“Io, quelli / che hanno fatto un pezzo di storia / con me, non siamo mai stati giovani: / ci hanno fregato, / hanno bucato una generazione / intera, forse anche due.”
(Gioventù? Da A. a Z.)
Questo brano tratto da una poesia della sezione ‘Lettere alle persone’ dentro il variegato e al contempo unitario libro che è ‘Pertiche’ di Alberto Cellotto, è doloroso. Doloroso perché dolente, perché si amplia, supera se stesso e trascende anche il suo senso primo. È sempre interessante sapere e non sapere, sospettare il punto fondo di partenza del poeta, ma soprattutto è un’esperienza forte accoglierne i buchi, riempirli, cambiare di posto e di senso. Queste generazioni di ‘fregati’, queste generazioni ‘bucate’ e il modo semplice e diretto in cui viene detto di questa sorta di fallimento: anche qui sta il potente di questo libro, uno dei suoi vari centri. Le sezioni sono diverse tra loro, per tema forse e persino per linguaggio, a tratti. Ma l’atmosfera è la stessa, ed è quella vena malinconica e amara di cui sanno farsi carico coloro che vivono con la sensibilità sempre attiva e con attenzione l’esperienza di un luogo che può essere feroce come l’Italia nel nostro tempo. La peculiarità di questa ferocia raccontata da Alberto Cellotto è la sua tinta di pudore: c’è un trattenuto fortissimo, perenne, nervoso, che innerva tutto il dettato, che è lo stesso implodere di certi luoghi del centro di alcune città e paesoni del Veneto, del Friuli. Una ricchezza tanto respingente quanto la fatica che è costata a accumularla, e una caduta tanto amara quanto la disdetta di chi s’è sempre saputo onesto, e aveva creduto che questo bastasse a proteggere dagli scorni. In questo asfaltato regno decaduto, in questo sospeso posto che è un andare di ‘svincoli ferroviari’, ‘grovigli di curve’, ‘cimiteri aperti’, ‘lamiere’, ‘vetri coi resti/ dei nastri adesivi / rimasti attaccati’ – in questo luogo che sembra più difficile da abitare rispetto, ad esempio, a quelli pur duri ma più ingenui e forse verdi di ‘Vicine scadenze’ e di ‘Grave’, le precedenti raccolte di Cellotto; in questo spazio senza grande sollievo se non quello che può venire da uno sguardo al cielo che ‘spacca il cuore / di sereno’ la solitudine è grande. Ma pure, è qui che si apre lo spiraglio: proprio in questa solitudine viene la scoperta degli altri, il fatto di dipendere da qualcuno perché lo si ama, lo stupore del legame, di ciò che unisce sguardi e lotte ‘di persone lontanissime’. C’è una forte luce e molto amorevole che in questa terza raccolta di Cellotto si annida nei rapporti umani, nell’altro. La tenerezza che è così difficile entrare, capirsi, svelarsi. Ma anche il riconoscimento di una somiglianza, di un patto non detto, di una vicinanza del sangue. Forse non consola il fatto che non si è i soli a essere stati ‘bucati’ e ‘fregati’, ma questo rende comunque l’idea di essere ‘un’intera generazione’, un coro. E se questo sul piano della storia è una tragedia, sul piano personale diventa una condivisione del peso. Anche in questo, in qualche modo, in questo rientrare nella luce del rapporto intimo e il prendersi la responsabilità che tale vicinanza richiede, anche in questo forse c’è quella lontananza con la storia, quella strana percezione del tempo che sottolinea Villalta nella prefazione. Una storia monca, si dice, una storia di cui a stento s’accoglie l’eredità. Su altri piani, si gioca il vero e l’intero; su piani in cui non la storia ma la durata, non il tempo ma lo spazio-tempo e le sue curvature insondabili, hanno senso. C’è un tentativo di prendere misure che è interessante forse perché fallimentare, è il moto necessario che guida l’umano che cerca di ‘stare al mondo’; ma al contempo viene registrato come un moto di amaro stupore nell’accorgersi che le unità di misura sono inadatte (il Carbonio 14? le Pertiche?) ma che soprattutto c’è sempre uno smisurato, una dismisura, un qualcosa che avanza e non si fa calcolare . A volte è il dolore, la perdita. A volte la bellezza, a volte lo stupore che ‘le cose possono esistere quel tanto / che basta e stare così’. La resa non è qui un rassegnarsi ma un abbandono che quasi si fa liberatorio, e il non riuscire a rinchiudere la vita nel calcolo diventa un perdersi che non solo spaesa ma anche consente di affacciarsi al nuovo. Non è un caso che la sezione ‘Spedale’ stia sotto le parole di Beppe Salvia: “Ma oltre queste verità e dentro queste / vuote parole ho perso la misura”.
Azzurra D’Agostino