D. Tartaglia per Filippo Davoli
![]() I destini partecipati
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autori: | Filippo Davoli |
formato: | Libro |
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C’è una poesia di Carlo Betocchi che descrive in maniera incredibilmente calzante il sentimento che pervade la lettura dell’ultima opera in versi di Filippo Davòli. È tratta da Un passo, un altro passo, raccolta del 1967, in cui il poeta fiorentino, ormai sessantenne, scrive:
Non ho più che lo stento di una vita / che sta passando […] Eppure, senza acredine. / C’è quell’amore nascosto in me / quanto più miserevole pudico, / quel sentore di terra, che resiste, / come nei campi spogli: una ricchezza / creata, non mia, inestinguibile.
È proprio questo sentore di una terra che resiste, di una ricchezza inestinguibile, che afferra e inchioda alla lettura chiunque intraprenda la bella avventura di addentrarsi nelle pagine de I destini partecipati. Verrebbe proprio da chiedersi come si fa ad invecchiare così: senza acredine (anche se Davòli è tutt’altro che vecchio, visto che compirà appena 49 anni), in cui il passare degli anni, più che un declino, diventa un approfondimento ancora più onesto del proprio umano che, di conseguenza, porta in dote una maturazione della parola.
La poesia di Davòli segue un procedimento a rebours, uno sviluppo che non è affrancamento dalle origini, distacco, ma piuttosto un ritorno al nucleo originale della parola poetica, un’indagine ancora più appassionata circa il fondamento della propria esistenza, come artista e come uomo.
Questo è un libro che per essere capito, o meglio, per goderlo nella sua profondità va riletto più volte. Occorre arrivare all’ultima pagina e poi ricominciare daccapo perché l’epilogo degli ultimi versi – lavoro per il mondo che mi attende /vivo il presente nell’eternità – getta una luce su tutto quello che viene prima, è lo sviluppo maturo di una chiarezza ancora in nuce che percorre la singola pagina, ognuna passo ineludibile per la conquista di questa consapevolezza.
I destini partecipati esce a distanza di tre anni da quella che resta, a mio parere, la vetta artistica di Davòli: Come all’origine dell’aria. Seppure il primato di quest’ultimo, per quanto riguarda il raggiungimento di una grazia e rotondità del verso, di un’eleganza della parola (vera cifra stilistica del poeta fermano) rimane indiscusso; I destini partecipati compiono un passo ulteriore nella direzione della personalissima ricerca poetica ed umana di Davòli.
La poesia di Davòli perde qualsiasi orpello formale ed acquisisce invece un’asciuttezza più decisa, radicale, che non scivola mai nella sciatteria, ma nasce piuttosto da una conoscenza consapevole di cos’è la parola e cos’è l’uomo, della finitezza del termine e dell’infinità della vita, di quell’ Amore, che chi ti incontra non sa dirti. In questo senso la parola non ne esce svilita ma piuttosto valorizzata nella sua gravità, nel suo peso verbale e nella ricchezza di significati.
Il percorso del libro si sviluppa lungo l’asse della riconquista di una nudità dello sguardo, di quell’innocenza perduta capace di puntare dritto al fondo delle cose percepite ultimamente come dono.
Resiste, infatti, un’ultima fedeltà nei confronti del reale (e dunque anche della parola), una consapevolezza che solo restando / al tuo metro di terra e di luce / guardandoli, avvertendo il presagio / del mondo che si mescola ruotando, spicchi il salto, ti accolgono.
È proprio nell’impastarsi totalmente con il proprio metro di terra e luce che la vita torna a ferire, a ricavarsi uno spazio. Uno spazio che, nella poesia di Davòli, viene occupato dai ricordi di una vita, dalla nostalgia per quei volti perduti, come se per un attimo l’altezza della parola abbia il potere di farli rivivere. A ben vedere però, ne I destini partecipati troviamo una poesia che vive una dimestichezza assoluta con questa nostalgia, con l’inquietudine, come se il poeta ne conosca a memoria i tratti, seppur sfuggenti, e ne anticipi i tempi, ne domi le infuriate e accompagni le ritirate. Per questo il ricordo, anche quello più doloroso, seppur in un coinvolgimento emotivo sincero, è vissuto sempre con un distacco sacro, capace di guardarlo nella sua interezza e, proprio per questo, capace di non soccombere al dolore ma piuttosto di veicolarlo attraverso la scrittura, strada tormentata ma necessaria di elaborazione continua del lutto, dell’assenza.
In quest’analisi ci vengono in soccorso i versi di altri due giganti del Novecento, segno evidente che, quando una voce è vera, essa non può che essere contaminata dalle voci dei padri, non può che andare ad immergersi nel fiume di una ricerca lunga secoli. Ecco dunque come i versi di Par Lagerkvist: Chi sei tu che colmi il mio cuore della tua assenza? / Che colmi tutta la terra della tua assenza? e Mario Luzi: di che è mancanza questa mancanza, / cuore / che ad un tratto ne sei pieno? gettano una luce su come sia vissuto dal poeta il tema centrale di tutto il libro: l’assenza.
Essa non è mai vissuta come approdo disperato del vivere – e dunque anche della parola – ma è piuttosto quel centro infuocato che spinge ad un’inesauribile ricerca, ad un continuo domandare. Questa ricerca costringe ad un inevitabile solitudine, ma è una solitudine che non deprime, che non cede alla facile compagnia del mondo, ma scava (le escoriazioni non bastano, bisogna ferirsi) fin dentro le viscere del reale per scoprirne il fondamento, per svelarne il mistero. Come è luminosa, come è dignitosa in Davòli la scoperta di questo rapporto intimo con il Mistero!
È dunque nelle pause, nei momenti apparentemente più insignificanti, lontani dai riflettori, che si realizza questo rapporto personalissimo, un rapporto in cui il poeta rimane sulla soglia del reale, tende la corda che divide il visibile dall’invisibile, in attesa di una voce che si riveli.
Si ricorre dunque ad un topos tematico che è quello del ‘passaggio’, dove la vita si tocca con la morte, che non è mai un viaggio verso il nulla ma piuttosto l’introdursi in una nuova conoscenza, è una fanciullezza non immemore / che si fa nuova.
Proprio per questa urgenza che percorre la scrittura – che è innanzitutto umana più che letteraria – la poesia di Davòli non si attarda in nessun rovello estetico, procede piana, regolare e mantiene in modo del tutto naturale le accelerazioni fulminee della visione, i lampi lunghi, quella luce che improvvisa è capace di accendere il reale, di leggerlo più a fondo e quindi di suggerirne un senso.
Ogni giornata è a cavalcioni sull’abisso / Eppure se alzi lo sguardo puoi scorgere l’aria / che si risveglia dal sonno.
Un senso che è sempre offerto con la discrezione di una poesia che sembra vivere già solo per il suo pronunciarsi, in una totale fiducia stupefatta del suo semplice esistere, libera dai lacci di qualsivoglia incidenza storica o culturale, nella piena coscienza che aprire il cielo non è opera d’uomo.
E’ forse proprio questa coscienza, questo stupore di fronte all’ampiezza del cielo – che ci sovrasta ma ci coinvolge, ci ferisce ma ultimamente ci salva – che colpisce della poesia di Davòli. Una voce che – seppur nella sua forte proiezione metafisica – si mantiene lontana da vaporosità eteree e possiede, come terreno fondante, un luogo solido di partenza e di approdo: il reale. In mezzo, nello spazio drammatico della libertà dello sguardo si fa largo la poesia, in quella drammatica scelta che tocca tutti gli uomini: decidere su cosa fissare lo sguardo, perché è tutto un altro vedere se non ti torci / sul tuo ombelico […] è un’altra luce quella che illumina l’aria. E’ un’altra cosa.
Ecco, forse è proprio questo il segreto della poesia di Davòli, forse proprio così si diventa grandi senza acredine e si attraversa il mondo beati nella calma età che procede: rimanendo fedeli ad una semplicità autentica del guardare che è sempre ed ultimamente la partecipazione ad un altro sguardo. I destini partecipati.