Giancarlo Baroni su Pioggia obliqua blog per Stefano Vitale su «La saggezza degli ubriachi»
![]() La saggezza degli ubriachi
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autori: | Stefano Vitale |
formato: | Libro |
prezzo: | |
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Stefano Vitale, La saggezza degli ubriachi, La Vita Felice, 2017.
L’ebbrezza a cui fa riferimento il titolo della recente raccolta poetica di Stefano Vitale, La saggezza degli ubriachi (La Vita Felice, 2017), non ha un rapporto stretto e diretto con quella sensazione di offuscamento e insieme di esaltazione che l’alcool momentaneamente provoca. La poesia, particolarmente bella, che apre il libro e che lo intitola è, a questo proposito, abbastanza esplicita:
Mi sveglio la mattina
e non sento il corpo se non come un peso
abbandonato alla deriva della prima luce:
sarà questa la più dolce e chiara
percezione del reale che ci resta?
Tutto il resto, intanto, è preparare piani segreti
mappe di resistenza, attraversare campi minati
e tagliare barriere di filo spinato
fino a quando la porta si richiude sul mondo
e possiamo deporre un fiore rosso
ai piedi del letto della nostra piccola pace.
Alfredo Rienzi, critico e poeta raffinato, nella Prefazione parla di “ebbrezza sui generis” e scrive: “Di quale saggezza, dunque, sono portatori gli ubriachi? Chi sono costoro e perché ammiccano sulla soglia, se l’autore, come si vedrà, predilige in realtà come strumenti una lucida riflessione e una pensosa rielaborazione delle cose che accadono? L’indagine, infatti, viene condotta con tenacia alla luce della ragione, attirata e attivata dalla percezione del reale e sviluppata con consapevolezza a volte feroce”.
Sgombrato il campo dall’equivoco che il titolo poteva ingenerare, proviamo a individuare alcune caratteristiche salienti del testo di Stefano Vitale.
Il principale e prevalente aspetto è la costante condizione di pausa e di attesa: “Desideriamo soste felici di sospensione”; “Intanto io resto / controfigura di me stesso / dietro le quinte ad aspettare il segnale / per lo spettacolo che sta a cominciare”; “Restiamo qui ad aspettare / un segnale dal futuro”; “La mente intanto resta in solitaria attesa / nel freddo suo naufragio”).
Una situazione di attesa che viene accentuata da movimenti lenti, da gesti ridotti al minimo, da un tempo rallentato e quasi bloccato (“metto il tempo in gabbia”), da un torpore esistenziale. L’ubriacatura sembra perciò consistere in una assenza “di noi a noi stessi”, in un’apatia che attutisce l’angoscia:
Poi si sta dentro a una stanza
ore e ore in silenzio
nel grigio presente dei minuti pesanti.
Seduti come sul bordo di un precipizio
aspettiamo il momento dei saluti
fingendo d’essere normali
facciamo i nostri conti
del tempo andato a male
ciascuno col suo lumino
acceso in mano.
Gli uomini, “eterni dilettanti della vita”, hanno la materia e la sostanza delle proprie illusioni e dei propri inganni, dei propri errori e delle proprie imperfezioni : “Siamo fatti della stessa materia dei nostri sbagli”. Vittime della nostra solitudine tendiamo spesso ad isolarci (“Arroccati nell’angolo cieco / delle nostre mura”), a sussurrare a bassa voce più che a dialogare con chiarezza (“Abito questo silenzio / bastione di fredda compostezza”). L’appartarsi, il mimetizzarsi, il “diventare muro, insetto, foglia”, sono un’arte raffinata che insegna a evitare possibili disfatte, a “scegliere la posizione / della giusta distanza” senza lasciarci troppo coinvolgere. Il rischio che si corre e il prezzo da pagare sono una specie di separatezza, di lontananza, di isolamento e di distaccata partecipazione “Guardiamo gli altri passare / immaginiamo da lontano le loro vite”.
La saggezza degli ubriachi è un libro impregnato di pessimismo; un pessimismo che rifiuta gli eccessi emotivi a favore di una lucidità riflessiva, che chiude la porta alla disperazione e la apre a un disincanto del tutto privo di cinismo.
La scrittura misurata ed equilibrata di Stefano Vitale raffredda i toni evitando acuti drammatici o profonde cupezze e, scrive Rienzi nella Prefazione, “la fluidità del dire, la sobria eleganza dei componimenti, le calibrate assonanze e la compiutezza sintattica fanno sì che l’invito alla lettura risulti agevole da accogliere”.
“Siamo figli di un destino comune”, afferma l’autore scansando una deriva solipsistica e mettendo in risalto le nostre condivise fragilità , siamo “cose tra le cose / posate per caso sulla tavola del tempo”. Ma, come “archeologi di noi stessi”, continuiamo per fortuna a non arrenderci, a cercare quei “fossili della speranza” che ci permettono di apprezzare la vita: frammenti di gioia e di serenità. Rimedi e forme di resistenza apparentemente minimi: “Giorno dopo giorno / sorvegliare le gemme / arrampicate verso il cielo / abbeverare le foglie oppresse dal sole / liberare i vasi dai fili d’erba / e sperare nel fiore”, lasciarci incantare da un sorriso o da “…una traccia di polvere / che brilla in controluce”, pronunciare una parola “certa e precisa”, farci guidare da un canto “piccola ostinata intima luce”.
C’è un forte vento che sale
nella stanza a ripulire l’orizzonte
così mi giro dall’altra parte del mondo
e canto, sottovoce, canto.
Giancarlo Baroni
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