Angela De Leo su La Poetologa per Vittorino Curci
![]() Poesie (2020-1997)
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autori: | Vittorino Curci |
formato: | Libro |
prezzo: | |
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Scrigno prezioso che racchiude il Tempo e lo dilata oltre ogni limite possibile ad abbracciare/allargare anche lo Spazio, questo nuovo Libro di Poesie (La Vita Felice 2021) di Vittorino Curci, musicista e poeta di Noci, antico amico del tempo ritrovato perché mai perduto. Le briciole lasciate lungo la strada che da oggi portano a ieri fino a sfiorare la prima alba del mondo sono le parole in cui il poeta, e lettore, ama e paventa ritrovarsi. In “quella terra sconsolata/ sfuggita alle carte geografiche/ dell’eterno”. Lo spazio/tempo del poeta non è mai il suo luogo e il suo momento. Di qui il suo bisogno di riprendersi l’infanzia per ritrovare una sorta di gioiosa innocenza, ma anche “i pensieri di un bambino” che traghettano il suo “io” adulto tra due secoli così contrastanti tra loro da non lasciare speranza nel futuro. Meglio uscire in silenzio dal vortice dei ricordi che labirintano l’anima senza indicare una via di fuga se non un agognato intimo rifugio nei miti che ci vollero eroi, in un alone di mistero che s’annebbia nel buio della notte dei tempi e non concede scampo ai nostri giorni che, ancora più privi di luce, s’infuturano nel passato. E i versi, che non credono in una continuità spazio/temporale della lingua e delle voci (quella di sua madre “più velata”), si sbriciolano in frammenti di ricordi che conservano l’incanto della prima volta, ma anche il tormento della irripetibilità dell’attimo e di quella emozione, quel sentimento, quella situazione/condizione di vita, che il poeta avverte mai propriamente sua perché immersa nella storia degli altri, che rinascono ogni volta in storie diverse, simili e mai uguali. E, del resto, Vittorino è egli stesso un “verso scazonte” sempre in consonanza col ritmo interiore della sua musica e sempre ribelle a schemi di perfezione e armonia, pur nella versatilità del “trimetro giambico” della sua anima. Mai sola. Mai in compagnia. Sempre spaiata. L’unica coppia uncinata nel cuore è quella di quel ragazzino, che “giocava a morra con le ore della notte” per sentirsi vincente, e la sua sorellina, di cui nessuno parla più, ma ci sono i quaderni che la rendono viva più che mai nel “lodevole impegno” di conservarli nel tempo. Un tempo restituito e recuperato in tanto “moltiplicarsi di strade”, nelle innumerevoli “seduzioni e lontananze”, a cui Vittorino Curci, più propenso a ritagliare le ombre interne ed esterne che a vivere la luce e di luce, che spesso al Sud assorda e ubriaca, non si è mai piegato. Non è un caso che persino le sue opere poetiche, che questo tempo scandiscono e divaricano a ritroso e zigzagando nei millenni spazio/temporali, riguardano vent’anni e un po’ di più. Perché niente sia normale, prevedibile, scontato. Il poeta ha avuto bravi maestri per destreggiarsi abilmente nel non scendere mai a patti con la quotidianità: “ridono di noi che abbiamo imparato/ a scongiurare il peggio/ da maestri che alzando ostacoli/ ci amavano, da domande cruciali/ troncate a mezzo”. Mai una risposta a spegnere curiosità e ardimento dovuto alla creatività d’inventarsi il giorno. È proprio vero “che l’amore dei padri si capisce dopo, quando il cielo impalma la terra?”. Forse. “Ogni scintilla di senso” diventa un dono dopo. E così, pur essendo tutto molto contenuto nel carattere minuscolo del segno grafico e tutto a rovescio rispetto alle regole grammaticali e sintattiche, la poesia di Vittorino Curci rivela “un talento che dissoda/ le linee del campo/ e si protegge con un ombrello disegnato da un bambino.”, dove “le parole e il silenzio si toccano” e si trasformano in musica che si fa nuova generazione e “rigenerazione” di un millennio che è agli esordi, ma ci indica già un inizio e una fine tra paure, contraddizioni, nascite, rinascite e morti. “Siamo in pochi, sempre meno, nel nostro misero/ accampamento. La sfrontatezza dei lavori arbitrari/ è appena un ricordo./ Come un finale a tempo/ e una voce fuoricampo che invita a sgombrare/ il passato”. Anche se tutto torna e poi scompare nel nulla di una realtà che non è neppure tale.
E i tanti enjembement di tutta la raccolta danno continuità alla frantumazione di sé e del sé. Ma è una continuità che esalta la poesia, e la musica che vi vibra dentro, ma non dà scampo al poeta né tantomeno al suo essere persona. Vittorino ne è consapevole e guarda con occhi disincantati e lontani l’amara verità mai vera. Rimangono le cose? Forse. E rimane il dubbio. In versi, in prosa. Egli prova a scambiarne i sensi, ma il risultato non muta. Gli oggetti sopravvivono ai sentimenti. “Oggetti plastici con rari lampi di dolcezza…”. Persino “Dio in persona” lo manca “per poco”. E tutto si risolve o quasi in una sorta di “stanchezza della specie” nei melmosi fondali del tempo. E tutto sempre si invera. È un canto a rovescio che non conosce ritorno. Fino a oggi. Vittorino ama il Teatro ma non i teatranti dell’ultim’ora. Ama la parola ma non i parolai. Ama la poesia ma non i sedicenti poeti. Ama la musica ma non i suonatori improvvisati senza esercizio e senza talento. La realtà vanificata nel “niente”. Il niente che per fortuna è più concreto del “nulla”. Ma non offre via di fuga nell’infanzia, come un tempo. Ed è per questo che l’Autore si congeda in silenzio con il clamore di una denuncia, che rivela la sua ESSENZA altamente umana: “l’attore impacchettato nel vestito viola/ sfida la realtà già pronta di un testo/ mutilato per passione. Profondità è l’evidenza dei legami, l’irreparabile/ di ogni vita (…) i sopravvissuti dormono sui soppalchi/ mentre sulle strade, improvvisamente/ buie, i manichini si sporgono/ dalle sponde dei cassoni”
E il viaggio continua in una solitudine che ha “soste puntuali/ nel dolore.” Ma “nessuno dirà/ che non esisti.”.
C’è da sperare che il viola, così nemico agli Attori e al Teatro, diventi un indaco di stupore continuo, di spiritualità immanente e, forse, anche trascendente per i Poeti, i Musicisti e gli Artisti perché ci salvi ancora POESIA, in un messaggio che includa e raggiunga gli altri e gli altri ancora…
E, intanto, Poesie mette le ali e già vola lontano dove imprendibile è persino il tormento dell’attimo fuggente. Angela De Leo
(dalla Prefazione di Milo De Angelis a Poesie (2020-1997) di Vittorino Curci)
Ed ecco la recensione del critico letterario Alessio Paiano, proposta da un'altra grande poetessa Ginevra Della Notte sulla sua pagina FB: VITTORINO CURCI, ETERNO DISCEPOLO/ POESIE (2020-1997)
“È difficile scrivere di un libro come quello di Vittorino Curci: Poesie (2020-1997) (La Vita Felice 2021) raccoglie a ritroso gran parte della produzione del poeta di Noci, per cui ci si trova di fronte a una costellazione di testi distanti nel tempo, anche se resta inequivocabile la voce peculiare del poeta. Leggendo il volume si ha la sensazione di girare attorno a un punto ossessivo, mai davvero esplicitato. Penso prima di tutto al poeta che scrive, cerco di comprendere dove voglia arrivare questa scrittura che si modula nello stile, nel verso che cede al racconto nei suoi allucinati ragionamenti. Questa credo sia una tematica onnipresente nella produzione di Curci, intendo la luce. Non si tratta di un elemento puramente decorativo, né di mettere luce, illuminare le cose, rendere chiaro qualcosa. È tutto il contrario: la luce serve a distorcere, è allucinatoria e pone il poeta su un piano stralunato da cui le cose sbiadiscono e si confondono. È questa una zona d’ombra della poetica del sud: una luce che si scatena sulle cose come una maledizione e non dà spazio a redenzioni di sorta. Ogni verso di Curci gioca su questa ambiguità tra folgorazione e caduta infernale; dopotutto la luce è anche e soprattutto quella che rende irrespirabile l’aria del sud, che costringe gli uomini a rinchiudersi nelle loro case in cerca di riparo. La casa non è un rifugio quando le cose si assopiscono, ma il contrario: c’è un mondo fuori che fa il suo corso mentre gli uomini devono attendere il loro turno. Nei versi di Curci tutti gli uomini sono prigionieri di un’attesa riverberata nella morte o nei ritmi stagionali, il tempo è una cantilena che ripete una storia finita; c’è anche spazio per dichiarare l’abisso tra le generazioni, con i vecchi descritti come superstiti e i giovani (soprattutto bambini) che si ritrovano in un mondo con cui prendere ancora le misure, mentre i più grandi non hanno parole per spiegarglielo. Tutto scorre in perdita e il verso registra il ritmo di un tempo interiore che sfuma la memoria e il circostante; sempre ci si chiede leggendo cosa cerchi il poeta, dall’inizio alla fine. Qualsiasi cosa sia non c’è verso di trovarla, il soggetto sembra ritrovarsi di lì per caso, passeggiando tra i ruderi della mente. La terra che si descrive è a volte un segreto, a volte un’eredità, più spesso un mistero; fuori dal caotico ritmo cittadino si fa fatica a collocarsi nella storia, per cui si cerca un proprio ruolo differente. In assenza di una regola riconosciuta, vivere diventa un gioco di riprogrammazione: per questo l’esperienza poetica di Vittorino Curci è preziosa, diversa dai terreni dibattuti da più poeti della sua generazione. Si può solo narrare da una posizione di marginalità, senza creare, con la propria poesia, una bolla in cui rifugiarsi dalle insidie del quotidiano; nella poesia di Curci il distacco dalle cose non è immediato, non ci sono pericoli da cui proteggersi. Le distanze sono molto più ampie, e riguardano un mondo troppo lontano (il mondo del ‘centro’) per essere reale: a smuovere il rischio di un paesaggio immobile ci sono le esistenze degli altri, che fanno riemergere gli occhi da un sogno immobile. Volti nuovi di persone venute da lontano e che destano la curiosità del poeta, contrastata dalla diffidenza degli altri abitanti del paese, un paese che non è mai specificato e che quindi coinciderà con ogni angolo desolato del Meridione. In una parentesi storica curiosamente ricolma di maestri, Vittorino Curci si mostra come un eterno discepolo che mette a disposizione di tutti, senza cesure generazionali, la propria esperienza di uomo tra i ruderi della storia. «Si è vivi da qualche parte», dice una delle poesie: quel luogo è il senso della ricerca, ma tutto si rimanda in una luce che non lascia scampo. Cosa significa per Curci (e per chi la conosce) questa luce? Un faro accecante che da secoli manda a fuoco un palcoscenico di pietra e terra, dove noi agiamo ma solo come comparse”.
E non finisce qui. Conto di continuare ancora col libro di Vittorino Curci perché la nostra felicità di leggere e intervenire con le nostre considerazioni continui…