su POesia del nostro tempo, Rossella Renzi per Iya Kiva con «La guerra è sempre seduta su tutte le sedie»
![]() La guerra è sempre seduta su tutte le sedie
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autori: | Iya Kiva |
formato: | Libro |
prezzo: | |
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Sembra crudele, spietato affermare che alla guerra ci si può abituare: le immagini di distruzione, le bombe, gli allarmi aerei, il terrore diffuso che da più di trenta mesi ci viene raccontato nei reportage dei giornalisti, accompagnano quasi silenziosamente le nostre giornate, senza suscitare particolari reazioni, se non il timore che il conflitto si possa allargare. Ma come reagisce la letteratura a tutto questo? E la poesia?
Lo scrittore ucraino Andrei Kurkov dichiara che la guerra si sta combattendo su livelli diversi, che il mondo culturale è uno degli obiettivi più colpiti, che circa cento tra scrittori, poeti ed editori sono stati uccisi finora nel conflitto tra Russia e Ucraina. La letteratura ucraina sta soffrendo, il 90% degli scrittori si occupa della guerra, che ormai è presente ovunque nell’arte.
In Italia abbiamo una testimonianza importante di questa drammatica situazione, con il libro La guerra è sempre seduta su tutte le sedie, della poetessa Iya Kiva (La vita felice, 2024) con la traduzione e le note critiche di Yulia Chernyshova e Pina Piccolo.
Iya (classe 1984) rientra infatti nella schiera degli scrittori che scrivono di guerra: non potrebbe essere altrimenti dal momento che la sua vita è segnata dagli eventi bellici da quando nel 2014 deve lasciare la sua città natale, Donetsk, a causa del conflitto russo-ucraino:
«declinare questa unica parola – ancora e ancora e ancora una volta –
ora per gli scrittori ucraini questo è il lavoro del cuore»
La raccolta, che contiene trenta testi selezionati da una più vasta produzione dell’autrice, sorprende per la capacità di farci sentire ineluttabilmente fragili, in un contesto di disumana violenza. La guerra entra nelle case, offende la dimensione privata, si appropria delle cose minime (sedie, finestre, rubinetti, tubi…); stravolge i luoghi, il paesaggio, la natura ferendone la parte più delicata e sensibile, come i petali, le rose, gli alberi. Il corpo è protagonista in questa scrittura, che risulta profondamente concreta, fisica, carnale: nel corpo esposto si avverte il fluire del sangue, il bruciore della ferita, l’arsura della sete, il tremore delle membra impaurite.
Nella poesia di Iya, leggerezza e gravità si fondono, creando corto circuiti di senso che disorientano il lettore, aumentando così il disagio ad ogni pagina. A partire dal titolo, si aprono squarci su frammenti del quotidiano a cui non pensiamo quando pronunciamo la parola “guerra”; ma sono proprio quegli sguardi e quei frangenti che ci mostrano quanto nel profondo un evento di questo genere possa sconvolgere la vita delle persone. Osservare, immaginare le case, le chiese, le stazioni, le stanze, i corpi, la loro reazione con occhio che resti umano, incontaminato, è un vero e proprio esercizio di resistenza.
Lo scenario di vita semplice e quotidiana che questi versi evocano nasconde voragini di dolore screziate di amara ironia, che spesso caratterizza lo stile della scrittrice ucraina: «una volta lasciata la casa, non è più possibile dare un’occhiata dentro, dalla finestra,/ dietro la quale ti aspettano le rose fiorite della vita, / perché il tuo giardino è alla deriva con te, e anche l’acqua».
Non è una lettura indolore, oggi, dopo tanti mesi dall’inizio dell’aggressione, e non lo sarebbe in nessun tempo, perché la poesia di Iya Kiva fa sentire la vita in tutta la sua durezza, mentre dichiara l’incapacità della lingua di restituire qualcosa che non dovrebbe nemmeno esistere nella storia dell’uomo:
«stai qui e impara ad essere uno / che di lingua non sa proprio niente»
«un mare immobile di gente rigira sassi in bocca /
questa morta lingua del tempo nella quale ci muteremo / quando il vento taglierà il filo della vita come un fiore / e lo intreccerà con la lunga nottata di torpore»
Ma resta un gesto necessario e dovuto la lettura stessa che, accanto alla scrittura, si configura come atto di resistenza: resistere per non impazzire, questo ci chiede la poesia.
I suoi versi ampi, che rasentano la prosa, sono intrisi di immagini che evocano, trascinano, feriscono e allo stesso tempo gettano raggi di speranza, di luce, di calore: dove ci si aspetta dolcezza, la poesia affonda con la parola più cruda e viceversa. La conseguenza, come spiega Pina Piccolo nella prefazione, è quella di «fare i conti con il processo di antropomorfizzazione della guerra» dove questa maledizione, in cui gli uomini da sempre profondono il loro impegno, pervade e trasforma ogni aspetto della vita e dell’esistenza. Ma nella scrittura di Iya accade anche il processo inverso, e grazie a quel corto circuito di cui si diceva, si resta coinvolti nella necessità di fare scudo, di opporre la vita alla morte, la parola al silenzio, l’amore alla guerra. Dal momento che, anche se la gente più della guerra teme l’amore, in questo incubo incessante la poesia riesce a celebrare la tenerezza, l’abbraccio, il sorriso sul volto di un bambino. Implora a corpo, anima, cuore di restare umani, poiché c’è un doppio piano di esistenza, perché nessuno vuole morire, perché il fuoco del prossimo è anche fuoco tuo – come titola la parte V del volume –. Perché c’è un momento in cui tutti siamo più vicini, chiamati a raccolta vivi e morti: nella ricerca della quiete, di un luogo caldo e sicuro, di un posto libero nel mondo, «dopotutto non abbiamo che la strada / ad essere sinceri, tutti noi cerchiamo solo di andare avanti, reggendoci l’un l’altro / come una casa distrutta sostiene il tetto bruciato». Ed è un momento in cui si riaccende la speranza, una preghiera rivolta alla terra affinché non sia solo coperta per i morti, ma possa ancora produrre frutti d’amore.
Rossella Renzi
da La guerra è sempre seduta su tutte le sedie (La vita Felice 2024)
il mio paese ora somiglia a un ghetto /
dal perimetro circondato di sangue di grida di pianto /
(storto e di fretta – come al buio si tracciano le labbra con un rossetto unto) /
dove tutti i pensieri tutte le parole persino il silenzio sono soffocati dal cuscino della censura: /
la guerra della guerra alla guerra dalla guerra nella guerra /
(declinare questa unica parola – ancora e ancora e ancora una volta – /
ora per gli scrittori ucraini questo è il lavoro del cuore) /
la frontiera di questo ghetto è trasparente come il moto dei rondoni: /
puoi entrarci uscirne ed entrarci di nuovo /
è come infilare le dita nel guanto di un altro /
puoi serrare le palpebre e giocare a nascondino con la guerra /
sapendo in anticipo che (ti trufferà e) vincerà /
ma tutti questi esercizi sono ginnastica per chi ha l’immaginazione invecchiata /
il tuo corpo non lascia mai il luogo di residenza -/
quel nulla bombardato all’infinito dalla furia – /
e il tuo passaporto con quell’uccello dorato di tridente /
ti consente di muoverti per il portone mezzo illuminato della storia /
ma non ti dispensa dalla guerra nel tuo sangue nella tua urina nella saliva nelle lacrime /
come Sisifo gli abitanti di questo ghetto rigirano la morte nella bocca /
rompendo i denti e persino le loro radici /
ma neppure a quel punto si fermano – muovono con la lingua ciò che è rimasto /
anche se che cosa di preciso (e quanto ancora) sia rimasto nessuno lo sa/
simile al buco della serratura è il tempo in questo ghetto – stare davanti e guardare /
come la luce sfonda le porte del futuro raggricciandoci come un bruco /
un monumento alla stanchezza il diritto ad un lungo protrarsi un’inquietante tenacia /
ma la spensieratezza di risate sincere non passa attraverso la toppa – /
al massimo penetra come un’ombra come l’umorismo nero della memoria /
nel ghetto c’è anche un fiume – non per annegare (anche se può capitare ) /
ma per guardare il cielo da tutte le rive
29.08.2023