Sebastiano Aglieco per Maria Pia Quintavalla su compitu re vivi (Vitae e Quinta vez)
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autori: | Maria Pia Quintavalla |
formato: | Libro |
prezzo: | |
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Maria Pia Quintavalla in Vitae, La Vita Felice 2017; Quinta Vez, stampa 2018
Gli ultimi libri di Mariapia Quintavalla insistono sul tema epocale delle relazioni genitoriali. Epocale: nel senso dell’evocazione di un contesto memoriale, riconducibile a una sorta di battesimo dell’esperienza che segna – primordiale – e che forse non insegna. Ma anche nel senso di epos, di trasfigurazione delle personae nel luogo del teatro, della reverie splendente; delle icone glorificate, infine. Alcuni esempi di trasfigurazione: il racconto “Montenero Lama, di China, una Biografia immaginaria” (Vitae, racconti, La Vita Felice 2017), in cui è detto: “era donna di incomparabile bellezza, carnale e gioiosa nel cuore, dalle mani danzanti con noi bambini. Cantava per la regina nel coro della cappella reale…”; racconto in cui Quintavalla sintonizza la reverie col tema del complesso rapporto parentale genitori e figli, questi ultimi tratteggiati in tono di accettata e benevola sottomissione, mentre la madre assurge allo splendore di madonna dotata degli attributi perfetti della creazione.
Ecco i bambini: “Ci riunivamo, a volte, alle altre famiglie di marrani, capitati a vivere in quella contrada pacifica”. Ed ecco la madre: “La sua voce era canto, la sua pelle risuonava melodie speziate, il seno pieno e morbido odorava di avena, le mani erano piccole come i piedi, il naso deciso e altero, una piega improvvisa le serrava le labbra, a volte”.
Si veda l’insistere sull’aspetto percettivo dell’olfatto e del tatto, canali privilegiati di perlustrazione nell’esperienza conoscitiva del bambino, vicinissimo al corpo della madre, mentre la piega sulla bocca della donna segnala un turbamento, l’allontanamento, la spezzatura del cordone ombelicale; la veggenza del dopo, come in tutte le iconografie di madonne munite dei simboli rivelatori del destino del bambino: il cardellino, il manto rosso, il viso malinconico, il dito che indica, la spina della rosa, etc…
Questo sognare paesi lontani, sulla strada di un Oriente favoloso, giustifica in verità, l’appellativo “China” attribuito alla madre come risorgenza del secondo nome che ricrea e dà senso, forse definitivamente: “D’altra parte fosti tu la sua bambina, che lui ( cioè il padre di lei) chiamava “la giapponesina” per la frangetta nera e gli occhi nero liquido di china, a cantare e imparare con lui le arie di romanza, e insegnarle più tardi a noi bambine: la parola col semplice tuo canto, China”; (sempre in Vitae, racconti).
Ancora sull’aspetto metamorfico e redentivo di China, per chiarimento della stessa Quintavalla, insiste la sezione “Quinta vez, o del ritrovamento”, del libro più recente,”Quinta Vez”,(stampa 2018). Leggiamo ancora dell’insistenza sulla ricerca di una forma, “vita nuova creata per sé sola, a sé misma estrana, / ai più sconosciuta, / volontaria straniera della pace”, p.63.
Nello sfondo di un’arcadia struggente, China procede in movimenti e memorie di terre sempre più lontane, delineando un romanzo picaresco di canovacci/telieri, di mirra oro e incenso, di canti e parole confinanti con l’indicibile, col linguaggio segreto di mondi estranei.
Si tratta di un sensuale proteso tra le Mille e una Notte e il gran viaggio di Baudelaire, ma con una tensione mai risolta tra la pacificazione assoluta e definitiva dei drammi, l’affogamento nel panteistico sensuale e il cammino accidentato dentro la metamorfosi incessante delle forme: “Canti d’amore tenero (mendace) / ma alfine dette, altrimenti dette / sue parole, sefaràd segreta, / intente a dire quella fortuna mobile, inconsueta / di fare e vivere senza movente alcuno / che quel respiro-forma”, p. 65.
Sembra prevalere, a ben vedere, l’aspetto trasformativo, barocco, perennemente rivoltato delle sostanze, declinato nel tema del viaggio picaresco, “il ronzinante mulo la portava”; senza meta, e tuttavia redentivo, salvifico: “ma stordita, per lei felice predicava / virtù miracoli fiaschi di vino e lacrime, / più doni che dintorni. / Nella villa i paesani si chiedevano / se mai fosse capace di preghiera, / segreti astanti che da lei attendevano / miracoli, né vino pani o pesci / né canzoni, / ma in fondo erano viaggi di fortuna, / paesi spessi e ariosi di buon vento / e sandali dorati alla cintura; / cavezze per cavalli a dismisura, erano questi / i doni che a lei chiedevano i bambini: / questi, China, sapeva consolare”, p. 67; fino a far coincidere la foemina con l’eroina, il tragico con il sublime, il mondano con lo spirituale:
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Belle le estati, o pie stagioni
in cui China seduta ricordava
di oscure gesta, sensazione di cavalieri
darsi alla macchia, alla loro gloria o fuga,
come stazioni della sua stagione:
forte, seduta, giovane che intanto
presta, di virtù dipinta poteva dirsi
consolata e cara, di più vite accorpata, né
disincarnata
la canzone tanto intenta a dire.
La macchina da guerra già suonava
antiche glorie di tenzoni,
e di battaglie che perdute, sfumavano
la linea di orizzonte di una persa notte
dove infanti battaglioni potevano seguire
una lei donna, già agguerrita,
ancella di virtù maestra e di carnale aspetto.
Libera ad insegnare che beltà ha nome
di regale follia, di andamento virtuoso
in più spumoso.
p. 71
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Si tratta di un testo complesso, che assembla le virtù e le fantasticherie della pulzella d’Orlèans, santa e donna invidiata e desiderata, cavallerizza nel paese idealizzato di una terra infine redenta, fanciulla che evoca giochi di lotta mascolina in cui essa stessa è coinvolta nel modo peculiare delle amazzoni. Immaginazioni, insomma, incastonate nel tema di un viaggio verso la meta irraggiungibile, ma, infine, agognata quale tassello ultimo dell’esistenza; ancora una volta, metamorfica, nel tema definitivo della trasfigurazione dell’eroe in altri aspetti, in metafora, in scomparsa:
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Morì, Tradì, scoppiò, dissolse sé, disparve
non fu mai dato di sapere, ma servì a capire
che China era prodigio di canzone
meravigliosa creatura in luogo chiaro,
corso di virtù serena – gioia nel corpo cibo
della mente – angelo al tocco dei bambini
salvi nel fiume corso della sua esistenza,
frumento pane di virtù mai sorte
sentimento del mondo, sua dizione.
p. 73
*
Il tema musicale, così ricorrente in questa poesia, qui coniato con le parole della dipartita “felice”, risignificata, appartiene, se si guarda bene, al teatro d’opera, e in particolare al barocco musicale del seicento; farei riferimento essenzialmente al finale dell’Orfeo di Monteverdi, e cioè all’Orfeo trasfigurato in costellazione; alla musica arcana come forma contemplativa del dolore, e infine consolatoria. Il poeta si pone, quindi, come deus ex machina, strumento di realizzazione dell’agnizione “divina” attraverso il canto, l’unica modulazione dell’aria in grado di restituire il maltorto.
Questa poesia , dunque, sembra indicare una strada divergente rispetto alla rinuncia, tutta moderna, di una nuova catarsi da riconsegnare alla parola. La China/canto, “frumento pane di virtù mai sorte // sentimento del mondo, sua dizione”, è dizione, appunto, del canto, dell’innalzamento nella sfera di una qualche forma del Divino.
Il libro, certo, ha compiuto dei passaggi, e forse il più importante è la delineazione di una donna stilnovista, allontanata dalla maschera di dolore che attraversa tutta la parte centrale di “Quinta vez”. Donna di bianco vestita, e fiorita, abitante l’hortus conclusus della riflessione filosofica, dei dialogoi con anima, ma, modernamente, e più drammaticamente, con la parte irrisolta di se stessa specchiata nell’altro, in questo caso la sorella, personaggio che improvvisamente appare, con notevole scarto di stile, nel dialogo teatrale “Le sorelle”, che conclude il libro.
In tono di rarefazione si apre, quindi, “Quinta vez”. Si tratta di testi dedicati “ai non nati”, pre-natali. Testi scritti in sordina, pronunciati sottovoce, nel tono sommesso e intimissimo tra madre e figlia, coppia sacra in cui le parole vengono pronunciate vicinissime, “Niente che io conosca così bene, ma quanto tu, silenziosa al mio fianco, già conosci”, p. 15.
Sono testi prima del dramma della vita – nell’attesa della vita – e in cui le parole risuonano di una significanza che accarezza le cose piuttosto che scolpirle e bruciarle. “Nessuna immaginazione sul tuo corpo mi era di ostacolo, né mi indicava una tua necessità; anzi pensavo di non darti costrizione alcuna per non spaventarti, o umiliare coi legami del mondo”, p. 15.
Questa leggerezza, certo, è possibile solo dopo che, quella cosa misteriosa che chiamiamo anima, si è staccata dal corpo, consegnandolo definitivamente al suo senso più vero, al suo essere un nulla che risorge.
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“Movimenti finissimi e celestiali, quasi primi moti della vita nel grembo, prima del nascere; così ti avevo vista respirare lottare con soavità tenace, prima di staccarti dal corpo, agli ultimi. Stessa grazia e luce interna potevano ora espandersi e riverberare, io non temevo.”, p. 16.
“Avevo paura, la paura prima della vita, noi ci perdessimo, per il troppo volere toccarsi della mente“, p. 35;
“Mai ti voltasti se non nell’attimo in cui baluginasti di me una donna, e divenute madri, mi chiamasti per nome”, p. 34.
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Già dall’inizio , dal prima di tutto, di ogni cosa, la voce prenatale, in armonia e distensione, intuisce che il dolore è condizione necessaria della separazione delle voci, divisione per nascere, per essere divisi e riscoprire, infine, che, in fondo, la vita è una messinscena del ritorno.
Ma il libro, nella sua zona centrale, è cronaca dolorosa del compianto, illuminazione a fiaccole del qui che accade, dell’anima e del corpo sofferenti. La madre è mater, quindi sostanza di carne e sangue scolpita nel legno e nella roccia dell’archetipo; icona sanguinante di una madonna delle lacrime; agnizione dell’assenza del divino, di un divino precario, scoperchiato, che mostra il suo corpo mortale.
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Di notte,
la notte aperta fra le lenzuola io parlo
a voce alta comprimo,
anzi comprendo sentendomi negare
per ogni via il calvario
di madre crocifissa,
io cerco non vedere l’icona, oppure
vorrei farla vedere e fatta, ma conchiusa
lei va lontano blatera, sposta
ogni suo gesto dove non esisto.
Così entra la mia persona così
troverà spazio e semenza
per il suo futuro
che oscuro se lo punge e buca,
come il suo dolore.
p. 56
*
Dentro l’aria entra la voce
che piange che punisce, dice Va lontano
maledicta, né amata o stupefatta
di male, e di dolore.
p. 55
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Tu ti distacchi e sposti, la guardi scivoli
via, piano per non ferirla
ti mostri neutra amica, taci,
ma lo diresti quanto sangue-voce
ci è voluto per tagliare
quel cuore intero in una luce sua,
che ti divora.
p. 48
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Versi dolorosi e severi, scolpiti sulla carta per durare, eppure ancora aperti a un nuovo senso, alla necessaria possibilità: “Intanto m’alzo; lei alza la voce / mi descrive il corpo, / lo risignifica” p. 54.
Nella terza parte del libro di racconti “Vitae“, emerge prepotente la zona più oscura di questa poesia, quella più gridata, senza maschere, somigliante a certe deposizioni in terracotta del nostro Rinascimento: e proprio col titolo “Compianto di terracotta” si apre un altro libro di Mariapia Quintavalla “I compianti“, (effigie 2013) interamente dedicato al padre Piero, del quale occorrerà parlare a parte.
“Padre di ricotta!
gridavi un tempo. Sei un uomo di pasta frolla, perché non mi difendi?
(…)
Ti vestirono ignuda e fredda,
e leste mani ti disinfettarono: non ne vidi nulla, non ne seppi immagini.
Tu, abbandonato il corpo fuori, imperversava un’aria bassa di bisbigliate condoglianze, mentre il tuo vuoto dilatava altrove.
Senza me, gelida e muta, tu fra ignoti, ti lasciarono partire ti truccarono di bianco, il viola delle guance e mani, buchi del volto le orbite feroci, né domestici doni ti portammo, demandata a sconosciute mani, noi di là attorali in un circuito chiuso non sentimmo, imploravi Figlia, figlio, accurri”.
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Con le stesse parole di dolore la madre della madre ha gridato la morte di un figlio:
“E tu là ragazza, unica femmina incapace, d’avvicinare la madre, sempre lontana e dura, che strappandosi i capelli sulla scena di casa, rendeva pubblico lo strazio, e sul dormiente urlava senza più fiato lo chiamava indietro, e a te nessuno che prendeva le mani, che calmava”.
Il racconto svela, infine, il progetto, il desiderio più recondito, la chiusura del cerchio: trovare l’imago di un’isola felice, “esiste l’isola felice, esiste là per me soltanto, giuro”; entrare nel grande quadro di una sacra famiglia in cui ogni cosa è ricongiunta, ogni debito è stato rimesso.