Alessandra Paganardi per Stefano Vitale con «La saggezza degli ubriachi»
![]() La saggezza degli ubriachi
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autori: | Stefano Vitale |
formato: | Libro |
prezzo: | |
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ALESSANDRA PAGANARDI
Gradiva del maggio 2018
Stefano Vitale, La saggezza degli ubriachi, Milano, La Vita Felice, 2017, pp.87, euro 13,00.
Una saggezza amara, gnomica, con sfumature spesso aforistiche, quella di Stefano Vitale. Leggendo le cinque sezioni – di cui la prima eponima – che compongono La saggezza degli ubriachi si ha l’impressione di attingere a un mondo di sapienza subliminale, insieme arcaico e nudamente disincantato. Vi si legge in filigrana, a tratti, l’ironia grottesca delle Cosmicomiche di Calvino. Vitale inventa una poesia in cui l’io lirico, pur individualmente vibrante, si dilata a proporzioni da grandangolo. Ecco perché il “noi” – o l’analogo impersonale – con cui spesso cominciano i testi non è mai termine retorico o di maestà, ma conserva per intero la sua autentica vocazione logico-grammaticale: quella di fungere da prima persona plurale. «Ci muoviamo verso il fondo» (p.11): «Desideriamo soste felici» (p.15); «Si sta fermi sulle scale» (p. 19); «Viviamo tra le ombre» (p. 21); «Così giriamo in tondo» (p.23); «Poi si sta dentro una stanza» (p.27); «Andiamo / passo dopo passo» (p.49); «Desideriamo tutti una forma» (p. 81). “Noi” indica in Vitale un sentimento collettivo, o meglio universale, omologo a quello dei molti infiniti sostantivati (anch’essi spesso posti a inizio verso), che affidano il lettore all’attesa di un’inquietudine definitoria, quasi foriera di una lontana profezia. «Rubare i sogni delle piante?» (p. 24); «Scegliere la posizione» (p. 37); «Tirar fuori dalla selva del tempo» (p. 53); «Ridurre il campo visivo» (p. 56). Eppure non c’è verità, perlomeno non in senso ingenuamente realistico, se «anche gli specchi possono sbagliare» (p.20) e se la vita, che appunto accade in mezzo a ombre, non sa sciogliere l’antico dubbio ontologico, che già fu di Cartesio, sulla differenza ontologica fra sogno e realtà. Il vero è cercato ma lasciato in sospeso, amato ma tenuto a distanza zen, con l’antica strategia di un amore che si preferisca rinunciare a vivere, pur di non consumarlo fino in fondo: il verso parte al presente, con la perentorietà del tempo storico o piuttosto acronico, ma non risolve mai l’implicita domanda in una risposta facile o assoluta. Il poeta è consapevole di parlare da un carcere (sono frequenti le atmosfere in cui vengono richiamate trappole, torture, passaggi privi di scampo, con chiari riferimenti a situazioni molto attuali) e sceglie comunque di farlo. La «saggezza degli ubriachi» è forse simile al «terrore di ubriaco» di Montale, suprema consapevolezza di un mondo ostaggio delle illusioni e prodromo della «divina indifferenza» montaliana? Certamente in Vitale, lucido erede del Novecento letterario, emozione e distacco si compongono in una formula interessante e originale: gli squarci lirici acquistano forza proprio dalla rivincita sul rischio di un disincanto totale. Dopo Auschwitz, sembra dirci l’autore, si può e si deve ancora fare poesia, ma con una coscienza nuova. Anche se la passione per la forma esatta è spesso destinata allo scacco, anche se l’epoca stessa, con l’esaltazione del virtuale, sembra sancire per ogni cosa un destino di transitorietà e dissolvimento, l’arte è l’unico luogo in cui tutto può essere ancora detto: l’ultima sezione del libro, non a caso, è dedicata alla musica. Un’altra importante fonte ispirativa di Vitale è la natura: non necessariamente la natura esotica o sublime, ma quella che si mostra quotidianamente nella «lezione dei fiori», che «è nel loro essere fiori, e questo basta» (p. 65). Sembra di risentire il famoso verso di Gertrude Stein. Anche lo scenario floreale del terrazzo (da cui parte la penultima sezione) resterebbe tuttavia muto se non ci fossero parole per dirlo. Questo libro, materiato di sapienza e di suoni, di colline a volte desolate e di profonde riflessioni sul tempo, di amore residuale per la terra e e di sobria nostalgia del cielo, ci ricorda che tutto si perde, ma la parola rimane a testimoniare i mondi che sono esistiti dentro e fuori di noi. Una parola che non è traccia, ma evento a sé stante, isomorfo rispetto alla vita. Forse può bastare. Il resto è «luce astratta, vita ammirata, / che non possiamo afferrare» (p. 70).
Alessandra Paganardi