Alessio Paiano per Vittorino Curci con «Poesie (2020-1997)»
![]() Poesie (2020-1997)
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autori: | Vittorino Curci |
formato: | Libro |
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su Poesiadelnostrotempo
Vittorino Curci, eterno discepolo | Poesie (2020-1997)
È difficile scrivere di un libro come quello di Vittorino Curci: Poesie (2020-1997) (La Vita Felice 2021) raccoglie a ritroso gran parte della produzione del poeta di Noci, per cui ci si trova di fronte a una costellazione di testi distanti nel tempo, anche se resta inequivocabile la voce peculiare del poeta. Leggendo il volume si ha la sensazione di girare attorno a un punto ossessivo, mai davvero esplicitato. Penso prima di tutto al poeta che scrive, cerco di comprendere dove voglia arrivare questa scrittura che si modula nello stile, nel verso che cede al racconto nei suoi allucinati ragionamenti. Questa credo sia una tematica onnipresente nella produzione di Curci, intendo la luce. Non si tratta di un elemento puramente decorativo, né di mettere luce, illuminare le cose, rendere chiaro qualcosa. È tutto il contrario: la luce serve a distorcere, è allucinatoria e pone il poeta su un piano stralunato da cui le cose sbiadiscono e si confondono. È questa una zona d’ombra della poetica del sud: una luce che si scatena sulle cose come una maledizione e non dà spazio a redenzioni di sorta. Ogni verso di Curci gioca su questa ambiguità tra folgorazione e caduta infernale; dopotutto la luce è anche e soprattutto quella che rende irrespirabile l’aria del sud, che costringe gli uomini a rinchiudersi nelle loro case in cerca di riparo. La casa non è un rifugio quando le cose si assopiscono, ma il contrario: c’è un mondo fuori che fa il suo corso mentre gli uomini devono attendere il loro turno. Nei versi di Curci tutti gli uomini sono prigionieri di un’attesa riverberata nella morte o nei ritmi stagionali, il tempo è una cantilena che ripete una storia finita; c’è anche spazio per dichiarare l’abisso tra le generazioni, con i vecchi descritti come superstiti e i giovani (soprattutto bambini) che si ritrovano in un mondo con cui prendere ancora le misure, mentre i più grandi non hanno parole per spiegarglielo. Tutto scorre in perdita e il verso registra il ritmo di un tempo interiore che sfuma la memoria e il circostante; sempre ci si chiede leggendo cosa cerchi il poeta, dall’inizio alla fine. Qualsiasi cosa sia non c’è verso di trovarla, il soggetto sembra ritrovarsi di lì per caso, passeggiando tra i ruderi della mente. La terra che si descrive è a volte un segreto, a volte un’eredità, più spesso un mistero; fuori dal caotico ritmo cittadino si fa fatica a collocarsi nella storia, per cui si cerca un proprio ruolo differente. In assenza di una regola riconosciuta, vivere diventa un gioco di riprogrammazione: per questo l’esperienza poetica di Vittorino Curci è preziosa, diversa dai terreni dibattuti da più poeti della sua generazione. Si può solo narrare da una posizione di marginalità, senza creare, con la propria poesia, una bolla in cui rifugiarsi dalle insidie del quotidiano; nella poesia di Curci il distacco dalle cose non è immediato, non ci sono pericoli da cui proteggersi. Le distanze sono molto più ampie, e riguardano un mondo troppo lontano (il mondo del ‘centro’) per essere reale: a smuovere il rischio di un paesaggio immobile ci sono le esistenze degli altri, che fanno riemergere gli occhi da un sogno immobile. Volti nuovi di persone venute da lontano e che destano la curiosità del poeta, contrastata dalla diffidenza degli altri abitanti del paese, un paese che non è mai specificato e che quindi coinciderà con ogni angolo desolato del Meridione. In una parentesi storica curiosamente ricolma di maestri, Vittorino Curci si mostra come un eterno discepolo che mette a disposizione di tutti, senza cesure generazionali, la propria esperienza di uomo tra i ruderi della storia. «Si è vivi da qualche parte», dice una delle poesie: quel luogo è il senso della ricerca, ma tutto si rimanda in una luce che non lascia scampo. Cosa significa per Curci (e per chi la conosce) questa luce? Un faro accecante che da secoli manda a fuoco un palcoscenico di pietra e terra, dove noi agiamo ma solo come comparse.
Risposta di Vittorino Curci
Caro Alessio,
mi sono sempre pensato come un apprendista a vita. Perciò quando nel titolo della tua recensione mi hai definito “eterno discepolo” mi sono sentito a casa, riconosciuto, accolto dalle tue parole. Prima che scrittore di poesia, io mi sento lettore. E se fossi costretto a scegliere tra scrivere o leggere poesia non avrei alcuna esitazione, sceglierei senz’altro e mille volte leggere perché non saprei come farne a meno, come sarebbe possibile altrimenti continuare a vivere.
Per quanto riguarda invece il discorso che fai sulla luce nella mia poesia (“la luce serve a distorcere, è allucinatoria”) sento di dover fare una piccola precisazione: non riesco a concepire la luce indipendentemente dall’ombra che essa produce. Nella tenebra non si vede niente, ma anche se c’è una luce accecante non si vede niente. È tra questi due estremi che possiamo esercitare il nostro sguardo sul mondo. E la prima cosa che scopriamo è che un’immagine è nitida quando è determinata dalla nettezza delle ombre. Ebbene, un testo poetico crea inevitabilmente delle immagini (a volte anche dei racconti): è un fatto intrinseco alle parole. Ma i poeti si rapportano a queste immagini e a questi racconti in modi diversi. Ci sono quelli che lavorano di più sulla luce e quelli che lavorano di più sull’ombra. I primi danno l’idea di guardare la realtà attraverso un vetro, per cui da una parte c’è il soggetto e dall’altra l’oggetto. I secondi invece, quelli che lavorano di più sull’ombra, guardano la realtà posizionandosi al di là del vetro, considerandosi parte, pulviscolo, di quella stessa realtà. Io, grossomodo, credo di avere molte cose in comune con questa seconda tipologia di poeti. Ed è forse per questo motivo che sono un po’ brutale (diciamo pure: espressionista) quando ho a che fare con la luce. Cerco più che altro di ritagliarla dalle ombre con vigorose lumeggiature.
Aggiungo un’ultima cosa. Tu scrivi, e sono assolutamente d’accordo con te, che la poesia non è “una bolla in cui rifugiarsi dalle insidie del quotidiano”. Questo è un punto cruciale perché molti, anche alcuni poeti, pensano il contrario. La poesia non è qualcosa di personale. Non lo è ontologicamente per la natura e l’origine del linguaggio che usa, e anche per come lo usa. In essa c’è sempre un bisogno ineluttabile di andare incontro all’altro. Senza il quale la poesia non avrebbe alcun senso.
Ti ringrazio di cuore e ti abbraccio,
Vittorino
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Tutte le sillogi qui riportate sono incluse in Poesie (2020-1997) (La Vita Felice 2021)