C. Annoni su Spinella
![]() Eva ostinata
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autori: | Carla Spinella |
formato: | Libro |
prezzo: | |
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Recensione di Carlo Annoni, Professore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano
Carla Spinella, Eva ostinata.
Poesie (prefazione di Luciano Aguzzi), Milano, la Vita Felice, 2011
Propongo una variazione sul titolo, prima ancora del mio ingresso nel libro, come dono di amicizia all’autrice. Dovrebbe essere in sermo familiaris, ma l’autore da cui citerò non lo consente. Si tratta dell’Alighieri, nientemeno, il quale in Paradiso XXXII, 5, definisce antonomasticamente Eva con la nota perifrasi di «quella ch’è tanto bella» (su cui il mio maestro Apollonio postillava: «quasi un atto estatico»). Naturalmente ogni studioso di onomastica letteraria non può mancare di riconoscere nell’omaggio alla madre di tutti i viventi l’omaggio del poeta alla sua propria madre di sangue e di latte, a Bella, dunque, ipocorismo di Gabriella (come, del resto, Dante è ipocorismo probabile da un Durante). Questo, ripeto, costituisce un cadeau portato ad una festa «in terra di Letteratura», secondo il manifesto del più proverbiale Caproni: «In terra di Letteratura, / con la volpe e il fagiano, / vieni, dammi la mano, / là non esiste paura».
La lirica di Carla Spinella mi sembra raggiunga il suo culmine di verità nella zona degli epicedi («E al tuo corpo che s’inarca / al dolore / risponde il mio che piange le tue lacrime», con quell’assoluto refrain: «Tu non sai la pena del fiore moribondo // No, tu non sai la pena», quei versi beanti, così espressivi nel loro modus elocutionis: «Il tuo sorriso / incerto […] la parola / […] sospesa», il «forse» nascosto in «fiorisce» (e che, anagrammaticamente, lo nega; mentre tutto deriva instancabile verso «l’orchestra del nulla»). Accanto alla madre appare un alter ego, quello che Jung avrebbe chiamato la figura dello specchio, un secondo sé sororale; ma di nuovo emerge la voce del dolore, cui non riesce di sollevare il «greve sonno della pietra», mentre sente, invece, il battito del «talora», ma unicamente per un attimo, dal momento che subito torna il buio: «Solo per grazia talora / s’illumina il buio // […] e per un attimo[…]». S’alza allora, con intonazione solenne, a riassumere un’intera fenomenologia di affetti che ormai appaiono solo in sogno (o in incubo), l’alto pathos di «Schegge dolenti / nelle carni sfatte // Sopravvissuta ai graffi / brutali d’un secolo // pura trama […]».
Si capisce bene l’approdo del poeta e della sua poesia alla musica, luogo dell’energia («E l’onda mi porta lontano // Rigenera il fiore appassito fresca / linfa d’amore / e più nulla si oppone / alla vita che esplode») e culla consolatrice («Accarezza l’anima ferita / fascinoso canto che dolce […]»; «Si leva gioioso / un trillo da fronde lontane»). Chissà quali sono i nomi degli autori che suggeriscono associazioni tanto estreme; le più pertinenti, fra l’altro, dal momento che il concertare dei suoni è per definizione a-semantico?
Chi leggerà distesamente s’accorgerà dell’arbitrio, a volte perfino eccessivo, con cui il critico isola e ricostruisce una propria linea dentro le linee altrui; ma tali sono il patto e la paga di ogni testo poetico. Non credo, ad esempio immediato (e questo è l’ultimo motivo esegetico cui vorrei accennare), si tratti di un libro di illusioni perdute (o di vocazioni tradite). Vorrebbe magari esserlo, in qualche modo, nell’intenzione (e nel suggerimento del titolo), ma è invece, sempre, l’opera dei congedi (al massimo, raccogliamo il costante rimpianto di non avere cantato di più, tanto il «caos» quanto la «forma», sia nella materia della «stella» che della «lampada», sia del «vento» che dell’«acqua»: quasi dentro una pluralità panteistica d’essere, insomma); con qualche sorpresa straordinaria e inattesa: «Mentre dorme l’uomo / va la sua ombra / per le vie vietate / e sfiora il mistero»; cui aggiungere: «Eppure era bello / riempire la sera / attendendo che l’alba / vincesse la morte / e Amore vestisse / di luce dorata grigi / cieli d’inverno».
Dovessi raccogliere in sintesi, parlerei di Stinovo (con maggior precisione: di aspirazione alla gentilezza dello Stilnovo) buttato e urtato contro la città di Baudelaire, «impura, marcia, letale», segnalando, nel tessuto dei versi, la continua irregolarità di tactus del moderno che si sente e si coglie privo d’appoggio. Dovessi, ancora, affidarmi a immagini esemplari per la memoria, sceglierei il fiore e il gabbiano: il primo da collocare nel «giardino segreto / dove un fiore tenero / e gentile che s’illudeva / d’essere farfalla / accorato si piega sullo stelo»; il secondo da far agire nel «quadro di salmastra solitudine / e per tutto un grido di gabbiano attore / d’un dramma / che non ha scelto».
Ogni pagina, sia di lettore che di poeta, corre verso il suo congedo. Estrarrei, dunque, dal magma, qui giunti, un frammento, usandolo anche in qualità di bandiera da alzare sui nostri anni: «Pure / attendo il fiato primigenio / che svegli speranze in letargo».
Svelo, secondo probità, un abito voluto di questa mia pagina esegetica: non ho riprodotto titoli con intenzione, perché mi è parso che venissero dopo e che il libro debba invece essere attraversato senza troppe pause, come un pensiero e una melodia continui, ininterrotti, accordati o striduli, spesso inquietanti e raramente consolatorii.
Grazie, in ogni caso: è ciò che sempre si deve a un poeta.
Carlo Annoni