A. Devicienti su Pecora
![]() Nel tempo della madre. Epicedio
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autori: | Elio Pecora |
formato: | Libro |
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Nota di lettura di Antonio Devicienti
È un rischio quello che si assume Elio Pecora nel comporre un poemetto intorno alla figura della propria madre: l'oggetto può indurre facilmente e insidiosamente al sentimentalismo, alla celebrazione oscillante tra il retorico e il già scritto, all'agiografia. Da poeta di razza egli affronta la difficile materia lavorando con acribia sullo stile e sulla lingua, compiendo una scelta precisa: rapidità di ritmo e di dettato che echeggia costantemente un Leitmotiv della vita della madre, cioè il canto, sia esso la canzonetta (ma per nulla banale, in quanto si tratta di quelle canzoni che nella prima metà del Novecento in Italia sapevano caratterizzare e fissare nella memoria collettiva un'epoca), sia esso il canto liturgico (Elena D'Aromando, la madre del poeta, cantava durante le funzioni religiose) – perché, assieme all'affetto complice e saldissimo, è proprio il canto, pur declinato in due diverse misure, il legame inscindibile tra madre e figlio e, direi anche, il dono decisivo della madre al figlio (e mi azzarderei ad affermare che uno dei temi portanti dell'opera, anche se celato come per pudore, sia la vocazione poetica e la fonte di quest'ultima).
NEL TEMPO DELLA MADRE canta infatti il legame madre-figliopoeta e, attraverso la mente, il corpo della madre, i ricordi di lei, canta il legame del poeta con la storia d'Italia.
Altra scelta stilistica è l'uso di pronomi e possessivi di terza persona in modo da distanziare la materia magmatica che appartiene all'essere stesso del poeta, benché NEL TEMPO DELLA MADRE sia anche un'opera dialogica, un prosieguo e una ricapitolazione di un dialogo durato un'intera esistenza.
Il primo tempo (o, se mi è concesso dir così, movimento) introduce la madre centenaria, la cui mente è ormai totalmente avulsa dalla realtà a lei circostante, destino comune a tantissimi nostri anziani, "le pupille velate / non di riso o di pianto", "non guarda più l'orologio / posato sul comodino"; ella intrattiene però rapporti con le ombre, con amiche e familiari scomparsi ormai da anni "vengono in tanti, li chiama / ma perché restino tutta / l'interminabile notte" (si noti il significativo enjambement tutta / l'interminabile). È un ubi sunt? questo incipit del poemetto, un malinconico richiamare la ragazza di un tempo, colei che visse la giovinezza in un "aprile insaziabile" (e, si sa, "april is the cruellest month").
"Di quante storie è fatta / la sua minima storia / (.....) / Chiamiamo memoria lo schermo / su cui compaiono nomi, / camere, oggetti", prosegue il poeta, schiudendo così il ventaglio dei molti temi che innervano questi versi e che in essi s'intrecciano in una tessitura molto complessa.
Mi provo ad enumerarne alcuni: tema della biografia personale e familiare che s'intreccia alla storia nazionale o che la storia nazionale lascia intravvedere in trasparenza: i quattro tempi del poemetto vogliono cantare in ordinata sequenza cronologica il tempo della madre (primo tempo: la madre centenaria; secondo tempo: nascita, infanzia, giovinezza e matrimonio che si dipanano contemporaneamente alla Prima Guerra Mondiale, all'epidemia di febbre spagnola, all'emigrazione, al Fascismo; terzo tempo: il marito e i due figli con la Seconda Grande Guerra, la bomba di Hiroshima e il dopoguerra sullo sfondo; quarto tempo: la madre anziana e poi centenaria). La struttura ad anello conferma la rigorosa, direi matematica scelta stilistica di Elio Pecora che gli consente di dominare e confrontarsi con l'ardua materia, soprattutto perché sono il dolore e la presenza costante della morte a sottendere i versi.
Tema del figlio: "ancora aprile lucente. / Una domenica, all'alba, / le campane a distesa, / nacque il figlio, l'eletto, / dopo la pena e il silenzio. / A quel bimbo la madre / si mostrò uguale e compagna / nell'aspro amato viaggio / che non s'è ancora compiuto" sono i versi che sigillano il secondo movimento. "Da che può intendere il figlio / se la madre l'ha amato? / Tramutava le fiabe / in sperdimenti, in inganni: / (.....) / Andava per luoghi remoti, / inaccessibili, vuoti, / dietro il suo canto. / Che mai s'era promessa / se al figlio consegnava / un'impossibile attesa? / (.....) / Un altro figlio nacque / e dell'incauta alleanza / fu il testimone, ignaro, / l'allegra devianza" sono viceversa le parole con cui s'apre il terzo movimento. Ci accorgiamo allora che il poemetto racconta una storia d'amore che continua, tormentata e tormentante, ma anche felice, fino alla tarda età della madre: "Ancora gli occhi di lei / chiedono al figlio / di essere il padre, il compagno, / la guida sicura. / (Forse questo è soltanto / un errore del figlio, / forse soltanto un suo appiglio / nella paura)". Cito per sottolineare l'impietosa autoanalisi che Elio Pecora compie del proprio rapporto con la madre, facendo contemporaneamente della scrittura in versi la forma meditativa intorno al proprio vissuto di uomo, usando la disciplina della parola e del metro per compiere questa immersione dentro se stesso, ma, tengo a dire, senza autocompiacimenti, né narcisismi. Fatti, luoghi, persone di lancinante presenza all'animo del poeta vengono detti in uno stile limpido, privo di intellettualismi e di ermetismi.
Il tema della lontananza del padre, "l'uomo dagli occhi azzurri", s'innesta direttamente sul precedente, facendo del figlio una sorta di suo sostituto all'interno della famiglia, ché il padre, ufficiale di marina, è assente da casa per lunghi periodi e muore dopo lunga malattia.
Tema dello sguardo: il poemetto è denso di oggetti e di luoghi, è esso stesso per intero un vedere attraverso la memoria. Toccanti i rapidissimi accenni agli interni delle case che la madre ha abitato, meridionalli ambienti lindi e densi di ricordi.
Interessante anche il tema delle molte storie sottaciute, quasi che NEL TEMPO DELLA MADRE fosse un grande tronco da cui possano rampollare molti rami: "Crescevano i figli, il figlio / ora cantava anche lui, / e nella voce chiudeva / una diversa pena. / Ma è un'altra storia da questa" (finale del terzo tempo); allo stesso tema sono da ricondurre i numerosi accenni a persone che appartengono alla storia personale di Elena e delle quali non si racconta, per ovvie ragioni, la vita. C'è forse l'esempio forte del poema-romanzo familiare della CAMERA DA LETTO all'origine del lavoro poetico che Elio Pecora conduce intorno alla figura della propria madre, un coraggioso confrontarsi con un exemplum prodigioso qual è il libro di Bertolucci che, credo, rimanga ineludibile per chiunque voglia fare della propria storia familiare oggetto di poesia. Elio Pecora sceglie un canto da accorata romanza, l'incisività dei riferimenti, l'immediatezza del dire, l'epicedio antiretorico (faccio notare che epicedio è il sottotitolo del libro e che è parola tutta greca, alla quale Elio Pecora sottrae l'implicazione encomiastica per sostituirla con un vibrante affetto che ben traspare attraverso la cristallinità dello stile).
Ed infine il tema della morte, in realtà il più insistito, pur somigliando qui ad un discretissimo basso continuo capace di accompagnare tutti i quattro movimenti, per emergere prepotente nell'ultimo: "Cent'anni contro l'orrenda / estrema minaccia / che agghiaccia i piedi, le mani, / storce la schiena, le braccia", così esordisce il poeta nell'ultimo tempo (e si noti il ritornare del suono che accomuna la minaccia, il verbo agghiaccia e le braccia).
In questo finale del poemetto la madre, assistita da una discretissima signora moldava, cede al disfarsi della propria memoria mentre il figlio cerca di convincersi che la morte sia destino naturale e comune. In realtà l'angoscia della perdita e l'inaccettabilità del finire trovano espressione in una lingua poetica rigorosa e controllatissima, il dolore dirompente ed insopportabile viene detto in maniera diretta, entro la misura del settenario più o meno esatto: "Si sono traditi entrambi, / il figlio e la madre", osserva il poeta; "e lui, mentre grida che tocca / a ciascuno il morire, / misura il niente che può, / il suo gramo capire. / Nemmeno placa il dolore / la stentata preghiera / che muove il silenzio". Perché si sono traditi a vicenda? Forse perché la madre si è già allontanata pur rimanendo in vita (ma è una vita sempre meno cosciente, sempre meno presente a se stessa e che non riesce ancora a trovare la porta della morte fisica) e perché il figlio è impotente ad aiutare la madre in quest'estremo tratto d'esistenza, egli s'affida al lavorio della parola che, credo, in questo poemetto contemporaneamente acuisce lo strazio e tenta di comprenderlo. La parola è ferita e dice di una ferita. La poesia misura un lungo addio e vuole trattenere l'oggetto d'amore. La malinconia è canto e sapiente guida al dire.
E poi c'è un novilunio che si prepara dopo il quieto tramonto, mentre il bambino Gesù nella campana di vetro, già baluginato in altri luoghi del poemetto, pesca il cuore di rosso corallo; e, come nelle più classiche ballate tedesche che si concludono con l'aggettivo tot o con il sostantivo Tod, anche questo poemetto trova la propria conclusione nella medesima parola, forse non tragica, ma segnata da un dolore totalmente umano: "stanotte, forse domani, / si schiuderanno le porte / verso quel niente del niente / che chiamano morte".