, altro tormentato poeta “maledetto, iracondo compagno in dissolutezze”, con il quale ebbe una burrascosa convivenza sentimentale, tra ambigue frequentazioni, alcol, droga, fughe, litigi e colpi di pistola.
Forse nei viaggi – o nella fuga – trovò un’illusione di pace, dopo il suo addio alla poesia. Fu un instancabile viaggiatore, tra Europa e Africa, per terra e per mare, dall’Indonesia all’Abissinia, da Giava a Cipro. Mercante e avventuriero più che turista, si mantenne anche come insegnante di francese o come trafficante d’armi o venditore di spezie e pellami.
Tutto il suo mondo poetico fu solo in una striminzita manciata d’infuocati anni adolescenziali, come racchiusi in un prezioso scrigno d’eternità poetica.
Bastarono a collocarlo tra gli scrittori “maledetti”, e, insieme con Mallarmé, Baudelaire e Verlaine (che inventò la definizione), fu tra gli innovatori del linguaggio poetico moderno.Dalle prime poesie (1869-1871) all’ultima opera, “Une saison en enfer” (1873), rivelò, pur nella precocità dei suoi pochi anni, uno stile duro e possente, un grandioso e immaginifico simbolismo, con temerarie trasposizioni verbali, sperimentali sonorità vocaliche, audaci inversioni di termini, e perfino teorizzò su una propria poetica della “veggenza”, esposta in una originale lettera-manifesto, con intuizioni che verranno più tardi riprese da altri (anche dal quasi contemporaneo Giovanni Pascoli): una veggenza tra dissoluzione e dissolutezze, “par le dérèglement de tous le sens. (“Il Poeta si fa veggente mediante un lungo, immenso e ragionato sregolamento di tutti i sensi…” – Lettera del Veggente – a un amico – 15 maggio 1871).
Poi calò la tela per sempre sulla vertiginosa rappresentazione della creatività poetica di Rimbaud.
Percorse altri percorsi, perdendosi in altri stordimenti, lasciando alla storia della poesia, come un emblema, come un simbolo o come una ferita o come una condanna o come una dannazione, quella sua ultima opera, Une saison all’enfer, Una stagione all’inferno: drammatica costatazione di una sconfitta, di una disperata e inutile ricerca di bellezza (consapevolezza dell’inutilità, ammetterà). La tragica chiusura della Saison, sarà un Addio (Adieu, avril-août, 1873), amaro sapore non di un testamento poetico ma di una fede rinnegata o smarrita o tradita, un addio a un’epoca della sua vita. Un’epoca che, forse, avrà rimpianto, negli anni che gli rimanevano da vivere, fino alla disperata fine dell’esistenza in un letto d’ospedale.
In quel suo prematuro Addio alla poesia (aveva solo 19 anni), scriverà:
“J’ai essayé d’inventer de nouvelles fleurs, de nouveaux astres, de nouvelles chairs, de nouvelles langues. J’ai cru acquérir des pouvoirs surnaturels. Eh bien! Je dois enterrer mon imagination et mes souvenirs…”
Ho tentato d’inventare nuovi fiori, nuove stelle, nuove carni, nuove lingue. Ho creduto di acquisire poteri soprannaturali. Ahimè! Devo sotterrare la mia immaginazione e i miei ricordi…
E se, invece, li avesse davvero inventati, senza accorgersene, facendoli inconsciamente vivere nei fantasmi della poesia?
Se poi, dalla terra, avessero cominciato davvero a germogliare e a sbocciare nuovi fiori?
Come in realtà fu.
Vennero scoperti e raccolti dopo morto.
Tanti ne scrissero.
Ora anche Carmelo Pistillo.
Io non dico che Rimbaud aspettasse proprio Pistillo. Ormai, sono pochi i tesori da scoprire. Ma lui, Pistillo, ha alzato il sipario sullo spettacolo della creatività poetica di Rimbaud, con un singolare e riuscito atto d’amore letterario, composito, articolato, pudico e rispettoso. Ed è sempre un bello spettacolo, quando si avverte l’amore e l’onestà.
Ha dato, dunque, alle stampe “Una stagione all’inferno” di Arthur Rimbaud, con una sua traduzione del testo francese a fronte.
Tutto qua?
No, ha anche pubblicato, come un corpus integrante, una sua illuminante ed esauriente Premessa (Più d’un appunto, più d’un ricordo) e, a seguire, una Introduzione (“Nel nome di Arthur”, “Brevemente, la vita”, “Interpretazioni di un testo”, “Nel romitorio di Arthur”, “Un lungo incipit”, “Fuga dalla vita assente”, “Tra Satana e Carità”, “Il sangue dei padri”, e poi “Enfer”, “Primo delirio”, “L’altro delirio”, “L’impossibile”, “Dal lampo all’addio”, fino a “Congedo”): ben 67 pagine di analisi, approfondimenti, note, citazioni e chiose.
Basta?
No. Ecco, dunque, le 54 pagine della “Stagione all’inferno” di Rimbaud, testo-confessione di un’anima che si è messa a nudo (“come una pellicola di carne che venga bestialmente e sacralmente lacerata”, dirà Giovanni Testori, pag. 215). E la lacerata anima dell’infelice poeta rivela ispirati sussulti, farneticanti esaltazioni, cedimenti di struggenti malinconie, impietosi giudizi, auto-afflizioni, e, soprattutto, lo straziato “Addio” finale, rimpianto doloroso di ciò che avrebbe potuto essere e invece non è stato e più non sarà. Adieu chimères, idéals, erreurs…
E poi, e ancora: un apparato bibliografico, testimonianze, studi, Rimbaud nel cinema, nella musica e nel teatro dal 1939 al 2012. E una galleria fotografica in bianco e nero.
E, per concludere, “una crestomazia rimbaudiana” con 24 scritti d’Autori di oggi; e 40 scritti testimoniali d’Autori di ieri.
Un libro complesso, ma non dispersivo. Scritto senza arzigogolati compiacimenti, senza complessi o pregiudizi o presunzioni. Un libro che rivela amorosi squarci di conoscenza e approfonditi scorci di poesia.
Eppure, in copertina, sotto il titolo – “Stagione all’inferno” di Arthur Rimbaud – Carmelo Pistillo indica soltanto un modesto “a cura di”. Come volesse starsene in disparte. Bravo. Corretto e discreto. Ma di appassionata e coinvolgente scrittura.