A. Paganardi per Pianzola
![]() Il ragazzo donna
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autori: | Luisa Pianzola |
formato: | Libro |
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Luisa Pianzola, Il ragazzo donna, La Vita Felice 2012
da “Il Monte Analogo”, n.15, ottobre 2012
La scrittura di Luisa Pianzola si offre ormai da anni come un interessante esperimento fra poesia e prosa, ma non solo: in una singolare stereofonia vi s’intrecciano tempi, luoghi, registri e voci. Nell’ultimo libro, Il ragazzo donna, pubblicato da “La vita felice” per la collana “Le voci italiane”, la polifonia si fa ancora più evidente già dalla prima sezione: l’autrice, in un dialogo con il proprio tempo che parte dall’ideale passaggio fra non-essere e venire al mondo attraverso la nascita, ricorre alla dialettica immediata fra corsivo e stampato. È una scrittura fortemente ellittica, come nota Piera Mattei nella prefazione (a proposito dell’enigmatico esergo e di altri particolari significativi nell’architettura del libro). Ciò che è taciuto eppure onnipresente, quasi un’insistita preterizione, è la certezza dell’oggettività del tempo, della sua esistenza al di fuori di noi. Da qui l’esordio e l’insistenza sul tema del concepimento: unica minima certezza data all’uomo (e due volte alla donna, in qualità di generatrice e generata) di recepire nella propria carne il flusso di un divenire più vasto. Da qui anche la presenza in filigrana della Storia, che già al momento del suo accadere cessa d’essere pura cronaca per diventare qualcos’altro: un perpetuo macinare dell’immaginario collettivo, che nella storia individuale si riflette e s’incastona. Ecco perché, se nell’orizzonte della nascita il libro si apre, in quello del tempo si chiude, quasi a suggellare l’abitudine al dir tacendo con la suggestiva sezione “Mai più nella Storia”: l’esecuzione dell’anarchico omicida Caserio, l’ombra di una strage che penetra nel salotto di casa dallo schermo (come non pensare all’incredibile ambiguità fra realtà e finzione che i nostri televisori, lasciati distrattamente accesi alle tre del pomeriggio, registrarono come tragico apax l’undici settembre di undici anni or sono?); poi le partenze, gli arrivi, la sopravvivenza degli esseri umili e caparbi, quasi a ricordare la tenacia della ginestra leopardiana:
«….i turisti premono a ponente. È un viaggio antico, uno spostamento chilometrico illimitato. Le valigie non sono mai abbastanza comode, non sono mai abbastanza grandi: come faremo a partire, lo chiedo a te, ragnetto sgambettante e fiducioso che questa mattina è risorto dallo scolo mostrando una vitalità invidiabile.» (p. 107).
Ma poiché non può mai darsi tempo senza spazio ecco, accanto alla Storia, i Luoghi: la sezione Stradario non è banale topografia, è ricordo di un’atmosfera, di un evento, di una scomparsa, di una domanda. Incarnazione reale della memoria, lotta – forse – contro l’angoscia del vuoto e dell’assenza: «Per creare, mettere al mondo, occorre uno spazio morbidamente assente». (p. 61).
La geografia scritturale di Luisa Pianzola ci consegna un’Italia e un Occidente assai diversi dalla retorica del miracolo economico, qui spesso minaccioso: edifici commerciali intercalati da cobalto, un equilibrio fatto di squilibri, un tempo e uno spazio che non tengono più insieme i ricordi. Sfila così dinanzi al lettore una dimensione altra (eppure concretissima, mai utopica) rispetto alla neutralità omologante del postmoderno industriale: una “terra che perdona”, eppure madre di tragiche abortite ribellioni come quella del pentito Peci; una via Emilia per nulla idealizzata, perfino iperrealistica, dove le passanti al semaforo sembrano per un momento azzerare i secondi piani e lo sfondo con la loro semplice, intensa presenza. «Come sono belle le ragazze allo stop dell’attraversamento pedonale, chiunque non le abbia perdonate ora lo farà, ma non sarà un padre, sarà il loro avanzare quieto…» (p.48). Quasi una “terza Italia” poetica, ben oltre le fredde intenzioni della geopolitica. L’iperrealismo caustico dell’autrice si precisa ulteriormente nella sezione “Paesaggi inumani”, dove protagonista della narrazione diviene l’opera d’arte; mentre la sua poetica si palesa viepiù nella successiva “Parole di una certa utilità”, dove si legge testualmente: «Descriviamo un oggetto. Anzi siamo lui. Ce ne facciamo carico». (p.89). Una poetica che definirei di responsabilità verso il mondo, standone sempre a parte e tuttavia mai al di fuori. La Storia, infatti, non dà mai giudizi e neppure l’autrice ne dà: il primo segno d’astensione è proprio l’immanenza antilirica, troppo vibrante per dirsi semplicemente verista, del suo personaggio narrante, sempre immerso ma sempre esterno al testo, in una difficile prossimità. Che si tratti proprio di micro - narrazioni, come accennavo dall’inizio, lo dice un dato ben significativo: ogni pagina inizia con la lettera minuscola anche quando possiede un titolo, come se provenisse da un macro - racconto sommerso, obliterato. E termina invariabilmente con un segno d’interpunzione (spesso un punto fermo) nelle parti scritte in tondo, con un’assenza completa di segni nelle parti in corsivo. Tutti dati che il lettore non può che registrare come traccia tangibile di quella maestria tecnica, di quella cura chirurgica del dettaglio che fa di questo libro un tentativo riuscito di scrittura d’attenzione.
Alessandra Paganardi