A. Moscè per Filippo Davoli
![]() I destini partecipati
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autori: | Filippo Davoli |
formato: | Libro |
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I DESTINI PARTECIPATI DI FILIPPO DAVOLI
Filippo Davoli, nato nel 1965 a Fermo, vive a Macerata dove dal 1986 (anno della sua prima pubblicazione), ha sempre donato versi saldamente legati a due circolarità, a due repertori del tutto fuori da esercizi sperimentali: gli affetti più cari e il mondo geografico, perfino cartografico, cioè i suoi luoghi, le sue colline sconfinate, i suoi vicoli stretti, le sue strade urbane nella coscienza rappresentativa di un’intera comunità. Un percorso assai coerente sulla scia di quella “poesia onesta” della quale parlava Saba, dove per onestà si intende la ricerca di verità interiori e soggettivamente incastonate, andando alla scoperta di “ciò che giace al fondo” dell’animo umano, da rendere intelligibile e chiaro nel linguaggio e da collocare dentro la cornice della realtà che si vede e si tocca. La volontà programmatica di Filippo Davoli emerge anche in “I destini partecipati” (La Vita Felice, Milano 2013), ultima silloge in cui scrive, quasi in apertura: “Il buio copre il silenzio di un vicolo. / L’acciottolato serba il segreto. Qualcuno / ride di entrambi”. La matrice poetica assume nella lirica un ritmo, un battito inconfondibile, come del resto nelle precedenti opere apprezzate da poeti e critici di primo piano come Franco Loi, Davide Rondoni e Alberto Bertoni. Davoli non mente, perché i segni inequivocabili della sua parola lasciano presagire un destino appunto partecipato nel sentimento di inquietudine (tra esistenza e libertà, direbbe Sartre), in una misura mai decisa nei labirinti della lingua, ma vivamente nella materia, nelle figure di persone amate, tra le quali la madre, o le madri (“Eri bella, ma questo già lo sapevo. / Sei bella ancora, anche questo lo so. / Eri giovane e attenta, studiosa / nella casa austera tra gli incunaboli / e i candelabri, i vetri smerigliati”). La luna, il cielo, le nuvole, le stagioni: questa poesia si rende partecipe di una compenetrazione che gode di tutte le sue sfumature anche atmosferiche, tra uomini, donne, bambini e natura. Viene accompagnata dai viaggi della memoria e da un piacere del racconto di aneddoti, di episodi di una passato che intessono un punto di vista assoluto senza essere inclini a verticali trasalimenti. Davoli ama fare dei ritratti dove l’eco del presente assume un profilo pressoché sacro: “A volte vorrei tornare ad avere le fulminazioni / di due occhi trovati per sbaglio che restano / inchiodati nei miei. Superare la cortina / degli occhiali, arrischiare un sorriso. Vorrei / tante cose, poche volte ma certe”. Si guarda, si ascolta, introietta un trasporto che resta in equilibrio tra inno ed elegia, come se fosse impresso un marchio a questi destini di gente comune che compie gli stessi riti. Ad esempio quello di andare al bar per “asciugare i dolori”, per ridere ai tavoli in compagnia, per cogliere attimi che escano da un’annoiata ferialità. Filippo Davoli dice esplicitamente che “ogni giornata è piena di fessure”, e fa venire in mente il poeta maceratese Remo Pagnanelli, il bel libro dello stesso Davoli e Guido Garufi, “In quel punto entra il vento” (Quodlibet, Macerata 2008), che sottintende il significato totale della vita e la comunione tra i vivi e i morti, altro tema dominante che ha la sua radice nei versi migliori del Novecento di Caproni, Sereni, Raboni, fino ai marchigiani di oggi Piersanti e Scarabicchi. C’è una splendida poesia finale che Davoli sembrerebbe scrivere come una dichiarazione di poetica indimenticabile, e che appare anche una sorta di premonizione felice, mite e comprensiva: “Lavoro per il mondo che mi attende, / vivo il presente per l’eternità”.
Alessandro Moscè