A. Ferramosca per Montalto
![]() Il segno del labirinto
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autori: | Sandro Montalto |
formato: | Libro |
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articolo pubblicato su Poesia 2.0
Sandro Montalto: “Il segno del labirinto” – una nota di Annamaria Ferramosca
Posted by Annamaria Ferramosca on September 20, 2012
Ecco ritornare in poesia, con questa nuova raccolta di Sandro Montalto dal titolo emblematico, il mai dimenticato labirinto borgesiano, da cui sappiamo Non ci sarà sortita, tu sei dentro/e la fortezza è pari all’universo/dove non è diritto né rovescio/né muro esterno né segreto centro.( Elogio dell’ombra, J.L.Borges).
Un labirinto che l’autore (anche lui bibliotecario, poeta,scrittore e saggista come il suo amato Borges, oltre che drammaturgo, musicista e compositore) percorre con irriducibile pessimismo, considerandolo territorio imprescindibile dell’umano. Qui i nodi di un’ inesausta ricerca esistenziale, iniziata e dipanata già nei suoi due precedenti libri di poesia ( Scribacchino,Joker, 2000, Esequie del tempo, Manni, 2006).
E già nella scelta dei titoli assegnati alle tre sezioni di questo lucido libro (che raccoglie testi scritti lungo l’arco di 14 anni), Montalto dichiara di stare attraversando il mare del vuoto esistenziale (Nella palude del senso), dove galleggiano alla deriva i brancolanti tentativi di afferrare una terra-senso (Relitti della sfera intima). Con la certezza che resteranno solo brandelli di sensazioni ormai consunte dall’eterna vana ricerca di risposte (Frammenti di percezione).
Ed è un irrimediabile sentimento di amarezza cosmica che l’autore dichiara con coraggio in queste pagine, indicando il proprio punto di non ritorno, tutta la vanità di una ricerca d’impossibili epifanie. Un’ossessione del malessere cosmico, che insiste lungo i testi da varie angolazioni e appare coniugarsi con una pacificata sensazione di liberazione, raggiunta nell’atto stesso del comunicare riflessioni e convincimenti sull’unico senso della vicenda umana: il dolore del nonsense del tutto. Un desiderio vivo di aprirsi di fronte ai nodi cruciali che tutti ci accomunano, rivelato da quel prorompere esclamativo :”ecco!”, che troviamo sia nel primo testo della raccolta …soffia una brezza che piange umori…-ecco!-/in dolore s’eterna… , sia nel testo che la chiude …- Ecco! Qui fiorisce il mio sguardo straziato di dolcezza.
E se, come afferma Heidegger, poesia è la condizione prima per poter attraversare “il bosco” delle contraddizioni dell’epoca in cui si vive, Sandro Montalto assolve in pieno questo compito servendosi della poesia per esplorare gli inquieti spazi dell’interiorità, per capirne lo sgomento e le contraddizioni.
Seguendo il filo dei pensieri lungo le tre sezioni, si osserva come già la prima stanza labirintica orienti-disorienti il lettore su quello che sarà il percorso di una poesia che ha il suo paradossale punto di forza nel “rationale”, una chiarezza logica quasi da teorema, con qualche bruciante punta di poesia civile e non pochi agganci all’amore.
Un tu frequente rivela l’attenzione al lettore, ma ci s’accorge presto che si tratta di un tu speculare, riferito al Sé, come se l’autore si rivolgesse ad un amico per chiarirsi, convincersi, senza mai consolarsi e consolare. E però, intanto, si resta coinvolti nel racconto di una vicenda in cui non si può che riconoscersi: Ecco, io sono andato/ ed ho disseppellito il mio me recluso:/di cristallo mi sono visto, di sale/ mi sono assaporato,poi /un oracolo voleva spacciarmi/un futuro già visto/e mi ha stordito il caos del mondo. (pag.22)
Dunque la “demenza” che ogni cosa informa di sé, continua inesorabile a padroneggiare e a irridere, esercitando una forza disorientante che fa del mondo un inestricabile dedalo. E una delle tante domande che l’autore si pone, con onestà mista a tremore, e che mi appare centrale nella riflessione poetica di Montalto, è quella che riguarda il senso e l’utilità della poesia, che l’autore intende – come da lui stesso dichiaratomi – un sottoinsieme di una parola che chiede di esprimersi in tutta la sua potenzialità comunicativa. Montalto, che per la sua attività di critico ha sulle spalle un infinito chilometraggio di lettura di poesia, tanto da aver più volte mappato lo stato della poesia italiana, con umiltà e sgomento si chiede se sia proprio questa sua consuetudine ad esplorare “la geografia del vacuo” (pag.39) a rendergli difficile lo slancio creativo, a fargli perdere perfino i contorni della propria voce poetica. Ma in un precedente testo di pura meta poesia quale è (costruzione del poema), l’autore ha già dato la sua risoluta risposta, quando dichiara di far propria la lezione di Cioran: non bisogna costringersi ad un’opera,/ bisogna solo dire qualcosa che si possa bisbigliare/ all’orecchio di un ubriaco o di un morente. Con ciò affermando di voler concentrare lo sguardo solo sull’essenziale, restando indifferente ad ogni aspettativa di gratificazione, con la consapevolezza che un poeta vivrà sempre nel dubbio del valore della propria opera.
La seconda sezione è quella a mio parere più” intellettualmente felice”, poiché qui il pensiero sembra liberarsi dall’eccesso d’ombra, divenendo più luminoso e rivolto al mondo, sia pure non perdendo di vista la pervasiva amara ottica di fondo. Qui la parola può diventare anche studio “ anatomico” del proprio senso dell’amore, partendo dal desiderio di farsi goccia di sangue per poter arrivare a sondare i segreti dell’interiorità femminile, ammettendone infine l’assoluta imprendibilità. Ma l’analisi del sentimento continua svelando pure una “fisiologia”del vissuto d’amore, che è lotta tra istinto e sacralità dell’oggetto, e continua sosta sulla soglia di una rivelazione : Mi guardo intorno e non so / se tutto mi parla di te/o se con i tuoi occhi,/con l’iride che si espande nella mia mente,/ tu mi parli di tutto (pag.49). Dove amore diviene un corpo a corpo con l’altro,tra le insidie di tutto ciò che è oltreamore e distoglie, ma nonostante gl’infiniti nascondimenti, questo sentimento resta forse l’unica porta socchiusa al senso. Più avanti, infatti, il poeta parla della gabbia del tempo che tutto cattura e dissolve, tranne, per l’amante, il ricordo di sé nella mente dell’amata.
E qui anche inaspettati sprazzi dell’immaginario vengono incontro, come nel testo (bilancio), in cui l’immagine di una mosca che sbatte contro il vetro è metafora del desiderio di uscire nel mondo, assaporarne gli urti e magari soccombere. Una rappresentazione dell’ amore-odio verso la brutale realtà che attrae e respinge, cui non si può sfuggire, pena il continuo desiderarla. E ancora sopraggiungono versi dove vivono attimi di sospensione illuminata, (attimo antichissimo), dove il volto ed il nome amato e ogni altra cosa ed essere sembrano rivelare la propria non-essenza, un silenzio indecifrabile, l’ombra del nulla che tutto dissolve.
Può anche accadere che all’improvviso una fantasmagoria di sensazioni interrompa il filo delle riflessioni per illimpidire il mondo e indurre all’ascolto, a quel “pretendere parola”, che rivela una fede incrollabile nella capacità del segno primario della comunicazione umana. Montalto crede nella scrittura. Nella scrittura come antidoto alla dispersione del pensiero, come forza dello sguardo che sa filtrare i – rari – grumi di senso dal reale, come sicura asserzione del vero, pure di enunciati amari, insomma nella capacità della parola di conferire geometrica fissità alle forme incoerenti e volubili che attraversano la vita.
A tratti si susseguono testi che assumono il profilo di un percorso autopsicanalitico; il poeta sta esplorando il proprio labirinto e prende atto dell’inerzia con cui lascia scorrere i giorni, descrive anche l’(attacco di panico) con i suoi angosciosi dettagli, dove ogni fase apre a significati esistenziali e dove il culmine della sindrome è una sensazione di esplosione e insieme di pace, come un voler rivivere l’attimo dell’origine.
Nella terza sezione si apre la riflessione sull’eterno tormento di ogni poeta: la ricerca di un proprio efficace linguaggio. Montalto ben sa, per il suo denso percorso di infiniti linguaggi osservati e approfonditi, che deve fare i conti con “una lingua offesa, lingua scritta di ermetici /segni, spia luminosa di buio/lontana dall’egocentrico polo magnetico,/una fantasia malata sussurrata morta. (pag.71) e sa darsi una nitida risposta nel testo (ma la voce mente a se stessa), con l’implorazione alla parola -che è suo evidente imperativo in scrittura –perché possa trasformare una offuscata e sterile realtà, in segno vivo, fertile di emozioni. E’ la sua scelta di continuare un ” canto straziato di dolcezza”, dove il dettato è un contrappunto di lessemi scuri, termini a volte inusuali e tratti dalle scienze, e insieme di lucidissime note dense di verità, a volte di irresistibile autoironia ( sappiamo come la presenza di ironia possa paradossalmente tradursi in esito di salvezza dall’angoscia).
Lungo l’intera raccolta Il poeta non indulge a depistaggi dai suoi fuochi tematici, dando continue lezioni di esattezza con l’uso – per sottolineare i toni del disincanto – di uno stile aspro, mai estetizzante, attraverso brani dall’andamento a volte quasi prosastico, evitando leccate torniture del verso, che resta sonoro e vitale. Un tratto particolare dello stile montaltiano scaturisce da quell’urgenza dell’aprirsi di cui dicevo all’inizio, e consiste nelle sue soste esplicative, a dispetto di ogni classica definizione di poesia che mai dovrebbe “explicare”, solo lambire, accennare… Se, per esempio, leggiamo il testo In quel punto oscuro, pag.72), osserviamo come il tema da affrontare è ben più che una semplice visione o sensazione o flash onirico, dunque v’è necessità di una spinta chiarificatrice, di una stringente catena logica, anche a rischio di sottrarre ritmo ai versi.
Una poesia del malessere epocale, questa di Sandro Montalto, che si muove tra visione razionale del sé e dilata in ambiti alti, insistendo sulle domande estreme. Un libro di segni forti, che nella sua onestà e passione comunicativa sembra essere fatto di tutt’altro che di “tossico inchiostro”.