Anna Maria Curci per Marco Colletti con «La Materia non esiste»
![]() La materia non esiste
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autori: | Marco Colletti |
formato: | Libro |
prezzo: | |
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Con il lapis* #51: Marco Colletti, La materia non esiste. Poesie. Prefazione di Annelisa Alleva, La Vita Felice 2024
Il silenzio di Dio
A volte la vita mi trova a scrivermi
nelle sante parole che Babele
ci ha dato. Quando tutto era fascino
dell’identico, oasi del pensiero
trasmigrante, come le greggi
smunte, i capri testardi e le arcane
movenze degli aratri, ma tutto
parlava lo stesso suono. Le voci
del mondo, oggi, le assordanti preci
che affollano la mente di Dio, mille
e poi miliardi di lingue, perché
dovrebbe capirle? Lui che non
le ha create, ma quella Torre della
tracotanza, la bruttezza incompiuta
di un interphone interrotto, l’inizio
e la fine del discorso del silenzio.
(p. 27)
Tratta dalla prima delle tre sezioni – Mens, le altre due sono Cor e Sensus – che compongono il volume di Marco Colletti La materia non esiste, la poesia Il silenzio di Dio presenta uno tra i temi portanti e ricorrenti nel libro, quello della colpa commessa con la costruzione della torre di Babele. La colpa reca nei versi il nome che è la trasposizione in italiano del termine in greco antico hybris. Si tratta della tracotanza, umana superbia e sete di dominio, punite con la dispersione in «mille/ e poi miliardi di lingue». Questo allontanamento dalla lingua di Dio assume connotati negativi, come verrà ribadito anche in altri componimenti della raccolta. In ciò la posizione di Marco Colletti sembra divergere da quella di Dante nel XXVI canto del Paradiso (“Opera naturale è ch’uom favella;/ ma così o così, natura lascia/ poi fare a voi secondo che v’abbella.”).
Allontanarsi dalla lingua di Dio – così pare di cogliere il senso di quanto scritto nei versi menzionati – determina da parte di questi la chiusura alla comprensione. Perché – leggiamo – Dio dovrebbe capire quella moltitudine di lingue diverse? Nei primi versi del testo menzionato compare una vera e propria rarità nell’intero volume: il tempo imperfetto del modo indicativo, per riferirsi a un tempo ormai trascorso, nel quale «tutto/ parlava lo stesso suono». Non c’è traccia di rimpianto in La materia non esiste, allora questa affermazione e questo unico ricorso al tempo imperfetto va interpretato con un ruolo centrale che l’unità della lingua riveste agli occhi dell’autore. Essa va vista infatti come manifestazione del soffio della creazione e, per essere più precisi, di quel Logos che unisce parola pronunciata e pensiero “in principio”, in ebraico “bereshit”. In tale unità, allora, vanno visti «l’inizio/ e la fine» e alla luce del gesto creatore attraverso il Logos si comprende l’affermazione sulla quale è fondato tutto l’insieme dei cento componimenti di Marco Colletti: La materia non esiste. Se è nella parola-pensiero di Dio il principio e la fine di ogni cosa, ne deriva che quanto viene affermato nel componimento eponimo («Mi piace pensare che la materia/ non esista. Poter camminare/ attraversando la gente, i loro corpi/ ricami del nulla, come se nessuno/ fosse veramente qualcuno», p. 37) non è solo un capriccio, un sogno dell’io poetico, ma, al contrario, il suo impegno, unito a una capacità non comune, a rendere questo irriducibile mistero con una trama sapiente di parole, frutto di una percezione acuita proprio dal movimento attraverso e oltre la corporeità così come dell’abilità da fine orefice che sottende il lavoro compositivo.
Se, per avvicinarsi all’opera di Marco Colletti, si volesse ricorrere alla parola “esteta”, questo termine andrebbe riferito al ruolo centrale delle sensazioni, delle percezioni. L’attenzione posta al dettaglio, alle numerose sfumature cromatiche, alla scelta meticolosa di ogni singolo lemma e alla sua combinazione con gli altri lemmi, alla disposizione sulla pagina dei versi, al saper cogliere e rendere la musica nel cosmo: tutto ciò testimonia tanto la cura artigianale, quanto l’originale intuizione artistica che si è arricchita di consonanze con tante voci letterarie (oltre a quelle che saranno menzionate più avanti, risuonano, tra le altre, quelle di William Shakespeare, testo alle pagine 84 e 85, e di Emily Dickinson nella traduzione di Silvio Raffo, testo a p. 29).
Il percorso che dall’Uno riconduce all’Uno passa per una molteplicità di manifestazioni, rivelazioni, rese con la precisione di chi con l’attenzione al dettaglio sa – e prende in carico la responsabilità di questo sapere – di esprimere la propria devozione al creato frutto dell’amore creatore. Sembra davvero di poter accostare tale percorso a quello che va dalla Genesi all’Apocalisse, dal primo all’ultimo libro della Bibbia, dunque. Tra i propositi di prosecuzione del romanzo di Novalis Heinrich von Ofterdingen, stando alla testimonianza di Ludwig Tieck, c’era l’inserimento dei versi in rima che iniziano con “Quando ormai più né numeri e figure/ Chiave saranno di tutte le creature” e terminano con “Davanti a Un motto segreto sparirà/ L’intera essenza, allora, dell’assurdità” (la traduzione è mia). Marco Colletti, che appare proteso in quella direzione, disegnata dall’itinerario biblico e felicemente immaginata in letteratura dal poeta romantico Novalis, non trascura, tuttavia, di illuminare il sentiero con le linee e i bagliori di costellazioni, vicine e lontane dall’immaginare comune, di colorare la tela che tesse servendosi di una tavolozza amplissima (suggerisco, tra le possibili modalità di lettura, anche quella volta a raccogliere le varietà cromatiche che compaiono tra i versi, dal giallo oro, arancio, rosa, rosso, rubino, color del tamarindo, viola, verde, blu, alle «iridescenze effimere/ del Prisma primordiale», Finale di stagione, p. 92) e mostrando un’abilità nel comporre partiture musicali sia ricorrendo a dispositivi quali allitterazioni, assonanze, rime interne, sia nella frequenza di termini amati perché sonoramente evocativi: agave, ala, alate, albeggiare, andane, angeli, candido, folgorante, giardino, lenzuolo, pulviscolo, roventi, sandalo, soffio, veliero. Non si può ignorare, a tal proposito, la traccia, studiata e interiorizzata, della poesia di Rainer Maria Rilke, in più di un passaggio. A mo’ di esempio, vengono riportati qui, sempre nella mia traduzione, questi versi: “Vedi, Angeli sentono attraverso lo spazio/ i loro incessanti sentimenti./ Il nostro calor bianco sarebbe il loro freddo./ Vedi, Angeli ardono attraverso lo spazio”. Sembra rispondere Marco Colletti: «Mi sono perso dentro le tue parole/ come un fumo d’incenso profanato. / Spira sottile di pensieri densi,/ giunco teso davanti all’arenile./ Ho raccolto nei tuoi capelli un candido/ rovo di conchiglie, come un esile/ ciuffo di acanto madreperlato./ Ardi di puro sandalo, agave/ soffocante, che mi stringi le nari.» (p. 78). Ecco che i versi tratti dalla sezione Cor, nella quale è un altro libro biblico, Il cantico dei Cantici, a far risuonare la propria eco, distendono alla vista e all’udito una composizione piena e fortemente evocativa, rispettosa della regione del mistero, proprio nel senso additato sia da Rilke, sia da Ungaretti, non a caso menzionato nella Postfazione dell’autore.
Il mistero permane e sprigiona il suo aroma lieve eppure intenso anche nel componimento finale, nella terza sezione del libro, Sensus: «Non c’è finzione più bella che/ immaginarsi il Paradiso. Nubi,/ musica di arpe, quella giusta/ dose di luce che conforta gli/ occhi» (p. 128). Tra finzione, sogno e constatazione di una realtà (Superiore? Senz’altro nuova!) l’interrogazione si trasforma in ipotesi e disegna un ponte ideale verso futuri incontri della parola poetica di Marco Colletti.
Anna Maria Curci