Anteprima Poesia: Arsenico e nuovi versetti di Gabriella Montanari
![]() Arsenico e nuovi versetti
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autori: | Gabriella Montanari |
formato: | Libro |
prezzo: | |
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Reattività fino alla rabbia, corporalità fino all'esibizionismo, libertà fino alla bestemmia, diversità fino all'antipoesia, lotta senza quartiere verso le mosse perbenistiche e autopromozionali dell'io lirico sono gli elementi portanti della poetica praticata da Gabriella.
[…] spinta è la tentazione di applicare la lente di una lettura psicoanalitica, sollecitata dalla manifestazione di una particolare invidia penis, che altro non è se non la necessità di proiettare all'esterno e svuotare il veleno accumulato in corpo, al fine di non farsi l'arsenico addosso. D'altronde, la penna e il pene non solo condividono una vicinanza fonosimbolica ma rappresentano pure due modi per dire la stessa cosa: lo strumento di una presenza creativa nel mondo, un'arma di difesa/offesa per tenere alla larga i fantasmi di una vita che ha procurato pesanti ferite e inguaribili risentimenti.
Ne deriva una scrittura che non vuole e non sa rilassarsi (nonostante l'apparente nonchalance), impegnata com'è a denunciare irridere aggredire mezzo mondo, in termini diretti e volutamente urticanti. Insomma, mentre molta poesia si preoccupa di stendere veli e patine ideali, Gabriella sceglie una formula che vuole strapparli quei veli, rovesciarle quelle patine, per mostrare la meschina, persino ridicola, realtà del teatrino umano, da cui non riesce comunque a tirarsi fuori.
[...]non è la voglia di épater a motivare la nostra poetessa ma la sua acuta fame di verità totale, il suo sogno di libertà radicale, il suo bisogno di esplorare il lato d'ombra del pianeta umano, "troppo umano", per farne un resoconto senza peli sulla lingua e senza risparmiare a se stessa il medesimo sguardo impietoso, a costo di tradurre il bracciodiferro avverso il superio sociale in una ancor più cogente istanza morale.
Nel complesso, qui si assiste alla sfida che una donna allergica ai compromessi coscienziali ha ingaggiato, tête-à-tête, con il mondo e con se stessa, una sfida cruda, crudele eppure fresca, dolorosa eppure divertente, che colloca questa poesia lungo il minoritario sentiero antipetrarchesco praticato da poeti che potremmo chiamare indignados; quel sentiero che – per intenderci – potrebbe muovere dalla provocazione ignifera di Cecco Angiolieri e, costeggiando la terra abitata dai Villon e dai Bukowski, passa per i quartieri insofferenti di qualche maudit.
Qualità – questa – abbastanza sufficiente per dedicare una buona dose di curiosità, attenzione e apprezzamento agli spruzzi di arsenico che Gabriella ha riversato sulla pagina sotto forma di versetti.
dalla prefazione di Lino Angiuli "Se la penna invidia il pene"
dalla sezione I - pisciare controvento dalle dune
Nelle notti d'estate, appiccicose come carta moschicida, ingurgitare litri di birra ghiacciata non è un sollievo da poco. Fai il pieno nei bar sulla spiaggia, poi t'infratti nei bagni più isolati per sfuggire al casino, alle luci sguaiate e per provare, con quel po' d'ebbrezza e d'alcol in corpo, a sentirti in pace con te stessa prim'ancora che con gli altri. Ma anche per illuderti, complice il buio, che tutto sia rimasto uguale a vent'anni fa.
Mentre te ne stai su un lettino a fissare il cupolone celeste, con un desiderio preconfezionato stretto tra i denti, la vescica t'implora di svuotarla. Allora, in virtù d'un residuo di decenza, t'inerpichi a chiappe serrate sulle dune di sabbia, cesso pubblico e anticamera della pineta. T'inoltri tra gli arbusti, i piedi martoriati da sterpi e schegge di arselle, le braccia striate dai rovi, le mutandine calate che non ne usciranno indenni e la brezza che ti muore sui glutei. Osservi il rivolo di urina che scava un cunicolo sotto le gambe. Se sei stata previdente tiri fuori un cleenex dalla tasca, altrimenti oscilli su e giù per scrollare le ultime gocce e senti che non è così che doveva andare. Non come i cani, non come una femmina. Accovacciata, costretta a terra. Ma in piedi, spavalda, lo sguardo fiero rivolto alla confusione nera tra mare e cielo, il vento contro e una pioggia calda sulla faccia. In mano un idrante di carne e in corpo la libertà di espellere veleno dalle viscere, tossine dai tessuti, ammoniaca dal sangue.
Pisciare, scrivere. Lo stesso sfogo appagante, la soddisfazione di un bisogno impellente. L'espulsione catartica, l'eruzione che riscalda. L'orgoglio di far spiccare il volo a particelle di sé, di lasciarle andare per il mondo. Poi, dopo l'impatto col muro del vento, ritrovarsele sparpagliate sul viso, dalla fronte al mento. Accoglierne il tanfo stomachevole, il sapore rancido, l'alone giallastro. Riceverle come colpi inferti che tornano indietro, senza sorprendere, ferendo appena e temprando. Getto dopo getto, arrivare alla conclusione che forse, da piccoli, due sberle in più non avrebbero fatto male.
papa...
alla fermata dell'autobus
l'attesa si prolunga,
per terra c'è un profilattico esausto
e io m'interrogo sull'utilità del papa.
sì, papa con la minuscola
perché il rispetto non è grammatica
il paperone in mitria impartisce dal deposito degli orrori
inaccertabili benedizioni
farcite di bocconi reazionari
i roghi sono spenti,
ma l'aria ricorda ancora l'odore stucchevole delle carni arse
e resta aperta la caccia
alla strega che vuole abortire,
al prete eretico che chiede moglie,
al perverso che si accoppia contro natura,
a quella diavoleria di lattice che ostacola l'epidemia
il capobranco e la muta di cani in gonnella
terrorizzano le pecore ingozzate di paure e colpe,
abbindolate con promesse eteree,
impalpabili,
pronte a esplodere
come dogmi di sapone
in verità vi dico...
la domenica mattina è fatta per dormire
e non per lo shopping al Supermarket del Buon Pastore
tirati a festa, con in tasca la lista dei peccati
il paradiso è un morso in un tartufo d'Alba
il purgatorio, il risveglio dopo una sbornia
l'inferno, il frigo vuoto
la giustizia
ce la siamo giocata in eterno
dio – o chi ne fa le veci
è affar mio
affar nostro
affare di donne e uomini in croce
in cerca di pace.
... papà
c'era una volta un tizio
sotto il mio stesso tetto;
mi si diceva di chiamarlo babbo
così, un giorno dopo l'altro,
come un occhio strabico,
come un piede piatto,
ho finito per accettarlo
il cranio duro come una bietola,
l'intestino ingordo,
i sensi alla guida del cervello,
gli urli per mendicare rispetto,
fottutissimo padre padrone
seminava il terrore
scavandosi la fossa
la mediocrità è longeva
e oggi il pater familias,
cariatide di muscoli paralizzati e neuroni atrofizzati,
si avvinghia come una pulce infetta
all'epidermide della vita
il silenzio che ci separa
mi urla di perdonare un misero vecchio
ma il cuore è sordo da anni
e lo stomaco non regge più
alla vista degli spettri
gli porto in dono la morte
che rende vittime anche i carnefici;
ne avrò in cambio rimorsi
e magari quel che mi spetta
per estinguere il mutuo della casa al mare.
in diretta dalla fossa biologica
è un cesso profondo
oggi
la vita
e non merita
neanche una riga
eppure ce ne sono già volute cinque per dirlo,
come sempre
è lei che vince
resto seduta sull'ovale
a espellere idee costipate dagli anni
e volti sempre più liquefatti;
aspetto che lo stimolo taccia
e che la pancia sia vuota dei troppi residui
il tempismo del telefono,
il groviglio del rotolo,
uno spruzzo di lavanda,
la corsa sgangherata
e poi
uno strillo meccanico
che si complimenta perché il mio numero è stato selezionato
e perché il cane – che non ho mai posseduto –
potrà beneficiare a vita di un servizio completo di toilette
basta un «sì» dopo il segnale acustico
biiip
«toby è morto di scabbia
ma vi ringrazio, a nome suo, per il pensiero».
a mugnaio donato non si guardano le pale
è così che va
il primo ha l'oro in bocca
la seconda l'argento vivo
il terzo una pacca sulla chiappa
la poesia scende goffa dal podio,
inciampa nei sofismi, ruzzola tra le angherie e si rialza
con la faccia tosta di chi è avvezzo
a fare finta di niente
rido dei suoi acciacchi
e della mia ipocrisia
perché anch'io ho mangiato prugnoli e capretto a tradimento
e presto, fisco permettendo,
infilerò l'assegno nelle Trebisacce
non son fiera di versi che un padre non possa leggere
senza maledire il giorno in cui il suo sperma mi ha eruttata,
ma non rinnego la rabbia con cui ho sputato veleno,
condito di rammarico e annegato nel sangiovese
sono qui per questa terra a lungo ignorata
che ora si vendica riempiendomi la bocca di oleandri e il naso di lucciole,
sono venuta per quel quarto di sangue calabro
che mi porto dentro come un ordigno, impaziente di esplodere in silenzi
poeti e giurati
finiremo tutti nel limbo dei senza fede,
la pancia gonfia di vanità,
le orecchie sature di cerume insindacabile
venissero i briganti, i mafiosi e i fratelli massoni
a fare piazza pulita di medaglie e allori,
a radere al suolo premiopoli
e a bruciarne i tentacoli
qui il mare è troppo vecchio di bellezza
per tollerare l'affronto di versi sciatti e spettinati
e la montagna onora i latitanti ma non i venduti
comunque sia
neanche qua si riesce a dormire
dietro il muro di destra il poeta russa come un unno,
dietro quello di sinistra due galli mannari se le cantano di santa ragione
e dietro quello di mezzo i tasti picchiettano parole goffe
pur di non dire
grazie.
enten-eller
«e tu questa la chiami poesia?»
– mi chiede la stronza
insinuando il bacillo del dubbio nei miei polmoni sani
«perché, tu sapresti riconoscerla, Saffo?»
– rispondo da sadica
rispedendoglielo indietro ancora più virulento
anche questa presunta amicizia è finita così
per una balordissima questione di poetica
i versi seguono le mode e la domanda di mercato,
si attengono al formato e ai criteri editoriali,
non sgarrano, non dicono una parola di troppo,
profondi perché incomprensibili,
sublimi se lo decreta l’Arnoldo
l’orifizio anale non è degno di menzione,
la vita va bene finché non sporca
e a forza di ermetismo e introspezione
vien voglia di scalfire, sverginare
non per posa, ma per amore
se Aristotele avesse concluso che
se l’uomo è il frutto della vita
e la poesia è il frutto dell’uomo
allora la poesia è il frutto della vita
quella stronza avrebbe già avuto la sua risposta...
se poi è l’uomo il soggetto che non vi aggrada
basta dirlo,
al poeta gli si troverà qualcos’altro da fare.