Rossella Farinotti su Mymovies per «Il grande cinema di Federico Fellini»
![]() Il grande cinema di Federico Fellini
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autori: | Pino Farinotti, Rossella Farinotti |
formato: | Libro |
prezzo: | |
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Quando penso a Fellini declinato all'arte c'è un'immagine immediata, d'impatto, unica. Si tratta della sequenza di fotogrammi del Rex che, luminoso, appare sbucando dalla nebbia: il gigantesco transatlantico è imponente, fantastico, surreale, onirico. Un grande fantasma disegnato nel fumoso paesaggio blu di un cielo che accoglie le barche in cui gli abitanti di Amarcord stanno aspettando, ormai addormentati, il suo passaggio. "Eccolo, eccolo. Il Rex, eccolo!" in tanti esclamano, mentre il suonatore di fisarmonica del paese, non vedente, alza i suoi occhialetti scuri e chiede, guardando in alto "Com'è? Com'è?". Questa scena ha un impatto poetico che rimanda solo a Fellini, perché coinvolge tutti i suoi trucchi, le sue malinconie, i suoi riferimenti. Lo sfondo è azzurro cupo, perché la nebbia sovrasta tutto, come un mantello che avvolge i personaggi in attesa, con una sensazione di grande pace e quella malinconia che è costante in tutti i suoi film. Naturalmente il tema di Nino Rota è in sottofondo e, con la stessa intensità del cielo pesante, aiuta a far commuovere lo spettatore, presente a un'altra avventura visiva e a un'altra esperienza dei protagonisti di Amarcord.
Un film di Fellini è arte visiva. Non per l'approccio peculiare, irriverente e apparentemente non serioso che il regista aveva nei confronti delle cose, dell'umanità, che scrutava con attenzione, e del quotidiano. Ma per come voleva e riusciva a studiare, interpretare e rappresentare il tutto. Il frame dell'arrivo del Rex sembra un dipinto di Gericault, ma con le braccia alzate di Goya nel "3 maggio 1808" e quei toni cupi degli espressionisti tedeschi degli anni '80 del novecento. E così si può parlare di veri e propri tableaux vivants - di opere in movimento - in tante sue sequenze. In quasi tutte.
Dalla sfilata finale di 8½ con i bianchi e neri che ricordano immaginari ed estetiche tra le più varie, dalle fotografie di Man Ray, ai tagli bianchi di Fontana. Un bianco e nero raffinato e denso, utilizzato per mostrare una certa pulizia, forse un distacco, ripreso poi nelle espressioni assenti di Mastroianni, con la sua montatura di occhiali nera un po' marcata, sopra un abito sempre elegante, ancora una volta: nero con una camicia bianca. "Arrivederci ragazzi. Ci vediamo in un prossimo film" dice Mastroianni, il regista di una storia mai girata, alla sua troupe che sta smontando l'enorme struttura allestita sulla spiaggia di Ostia. Un edificio in tubi metallici che farà da passerella per la sfilata finale. Il regista saluta con quella sua aria rassegnata. Rota in sottofondo, il marinaio che fa dei passetti di danza. La sfilata è terminata, il regista ha riposto il suo altoparlante con cui dirigeva gli attori: lo scolaretto - Mastroianni/Fellini bambini -, vestito di bianco, i clown che suonano, le comparse aristocratiche e i borghesi, la Saraghina, il produttore. Tutti in tondo e in movimento, come in un film di Renoir, dove le figure diventano quasi astratte. "Noi intellettuali abbiamo il dovere di rimanere lucidi fino alla fine, ci sono già troppe cose superflue al mondo, non è il caso di aggiungere disordine al disordine" è l'incipit della lunga asserzione del critico cinematografico che ha seguito la disfatta del film mai incominciato di 8½. Un'autocritica che Fellini annuncia nel finale di uno dei suoi film più importanti, più impeccabili per equilibrio narrativo, paure umane e un'estetica ancora oggi da studiare e riscoprire. Un'estetica che è mutata tangibilmente negli anni se pensiamo appunto a 8½ (1963) e prima ancora a La Dolce Vita (1960) barocco nel racconto, ma pulito, chiaro, elegante nell'immagine, per arrivare ad estremi quasi pittorici nel colore e nell'aggiunta di elementi - umani, ma anche espedienti narrativi che colmavano le scene - come in Roma (1972) per poi giungere al tripudio del "disordine al disordine", parafrasando il critico, con il Casanova (1976), il preferito di Federico Fellini.
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Qui una Venezia luminosa e straripante di azioni e persone, di immaginari scoppiettanti, di caos, di balli, orge irriverenti ed erotismi. Di costumi usciti proprio dai dipinti dei pittori veneti come i Tiepolo o i Tintoretto, ma sporcati da un'umanità "felliniana", come ormai è d'uso raccontare, dove i vizi superano le virtù, dove prevalgono i giochi e gli scherzi, in una società consumata dagli errori. Casanova racconta episodi estremi con una vena ironica e un pathos immaginario sempre molto cupo, quello di una Venezia romantica, che nasconde tanto sporco, ma che Fellini, attraverso quadrerie esagerate, movimenti fugaci, cieli e atmosfere rembrandtiane - esemplare l'immagine delle cortigiane sull'altalena - sa raccontare. È tutto estremo, surreale, inquietante. Proprio come il ballo della bambola dal costume rosa settecentesco che ammalia Casanova, trascinandolo in una danza meccanica che pare fermare il tempo. Fellini il tempo non lo ha mai fermato: lo ritroviamo dappertutto, nel cinema dei Garrone e Sorrentino, nei racconti di paese e nelle fotografie delle nonne, sulle spiagge e nelle piazze della Romagna, e in tutto l'immaginario creativo che spazia tra arte visiva, moda e musica. I suoi escamotage per attuare la fantasia sono ancora in atto per chi ha un'estetica riconoscibile; le lucine delle balere, o del Rex, le musichette malinconiche, le nebbie, i volti esasperati dei personaggi che hanno posato la propria maschera ... Fellini è in questi elementi, fuori o dentro al cinema. E le immagini scorrono, ritornando indietro: alla spiaggia de I Vitelloni (1953), anch'essa apparentemente piacevole, ma cupa, triste. Come le strade un po' piene e poi desolate percorse da Giulietta Masina in Giulietta degli spiriti (1965) o Le notti di Cabiria (1957), dove la speranza è stata abbandonata. Una speranza poetica che ritroviamo più avanti in La Voce della Luna (1990), un picco fantastico di un Fellini ancora energico e giovane nel messaggio di questo bel film. E un Fellini trentaduenne che, nello Sceicco Bianco (1952) ha fatto ridere, dall'inizio alla fine, due generazioni diverse, l'estate scorsa a un cinema all'aperto, quando sono andata con i miei genitori, e non ci divertivamo così da tempo.