Rita Pacilio su «Fili d'aquilone» n.43
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autori: | Rita Pacilio |
formato: | Libro |
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Alcuni ricordi spariscono
fanno in fretta
usano una combinazione chimica
chiamata dimenticanza.
Prima lettera
Come riuscirebbe il mare a dire come mi sento e sento l’averti conosciuto e amato? Come dirti la lama bianca che mi ha sventrato il torace e poi il filo che ha ricucito, aperto, richiuso a strati, cellula dopo cellula, pazientemente, portando dentro i fiori, i pesci, il tuo cuore vivo? Un trapianto, un’anima indifesa nella mia: eri un braccio d’edera, un cespuglio, una collina intera. Vieni a vedere chi sono diventata, inavvertitamente, apparsa sul mio volto, mentre da lontano, da lontanissimo albeggi gli attimi mutilati ai miei. Pulso attonita ogni debolezza che ti appartiene e resta vivo il moncone della mia scellerata grazia: ecco chi sono per genealogia compiuta. Una prodezza che il possesso e l’innesto della fibra può rendere vivo, possibile.
Sono una razza nuova. Sono vecchia, per questo posso partorire nascite straordinarie e cuori sacri, l’aria degli anni infiniti e andati, l’infanzia, i rami vivi poggiati sulle spalle, tutti i segreti degli andirivieni, della fatica, del tremendo amore battuti a zig-zag in un crescendo verticale,
un soprassalto a trama stretta. Un’altitudine, un traliccio in cui passa la filovia, il tram, il circuito di esperienze e storie, gli schiamazzi, le parole fioche, le abitudini che avevamo. Sono io la storia. Sembri lo scialle di mia madre sul collo freddo e bianco, come la barca arrivata sulla riva, sul litorale più vicino agli sciacalli, adesso sei sul mio collo, tra il cervello e le spalle, sei pensiero. Tu non tornare se pensi che qui puoi annegare, impantanarti centimetro dopo centimetro nella sabbia, nella mia vita che hai abbandonato. La mia età è sabbia appiccicosa e liscia, sono quel rimedio irrimediabile, infaticabile e chiaro che si attacca alla pelle, alla camicia, al resto dell’orgoglio, del midollo che scommettiamo quando ti lasciavo e ti riprendevo
senza consolarti. Sono pentita di non averti sorriso abbastanza, ma, non procedere nella mente con tutto il peso minaccioso. Torna indietro nell’acqua limpida e lunare, in quel manto turchese e rotondo in cui resti immortale. Proteggiti dal tempo che passa e ti rende incerto ai miei occhi. Resta vivo e sii brezza. Vorrei custodirti nel palmo della mano, dove annoto lo scambio dei significati. Non perderti, vorrei non perderti nuovamente, questa volta per colpa mia, del mio andare avanti inesorabile nella dimenticanza, ma se ti ho smarrito, amore, devi accostarti con prepotenza alla mia assenza e piangere con me. Sì, ti sto dimenticando e stai andando lontano alla svelta. Queste mattine, in cui scrivo come bisogno naturale, mi abbandono alla consapevolezza della radice che siamo stati, che sei, che eri. Quando mantengo le distanze dalla fine procedo in uno stato di ingegnosa eccitazione e mi sforzo di apparire un’altra, di sembrare un risentimento intatto, per niente scusabile. Per questo devo ripetere il tuo nome, il mio nome, la storia che ci ha chiamati.
Tornando a casa
ho infilato i piedi nella borsetta mentre una parte
di scontentezza ha fatto comunella
con le gobbe delle strade, coi ciclamini
e la lingua dei formichieri
dove i rami ventosi hanno trattenuto
un po’ di asfalto nero, i fischi degli uccelli.
La felicità non capisce niente delle dee incollate
alla sottana boscosa. A volte si esprime in forma
appartata, di lato sbavaglia drammi
poi si trascina contusa nella notte pesante
a gesti energici.
(Non ho potuto fare a meno di essere un’altra).
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