«L’enigma cosmico» di Giuseppe Meluccio letto da Felice Seneca
![]() L'enigma cosmico
|
|
autori: | Giuseppe Meluccio |
formato: | Libro |
prezzo: | |
vai alla scheda » |
“L’enigma cosmico” di Giuseppe Meluccio (La Vita Felice 2017, Opera Prima), letto da Felice Seneca
su ediletteraria
Credo che una delle ragioni della bellezza delle poesie di Giuseppe Meluccio sia il fatto che il senso di pessimismo che sembra di ritrovare all’inizio, a poco a poco evapora man mano che noi giungiamo ad una percezione complessiva dell’enigma cosmico che, a modo suo, l’autore intende “proporre”, trasmettendocene l’emozione, perché fiducioso che si possa da parte di tutti avvertire la invisibile luce, quasi sempre nascosta, anche a chi pur condivide la visione di una ciclicità cosmica che si ripete sempre uguale a se stessa. Questa invisibile luce, una sorta di bellezza collaterale, parafrasando il titolo di un film, come mistero che si può svelare è, in particolare, la chiave di lettura, naturalmente molto soggettiva, che intenderei proporre.
Ai “morti di ragione” Meluccio quasi sembra voler dire, in “Dimostrazione”, a p. 81,
Pascoli allegro
verso il macello della speranza.
Arrendi l’obolo d’oro
Al cappio oltre le nuvole
arrendi la tua dignità
Si rivolge a chi non vuol vedere, si ostina a non percepire quella che è, appunto,
l’invisibile luce
che acceca chi chiude gli occhi.
E invece Meluccio invita proprio ad aprire gli occhi, perché, appunto, non siano più ciechi, prigionieri di una
ruggine cerebrale che
scricchiola nelle carcasse pensanti
come leggiamo a p. 74. Dovremmo sforzarci di saperla vedere bene quella luce che tanto spesso fuggiamo per restare legati al nostro privato:
fuggiamo la luce
in mondi impossibili
vaghiamo sgomenti nel privato inferno.
L’invito è quello di rompere la maschera, per aprirci alla percezione del vero e, appunto della bellezza collaterale, per citare ancora il titolo di quel film, quella bellezza che riscatta il senso di vuoto che prende sì, ma solo in un primo momento, fino a che apriamo davvero gli occhi della mente, come avviene per l’uomo appena uscito dalla caverna platonica. C’è, leopardianamente, la possibilità per gli uomini di scoprire quanta potenzialità vi sia nel loro unirsi e accomunarsi, l’unica dimensione in cui essi possono veramente brillare, come possiamo leggere, in metafora, a p. 83:
le stelle incantano soltanto
quando brillano in costellazioni,
la polvere risplende
solo se attratta all’unità.
Nonostante le nostre differenze irriducibili, i nostri limiti come singoli, possiamo fiorire, come genere umano, solo nello sforzo di unire le potenzialità e le forze:
se siamo petali tutti diversi,
fioriamo sulle spirali dell’unica,
stupenda sezione aurea.
Insomma il vero divino è da scoprire nell’uomo, che nella dimensione dell’unità e dell’amore può elevarsi a vera infinità, può
sollevarsi per conquistare l’anello della vita
come leggiamo sempre a p. 81: un superamento dello sconcerto derivante dalla comprensione della ripetitività dell’eterno ciclo, del ripetersi ciclico del mondo e della vita, che solo ad uno sguardo distratto potrebbe sembrare l’ultima parola del linguaggio della scienza:
Palingenesi e pulsione,
nella luce risorgerà la Fenice
dalla gravità del buco nero
come leggiamo a p. 79, nella poesia intitolata “Alchimia del cosmo”, in cui sondiamo una reminiscenza insieme eraclitea e stoica, ma che si riallaccia anche a ipotesi scientifiche recentissime, circa un universo che ruota come un serpente che alla fine si morde la coda attorno ad un buco nero insondabile che in realtà non esiste e al quale si vuole dire, nel libro:
Mordi la tua coda, Uroboro.
Meluccio muove, per arrivare a questo, da un senso estatico del tutto che egli poi si sforza di trasmetterci, soprattutto su basi scientifiche molto raffinate, presupposto dello smascheramento, di sapore niciano, che egli mi sembra voler operare nei confronti di un mondo borghese che vive, di fatto, senza fede, nei convenzionalismi di una religiosità spesso falsa o abbandonata e con gli idoli materialistici come dio segreto, dati a teste incapaci di pensiero vero, morti di ragione:
tanti scheletri neri
non diventano culla
né sangue di pensieri
ma ceneri di nulla
come leggiamo a p. 61. Se questo arrendersi del pensiero è come l’arrendersi a una camicia di forza, allora, scrive Meluccio quasi con impeto, in “Teoria dei buchi neri”:
lacera questa dannata camicia di forza
nella consapevolezza umanissima che a tutti è dato uscirne, indipendentemente da ogni condizione dell’esistenza; gramscianamente tutti possiamo essere intellettuali, eraclitianamente tutti possiamo accedere al logos:
perché in verità in verità, sappiamo tutti che
(più che umani) siamo scienziati
come leggiamo in “Un’altra lacrima”. Tutti dotati di impensabili capacità (scrive Meluccio manifestando grande fiducia nell’uomo), capacità che, unite possono dare meraviglie di umanità e convivenza umana. Invece, purtroppo, siamo invece spesso dirottati a fare
abominio, indicibile distruzione,
come leggiamo, sempre in “Un’altra lacrima” e la parola si fa
frattura di vita
fino agli estremi dell’odio e del fanatismo terroristico, delle bombe di Parigi o della irrazionalità delle guerre contemporanee, a partire da quella siriana, come leggiamo nella poesia dedicata a Carlangelo Mauro:
e come potevamo noi tacere
allo scoppio della bomba
per le strade, alle lacrime stillanti degli innocenti,
alle raffiche nere di terrore.
Un impegno civile, come si vede, un impegno che sottrae la poetica complessiva a chiusura personalistica o individualistica. Meluccio si sforza di incitare a una percezione delle possibilità che sono date all’uomo, come microcosmo bruniano in cui si può raccogliere il senso del macrocosmo. Come diceva Giordano Bruno, negli “Eroici furori”, laddove coglieva tante corrispondenze tra macrocosmo e microcosno,
l’uomo non ha limiti e quando un giorno se ne renderà conto sarà libero.
Infatti il tema delle corrispondenze tra micro e macrocosmo a me sembra cruciale in questa raccolta e rappresenta un nuovo rimando filosofico, un rimando, oltre che a Bruno, al pensiero di Rudolf Steiner. E di simili corrispondenze leggiamo ancora, ad esempio, a p. 14:
sciami di galassie, eserciti di stelle…
risonanze nell’universo della mente
su onde di pensiero.
Sono corrispondenze intuite nei momenti dell’immaginazione poetica, una volta abbandonata la distrazione prodotta dalla vita quotidiana, che infrange il senso del tutto, che tutti possiamo avere, e che penetra e insieme sfugge nelle tessiture dell’intelletto sognante.
È nel silenzio unisono
che nasce il senso,
ma il mio orecchio è infranto,
la tua voce penetra e sfugge
nelle tessiture dell’intelletto.
Sono i momenti in cui si chiudono, baciandosi, le palpebre e il pensiero va a quella intuizione di infinito e di infinite possibilità umane, le infinite possibilità che possiamo e dobbiamo scoprire in noi tutti:
e così riempio i polmoni di coraggio
e mi tuffo oltre l’estremo confine…
In fondo a questo tunnel surreale,
in cui la luce è troppo lenta
e il nero è troppo chiaro
troverò sicuramente la risposta.
Il tunnel è appunto la metafora del collegamento tra macrocosmo e microscosmo. Quando, appunto, si chiudono gli occhi sensibili si dischiude la vista interiore, come leggiamo ancora in “Auditorium”:
finalmente la mia casa è libera,
rosa senza spine,
e il mio respiro profondo
è preludio al concerto del silenzio.
Chiudo la porta e vivo una vita
potendo finalmente ascoltare e comprendere come meravigliosamente possiamo essere tutti in armonia, in cui i suoni diversi si integrano diventando battimenti di vita, come leggiamo in “Battimenti” (a p. 41):
le nostre onde non generano caos,
ma battimenti di vita.
Sono i battimenti all’interno dell’uno-tutto bruniano, che può richiamarsi, a sua volta, alla concezione omnipervasiva dell’jin e dello jang, per la quale
nel circolo senza confini
si mescolano nero e bianco,
partorendo vita
come leggiamo in “Traguardo” e anche in “Svanisco ancora”, laddove ascoltiamo che il dolce ritornare al sonno che non è sonno, ma un dischiudersi alla vera visione delle cose, un avvertire una sensazione che non è lo svanire di chi si annichila, ma di chi si concentra in se stesso, per vedere con occhi non solo sensibili:
col cuore pieno ai tuoi cieli ritorno
tra luci e rovesci di primavera
e in un istante la gabbia del giorno
svanisca ancora, subdola chimera
mentre quando poi torniamo alla normalità del quotidiano la filigrana vera dell’universo torna a usurarsi e
la sveglia schiude le mie palpebre
e torno a veder le bigie stelle
come leggiamo ancora in “Teoria dei buchi neri”. Sembriamo, allora, come dei “buchi nel pieno”
in virale attesa
di essere otturati dal nulla
perché, scrive Meluccio in “Auditorium”,
svanisce la leggerezza del pensiero
sotto il peso del mondo.
Sono le “bigie stelle” o realtà di questo mondo umano, troppo umano, direbbe Nietzsche, che ci rendono incapaci di “infuturarci”. Non a caso, giorno per giorno, vediamo come i gesti dell’uomo “si fanno abominio, indicibile distruzione, la parola si fa frattura di vita”, quando invece si potrebbe vivere tutti insieme e al meglio e scoprire giorno per giorno il bello del vivere, nella semplicità delle azioni gentili, dei pensieri, dei discorsi fatti umani, che anche quando sono molto semplici ma schietti, possono essere a loro volta scientifici, sottratti a quel reale irreale, a quel distanziamento, in cui gli uomini si isolano gli uni dagli altri e
si stringono le spine della realtà
e mi straziano.
Straziano di dolore, di non-ragione, persi tutti nel mare dell’incomunicabilità kafkiana, in cui non ci si ribella nemmeno ai propri torturatori. Questi torturatori sono appunto immaginati come spine che ci assalgono. Ma la possibilità per compiere il salto oltre le spine, non ci deve sfuggire, nonostante tutto. Qui inizia, secondo me, la parte più propositiva e ottimistica della raccolta (o del cammino): vi è la possibilità dell’uomo nuovo, aperto al futuro più bello, quello dell’autenticità da parte di ognuno. Questa possibilità la possiamo ascoltare, nella meditazione del silenzio o del sogno, che dischiude le possibilità che sono date, in fondo, a tutti. La possiamo ascoltare nell’“Auditorium” del pensiero non turbato dalla quotidianità spesso meschina, con gli occhi del pensiero incondizionato o poco condizionato dalle miserie, e che dischiude al “concerto del silenzio”, per ritrovare “caldi rimedi in rime” e “un arcobaleno che straripa nel cranio”. Una visione estatica (come dicevo all’inizio), della possibilità, non ancora realizzata, che può finalmente essere realizzata, anche se rischia sempre di subito svanire davanti alla realtà più cruda, per la quale può svanire la “leggerezza del pensiero”, dice Meluccio, cioè del pensiero non oppresso da tutto ciò che non è amore e che rischia invece di sprofondare “sotto il peso del mondo”, in cui inautenticamente siamo chiamati a vivere, ripetendo la rappresentazione scenica della nostra vita non vera, perché il nostro tempo è, scrive Meluccio,
Il tempo che chiama ai letti,
ai cartellini, alle poltrone, al fumo…
chiama tutto a smorta vita prenatale.
Il messaggio allora, mi sembra chiaro e bello: possiamo andare, pur sempre, nonostante l’inautenticità imperversante, alla
sovracoscienza cosmica che universa
verso più ampi spazi umani,
inverando la vita
e così sfuggire finalmente all’inautenticità degli “eterni residui”, ma la cui “detonante epochè … eclisserà tutto il male”, in un tempo in cui i nostri battiti potranno non più essere infinità ripetitiva e noia e inautenticità, ma “battimenti di vita” aperti al cambiamento, anzi “frattali del cambiamento”.
Si può così davvero non più
fuggire la luce, presi dagli inferni privati
che ci ottenebrano la vista facendoci diventare dormienti, come diceva Eraclito, incapaci di comprendere il logos che ci sovrasta ma di cui siamo parte. Partecipandone veramente ci si discoprono quelle possibilità bruniane di essere davvero persone heideggerianamente autentiche, capaci di ascoltare l’Essere vero. Voglio incoraggiare allora, Giuseppe Meluccio, a continuare in questo cammino poetico o meglio poietico, perché ha le potenzialità di contribuire a una vita spirituale nel nostro tempo che è oggi troppo rinsecchita.
Felice Seneca