di Daniela Bisagno
Prove di lettura di Senza indicazione di tempo di Angela Suppo

Ciò che mi capita, è l’appello rivolto a me.
Martin Buber, Sul dialogo. Parole che attraversano
Senza indicazioni di tempo (Milano, La Vita felice, 2019) è una raccolta di poesie di Angela Suppo, suddivisa in sei sezioni: Stagioni, Amori, Costumi, Dei poeti, Dialoghi, Altre stagioni, anche se, a ben considerare,questa definizione – raccolta poetica – non rende nel modo più appropriato l’idea dell’unità in cui risiedono la forza e il rigore di quest’opera. Si tratta di un libro poetico, dunque, più che di una silloge di testi, dove “stagione” è figura dominante che – come la figura di una danza – apre e suggella il ciclo di queste poesie, quasi una grande parola che, nel suo declinarsi, assuma le desinenze dell’adolescenza, della giovinezza, dell’età matura. Tutte stazioni di una microstoria – quella umana, individuale – che si sdipana e si orchestra sullo scenario più vasto della macrostoria naturale, nelle sue grandi scansioni, secondo un rapporto di dipendenza reciproca in virtù del quale la vicenda della natura, i suoi passaggi epocali, hanno assunto il valore di metafore o allegorie dell’esistenza dell’umanità, offrendole maternamente un vasto repertorio figurale a cui ha attinto, ab origine, il codice espressivo artistico e letterario di ogni epoca, per non parlare del linguaggio comune. Nulla di sorprendente, perciò, se la poesia della Suppo, che si situa nel grande bacino della tradizione poetica italiana e, più indietro ancora – come osserva Conte nella prefazione –, nell’alveo della classicità greco-latina, si contraddistingua in primo luogo per una strenua attenzione al linguaggio della natura, ai suoi segni, alle loro, ancorché minime, variazioni. Un’attenzione che non arretra di fronte a nulla e che si esercita, con altrettanta acribia, sulle cosiddette qualità secondarie delle cose – colori, sapori, qualità tattili, forme, come in questo testo, Pescheria (in Stagioni) dove l’atto della percezione assume i caratteri di una celebrazione festiva che si attiva, quasi obbedendo a un meccanismo automatico, di fronte a un evento epifanico che esibisce tutti i connotati del prodigio. Si tratta in realtà dell’effetto prodotto dalle rifrazioni della luce sul ghiaccio, un fenomeno ottico spiegabilissimo dunque dal punto di vista razionale-scientifico, ma che viene percepito e festeggiato (due atti simultanei nella poesia della Suppo) come una magia in virtù della quale, dai corpi inermi, esposti come merce sui banchi della pescheria, si sprigiona un tripudio di forme e di colori che ci colpiscono per la loro qualità di annunci: un linguaggio dal carattere poetico/ festivo dirompente, dove il dato reale – la morte fisica degli animali ridotti a merci-oggetto – è per così dire trasceso nella prospettiva “magica” della poesia.
Magia – come d’estate –
di ghiaccio tra i colori,
palpabili, animali,
argentei di sapori.
Fiori sfatti, carnali,
trionfanti, palpitanti,
valve aspre o iridate,
sensuali voi siate,
torbidissime lusinghe
per nature fiamminghe.
Ciò che importa non è il dato reale, fisico ma il fatto che, da questa morte, “in-sorga” e si renda visibile, insieme ai colori, al sapori, agli odori, l’evento cruciale della bellezza. Qui sta il prodigio di cui parlano i versi, più esattamente, come specifica l’autrice, la “magia”, che – al pari della poesia – opera sempre su un corpo morto per portarne in luce quanto, nell’ottica comune, costituisce di solito l’opposto polare della morte – la bellezza. L’alta incidenza degli aggettivi, il loro gioco caleidoscopico, imprime un’accelerazione ai circuiti temporali, permette, con un balzo spiegabile solo ricorrendo alla magia, di assaporare il gusto di una stagione ancora di là da venire – l’estate; di pre-sagire e pre-gustare, insomma, un tempo che ancora non è, rendendone più acuta, nell’assenza, la presenza desiderata («Assenza/ più acuta presenza» scriveva Attilio Bertolucci). Come in questa poesia, inclusa nella stessa sezione, in cui la bellezza delle stagioni – di cui si dice – non è un mero dato esteriore, inerte sul quale tutti possiamo convenire, ma l’esito di quella virtù – la percezione – dotata di qualità divinatorie, perché permette di presagire (e captare), nella “presente stagione”, le intermittenze di un’altra che verrà: i segni e il suoni epifanici di un altro tempo (forse anche di un altro luogo).
Come sono belle le stagioni!
Quattro più le mezze,
e i quartini, a volte,
semplici annunci.
Così l’aria sfolgorante di futuro,
dentro l’inverno,
ad avvertire.
Che non sfugga, tra poco,
la primavera.
Che la foglia, che ieri non c’era,
già appannata di sole,
non mi sorprenda distratta.
Siamo di fronte a un’esperienza percettiva che non solo ha a che fare con la bellezza, ma in cui la percezione è già essa stessa una risposta estetica (al mondo). Anzi, è già di per sé bellezza, se lasciamo riecheggiare in questa parola – percezione – il suono del suo equivalente greco, aisthesis, la cui radice «rimanda a un inspirare, a un accogliere il mondo all’interno, quel trattenere il fiato (…) per la meraviglia, lo shock, lo stupore, una risposta estetica all’immagine (eidolon) che ci si presenta» 1. Non per nulla, il verso incipitario di questa poesia non è una semplice constatazione (le stagioni sono belle) ma un’esclamazione di stupore («Come sono belle le stagioni!»). Una “risposta estetica” vera e propria, nell’accezione hillmaniana – ai segni mirabili della natura invernale, con tutto il loro carico di presagio della stagione che verrà –, cioè una risposta del cuore, giacché, nel mondo antico greco ed ebraico, era proprio il cuore l’organo preposto alla percezione e, insieme, il luogo in cui era localizzato il sensus communis delegato ad apprendere le immagini 2. Se la bellezza si definisce, dunque, come una necessità epistemologica, l’aisthesis è la modalità attraverso la quale possiamo conoscere il mondo, sicché la risposta estetica viene a configurarsi come «qualcosa di più vicino (…) a un senso animale del mondo: un avere naso per la visibile intelligibilità delle cose – il loro suono, odore, forma, che parlano con e attraverso le reazioni del nostro cuore» 3. Senza dimenticare che il cuore, di cui si parla qui, non ha nulla in comune con il soggettivismo sentimentale di ascendenza romantica, né con i sentimenti viscerali di certa psicologia semplicistica, quanto semmai con il cuore estetico dell’antica tradizione, poi recuperato nell’ambito di quella rivoluzione filosofico-spirituale che ebbe il suo centro elettivo nella Firenze del circolo ficiniano. Niente di più efficace delle parole di Hillman per tratteggiare, nelle sue linee essenziali, l‘effigie della poesia della Suppo, dove l’esperienza dello stupore, della sorpresa di fronte alla natura, l’attenzione impeccabile, che non consente distrazioni, a tutto il fastoso corredo semiotico, in cui si dispiega e si comunica la bellezza del mondo e della vita, è la condizione primaria, quasi primigenia, del linguaggio.

Un linguaggio, anzi un sismografo, teso a rilevare, sotto la regia di un sensus communis costantemente allerta, quei “segreti avvisi e misteriosi inviti” grazie ai quali ogni segno dell’idioma della natura (e del mondo) è un annuncio che ci colpisce e ci riguarda, come si legge in Come sono belle le stagioni!, dove l’invito a non lasciarsi sfuggire il segno e il senso di quegli annunci, formulato in termini entusiastici, in principio di verso, ha quasi il sapore di una dichiarazione programmatica. Altrove si tratta di una registrazione dal tono apparentemente dimesso, quasi colloquiale, come in questi versi di Le rane di primavera (in Stagioni), in cui l’annuncio delle rane fornicatrici, testimoni della bella stagione, con tutto il suo portato di inquietudine, legato all’erompere delle pulsioni desideranti, opportunamente ridestate dai tocchi della ferula di Eros (e forse non sarebbe da escludere, in questi versi, la traccia memoriale del Gelsomino notturno di Pascoli), è intercettato da un’altra soglia temporale – l’autunno, anche se si tratta di un autunno dal significato allegorico, che si riferisce alla maturità della vita, e non a uno dei periodi in cui è suddiviso l’anno solare. Il che ci autorizzerebbe a sospettare che forse anche l’altra stagione – la primavera – di cui le rane sono, per dir così, portavoci e custodi oracolari, si rivesta, a sua volta, di una valenza allegorica, come figura di un’età della vita – la giovinezza – che continua, nel presente, a emettere i suoi segnali in forma di annunci.
Le rane fornicatrici
delle notti di primavera
annunciano la loro stagione.
Anche per noi:
inteneriti ascoltiamo,
nel quieto delle coperte,
uniti dal nostro autunno.
L’introduzione di questa prospettiva metaforica ha come effetto immediato il prodursi di una faglia temporale, di un divario fra un’attualità – la stagione autunnale “presente e viva”, da cui l’io poetante intercetta, in quiete, i segreti avvisi delle rane notturne – e un passato o un altro presente, la primavera, che non cessa di celebrare, per il tramite delle sue favolose emissarie, i fasti di una trionfante renovatio. In assenza di questo divario che scompagina gli assi temporali, l’esistenza risulterebbe appiattita su un’attualità uniforme, senza sbocchi. E senza linguaggio (poetico), se è vero che quest’ultimo si produce non nella regolarità uniforme scandita dalla ripetizione del medesimo, ma in virtù di quei piccoli, quasi impercettibili smottamenti grazie ai quali la mappa dell’attualità – questa stagione, questo giorno, quest’ora – si sgretola, permettendo al “presente” di aprirsi “sul suo altro” (il passato, il futuro) e di accoglierne gli appelli, carichi di memorie e/o presagi svelanti. Difficile, se non impossibile, almeno per me, leggere la poesia della Suppo, senza cogliere, sotto il “recto” di un’amabile semplicità e di una, altrettanto impeccabile, eleganza, il “verso” di un linguaggio interamente intessuto di presagi, di annunci, i quali altro non sono – diremmo con Martin Buber – se non i segni dell’appello che l’accadere del mondo rivolge a me 4. Non «qualcosa di straordinario, qualcosa che esca dall’ordine delle cose», bensì «semplicemente ciò che succede sempre» 5, vale a dire i segni di quell’appello (del mondo) di cui noi siamo i destinatari distratti: «le onde dell’etere spumeggiano sempre, ma per lo più abbiamo staccato i ricevitori» 6, denuncia Martin Buber. Quando Cristina Campo, nelle pagine degli Imperdonabili, ci invita a «riaddestrare l’orecchio al sussurro affilato del flauto, al sordo allarme della spola» 7, non fa che esortarci, quasi sulla falsariga di Hillman, a riattivare i sensori della percezione, a recuperare cioè quella facoltà – l’attenzione – di cui Buber denuncia l’eclissi nel mondo odierno, e il cui esercizio è una pratica essenziale nella vita quotidiana. «L’attenzione è attesa, accettazione fervente, impavida del reale» tutt’al contrario dell’immaginazione che è invece «impaziente fuga nell’arbitrario: eterno labirinto senza filo di Arianna» 8. Ma soprattutto, l’attenzione è poesia 9, dove – e qui più che mai – l’attesa si contrappone all’impazienza: l’una, devota al tempo, alle sue cadenze (e alle sue cadute), ai suoi abbandoni, ai suoi ritorni, e perciò sostanzialmente “giusta” 10; l’altra, violenta, nella sua pretesa di violarne le leggi – come un frutto impazzito che voglia eludere i tempi della maturazione –, e perciò essenzialmente, “ingiusta”.

Tanto ingiusta quanto infelice, potremmo azzardare, seguendo il filo delle parole della Campo, se la gioia – questa delicata risposta all’appello di un flauto invisibile – e l’allegria, che ne costituisce, per così dire, il correlativo “fiabesco”, allignano nella no Man’s Land del tempo (la stessa da cui affiora la fiaba), alla radice nuda del kairós, al punto da risultare inconcepibili, incomprensibili al di fuori di quel vero atto di omaggio e di devota, filiale sottomissione al tempo rappresentanto dall’attesa. Non un attendere vuoto – un puro protendersi sul sogno o sul nulla di un fantasticare senza costrutto e fondamento, ma un aspettare laborioso, in allegria (se mi è consentito servirmi di questa locuzione), scandito, quasi ritmato, dall’esercizio di un’attenzione, che è seme e circonferenza della scrittura poetica. Come in questo preziosissimo cameo, Montegrazie, incluso nella prima sezione della raccolta:).
La vista del ranocchio
mi rallegra:
zampa lunga,
gola palpitante.
Mi osserva, verde,
aspetta che mi mi muova.
Aspetto anch’io:
lo tengo con lo sguardo.
Di questa poesia, colpisce innanzi tutto l’essenzialità – la completezza pur nella brevità –, come se si fosse voluto eliminare dal testo tutto ciò che avrebbe potuto fare da schermo a quanto chiedeva fermamente di essere espresso, cioè l’assoluta centralità dell’atto di vedere. Di una percezione esercitata senza l’impazienza (ingiusta) tipica del fantasticare – del sognare ad occhi aperti –, ma con il raccoglimento proprio dell’osservatore, consapevole che non vi è scampo dall’oggetto del suo guardare, come il contemplativo è consapevole di non poter scindersi dalla dimensione del sacro, “né col peccato né con la stupidità né con l’apostasia né con l’ignoranza”, per il semplice fatto che non vi è scampo da Dio. Il poeta non immagina, non fantastica: riferisce, in pochi tratti essenziali, ciò che ha dinanzi agli occhi: il ranocchio «zampa lunga,/ gola palpitante», piccola creatura fiabesca dalla vista altrettanto acuminata di quella dell’essere umano che lo “tiene con lo sguardo”. Si potrebbe concludere, con una relativa certezza, che questo testo è interamente intramato di vocaboli indicanti l’atto di vedere. La percezione visiva tesse l’ordito della poesia, in cui persino l’aggettivo “verde” (la cui non trascurabile incidenza nei testi di questa raccolta è forse un segno indiziario della vocazione primaverile che la poesia della Suppo condivide con quella di Fernando Bandini), posto alla fine del quinto verso, a formare, fra l’altro, una bella consonanza con “sguardo” del verso finale, mentre si riferisce al colore della bestiola, suggerisce anche “un vedere”. «Mi osserva ve(r)de»: è un verso nel cui calice è riposto, opportunamente celato come i tesori delle fiabe, un piccolo pleonasmo, impreziosito dalle allitterazioni, nel quale sembra condensarsi tutto l’umore della poesia, che si apre e si chiude nel segno (e nel dono) del “vedere”, quasi a disegnare un cerchio perfetto. E questa parola – perfezione – sale spontanea alle labbra leggendo un’altra poesia di questa prima sezione, Li riconosci i liguri di terra, tutta in trasparenti endecasillabi, interamente modulata dai sensi delle rime che si incidono nel (e costruiscono il) testo, in un finissimo intreccio di assonanze, allitterazioni, consonanze e rime, appunto, in cui consiste l’ordito di questa poesia.
Li riconosci i liguri di terra,
incroci i loro sguardi levantini:
è finta l’aria di lupi di mare,
un berretto di lana e di sudore,
mai davvero partiti con il cuore.
Partiti, a volte, solo per tornare.
Covava altrove il loro desiderio:
niente porti e genti lontane,
niente tesori scoperti negli abissi.
Sull’oceano la nave terra ferma,
a sognare il ritorno, e ritrovare,
in salvo riapprodati tra gli ulivi,
tra i sassi e le ginestre aspre dei muri,
leggera, a sera, la brezza di mare,
un alito sugli orti, e le campane.
“Sudore-cuore”, ad esempio, è la rima baciata che sigilla gli ultimi due versi della prima strofa, ed è quasi introdotta, suggerita dal suono del bisillabo “mare”, nel terzo verso. Un suono la cui eco si propaga nel verso iniziale della seconda strofa (tornare), e ancora nel secondo della terza e ultima strofa (ritrovare). E infine, nel quinto verso di questa medesima strofa, dove i due lemmi “leggera” e “sera” racchiudono la traccia di quello che ormai potremmo considerare una sorta di lemma maestro – “mare” -, il suono-guida, presente, non per nulla, al principio e alla fine della poesia, in quel penultimo verso – «leggera, a sera, la brezza di mare» – tutto sostanziato di rime, dove cioè, con l’unica eccezione di “brezza”, ogni parola forma una rima con le altre. E tale presenza così incisiva, così (fiabescamente) ridondante, di questa materia sonora, le cui spore si disseminano nei versi, come la pioggia d’oro del mito di Danae e Zeus, non è senza significato. Tutto ciò insinua qualcosa, vuole indicare qualcosa – diremmo con le parole di sant’Agostino: forse che l’obiettivo del desiderio di questi uomini essenziali, con il mare scolpito nel destino e il pensiero della propria terra inciso nel cuore, non è tanto, come saremmo portati a credere, magari su suggestione del mito ulisseico, il nóstos, cioè il ritorno, la riconquista della patria, del focolare domestico. No, l’obiettivo è qualcosa di infinitamente più piccolo e più grande: una brezza (di mare), un “alito” (qualcosa e, insieme, nulla), cioè l’oggetto di una percezione, di un “sentire”.
Bastano pochi lembi di visione – gli ulivi, i sassi, le ginestre aspre dei muri, la brezza di mare, il suono delle campane – per suggerire la mappa di un itinerario che costituisce l’antitesi speculare del mito di Ulisse. Nessuna bramosia di conquista, avidità di ricchezza, o curiosità di conoscere luoghi esotici anima questi liguri di terra. Li muove, più ancora che una certezza razionale, l’intuizione in base a cui quell’oltre, sempre vietato, sempre accennato nei sogni, in realtà sia solo “qui e ora”. È fra quegli ulivi, quei sassi, quelle ginestre, in quegli orti di ascendenza montaliana, piccoli centri epifanici, di splendore germinale, che finalmente si scopre l’essenzialità di ciò che normalmente appare trascurabile ai sensi: la brezza ovvero l’alito, il respiro – un minimo non ulteriormente riducibile che è anche sinonimo di vita. Come se quegli uomini di “cuore” fossero ritornati apposta solo per ritrovare quel pneuma, per compiere cioè festivamente quell’atto – “inspirare” – così semplice e insieme fondativo nella percezione del mondo e nella scrittura della poesia, in cui Hillman individua la risposta estetica all’immagine. Una risposta del cuore, ovvero dei sensi; perciò la risposta estetica – come già si è detto – è qualcosa di più vicino a un senso animale: un aver naso per i suoni, gli odori, le forme delle cose, come in questo testo, Caffè Tortoni, preziossimo nella sua frontalità, dove la conoscenza («ti ho conosciuto, Alfonsina Storni») non è l’atto finale di un processo logico, astratto, ma l’esito di un’esperienza percettiva, di un’attività dei sensi corporei, principalmente del fiuto: qualcosa di vicinissimo a quel senso animale del mondo, appunto, di cui Hillman ci parla.
Ti ho conosciuto,
Alfonsina Storni.
Eri al caffè Tortoni,
in compagnia,
e intorno specchi,
boiseries, profumo
lieto di caffè.
Statua di cera
al tavolo occupato:
immobili poeti,
tango sospeso.
E il respiro caldo
delle brioches,
e, ancora, sentire di barberia.
«Cane allegro che tutto odora»: così è definito il thymos del cuore, cioè il desiderio (Wunsch, nel linguaggio psicoanalitico), in La carne, nella seconda sezione della raccolta (Amori). Si tratta di un testo brevissimo, ma abbastanza incisivo, per il suo ricondurci nel luogo centrale della poetica della Suppo, in cui l’amore non è solo un’esperienza personale di pertinenza del cuore, inteso come cuore emozionale, luogo della mia interiorità più intima, ma una modalità di percezione del mondo, dove il cuore rappresenta semmai il centro elettivo di un “sentire” più ampio, «quel fiutare, quel trattenere il fiato, quell’inspirare il mondo» 11 in cui consiste la percezione sensoriale.
È finito il desiderio,
cane allegro che tutto odora.
Ma ancora
sotto pelle naviga
il percorso delle vene,
consola di tenerezze,
alita primavere.

La percezione del mondo della Suppo si pone sotto il segno astrale dell’amore, anzi, latinamente, degli “amores”, come recita il titolo di questa sezione, dove il plurale, Amori (ma tutti i titoli delle sei sezioni in cui è scandito questo libro sono declinati al plurale) non si riferisce tanto a una quantità (di esperienze), quanto a una intensità – desiderio gioioso, meraviglia, tenerezza – in grazia della quale, diremmo con le parole di David Lawrence, «io rivolgo lo sguardo verso ciò che è fuori di me, al di là di me» 12 con la medesima irrefrenabile allegria del cane-desiderio, «che tutto odora», perché in tutto intuisce la presenza della bellezza. In tutto: cioè non solo nei luoghi comuni, tradizionalmente deputati ad accoglierla, ma «nelle apparenze in quanto tali, così come sono create, nelle forme in cui sono date: dati dei sensi, nudi fatti» 13. Una bellezza che, come quella della Venus Nudata, «rimanda alla superficie lucente di ciascun evento particolare, alla sua trasparenza, alla sua particolare brillantezza, al fatto stesso che le singole cose si mostrino alla vista e proprio nella forma in cui si mostrano» 14. Come non ripensare ai versi iniziali del libro I del De rerum naturae, in cui Lucrezio salutando la Venus “alma”, celebra, commosso, la sua discesa sulla terra, la sua grazia impetuosa e benigna, fecondante, capace di schiudere le virtualità epifaniche delle cose che ora, dopo il lungo lutto invernale, mostrano, in festa, il loro “volto primaverile” 15? “Il desiderio continua, quasi ignorando il trascorrere del tempo e la fine della giovineza, a navigare «sotto pelle/ il percorso delle vene», a consolare «di tenerezze», ad alitare – ostinatamente, festivamente – come la Venus lucreziana –, quella primavera, che è sinonimo di bellezza, cioè di verità – «un precipitare improvviso, biologico (…): un punto che va toccato da tutti gli organi insieme» 16 –, perché rivela, snudandolo, il volto delle cose (la bellezza è l’ostensione dei fenomeni, viene da dire con Plotino). Ma il percorso delle vene parte dal e conduce al cuore, a cui la Suppo rivendica, a giusto titolo, un ruolo centrale nella sua poesia. Come in questi tre endecasillabi, dove viene ripresa la metafora petrarchesca della vita come navigazione, e dove il cuore, sorgente centrale del sangue e del calore dell’organismo, secondo Aristotele, è davvero alvo materno, culla/nave di un “sentire” che non si identifica sic et simpliciter con il sentimento, ma è spazio felice di convergenza degli organi di senso deputati alla percezione del mondo: luogo «dove pensiero e desiderio sono una cosa sola» 17.
Non mi importa del porto, né del mare.
Io viaggio sulla nave del mio cuore
e tutto è casa, se tu vuoi restare.
Non suonano incomprensibili, perciò, alla luce di siffatta poetica, le riserve che la Suppo esprime nei confronti di quel vasto e caleidoscopico mercato virtuale rappresentato dal Web, e che declina nelle forme armoniose, pacificate degli amati endecasillabi di un testo incluso nella terza sezione del libro, Costumi, intitolato appunto Web.
Vertigine mi assedia su You Tube:
troppo di tutto.
Mi sgomenta l’eccesso dell’offerta
che dilata distratti desideri:
minuti seriali e calcolati,
ammiccanti per me, preordinati,
libidini che assediano fugaci.
Nel vortice evocato ora mi perdo:
smarrita mi rifugio nella fuga,
annegare non voglio in questo mare.
«Troppo di tutto»: basterebbe questo verso, preso in prestito dal titolo di una canzone di Fabri Fibra, quasi brutale nella sua frontalità, con quei due bisillabi assonanti, a esprimere le ragioni del disagio di fronte a una realtà virtuale sempre più invadente che, mentre sembra offrirci la misura traboccante e “il mondo per sovrammercato”, finisce per ostruire, poco alla volta, il vuoto pneumatico in cui i desideria si formano, come la manna di Sant’Andrea nella cavità dell’ampolla. Ciò che crea vertigine è l’eccesso (e l’incalzare) di un’offerta» che non si limita a “dis-trarre” i desideri e a nuocere alla qualità della nostra attenzione, ma compromette quell’intelligenza o attività immaginativa – la quale è anzitutto attività desiderante –, così necessaria alla poesia (non per nulla «il poeta è un fingitore» recita una frase di Pessoa messa dalla Suppo in esergo alla IV sezione della sua raccolta), la cui sede, secondo il pensiero antico, era ubicata appunto nel cuore 18. Ora, il web, con il suo “troppo di tutto”, fingendo da un lato di investire i fruitori di una sovrabbondanza (di immagini) in cui ogni offerta è dono e delizia gratuita, dall’altro sferra un attacco micidiale a quel “locus dell’attività immaginativa” (il cuore), dove sentire è simultaneamente amare, conoscere, dunque essere. Al di fuori di questo reame festivo, forse non si udrebbero risuonare le campane della bellezza. Anzi, neppure si udrebbe, neppure si sentirebbe; né, tantomeno, in questa atrofia dei sensi e della percezione, sarebbe possibile allacciare i metri e i nodi (meravigliosi, indissolubili, come i simboli che formano la trama dei sogni) della poesia. Quei nodi, così misteriosamente, inestricabilmente intrecciati, ai ritmi del nostro respiro, ai battiti del nostro cuore, “quanto lo stame all’ordito”, che spesso la critica letteraria, nella sua avventura ermeneutica, tenta di sciogliere operando con la stessa implacabile lucidità con cui il chirurgo incide il corpo con il suo bisturi 19.
«Come è freddo il bisturi che affonda/ nelle parole lievi del poeta», scrive la Suppo nella poesia La critica (nella quarta sezione della raccolta, Dei poeti), in cui affida ancora al prediletto endecasillabo il compito di rivendicare l’assoluta preminenza del “sentire” sul “capire”, i diritti della percezione, anzi dell’aisthesis, che certa critica letteraria filologica vorrebbe conculcare in nome dell’oggettività, nel tentativo di “portare alla luce il senso”. Potremmo dire, citando le parole di Cesare Viviani, ancora più intransigente nel sostenere, sulla falsariga di Hillman, le ragioni della poesia – “amica” del sogno –, contro l’operato di certa critica filologica volta a ridurre a chiarezza quel “mistero”, quel “senso irriducibile” che si dovrebbe solo “sentire” 20:
il filologo (e per “filologo” intendo tutti gli approcci “scientifici” al testo di poesia) fa con la poesia quello che il cattivo psicanalista fa con il sogno: poesia e sogno sono posizioni radicalissime e relativissime sulla strada del linguaggio, del destino, dell’irriducibile, della morte. Ma questi interpreti, invece che mantenere questa radicalità e relatività per altre nuove direzioni e avventure, scelgono di riportare queste espressioni verso l’oggettività o il buon senso (proprio quei significati che la poesia e il sogno avevano frantumato) 21.
Ciò che resta, dopo questa incursione devastante sul corpo della poesia, prosegue la Suppo, altro non è che un
Terreno alluvionale di parole,
qualche ciotolo tondo levigato,
rottami sparsi del significato,
e il senso in fuga, come accade al sogno
che trattieni, ma invano, nel risveglio.
Caro poeta sezionato e fratto,
preferisco la critica ignorare:
leggere anche senza troppo capire.
Là dove prima era il tutto, ora è il nulla. Una sorte che il testo poetico, sezionato dal bisturi alacre della filologia, condivide con il sogno, quando è sottoposto agli interventi, altrettanto invasivi, di certi interpreti. Quegli interpreti che, secondo le parole di Viviani, si affannano per ridurre a oggettività proprio quanto è, per natura, inobiettivabile, indefinibile: il “senso in fuga”, irriducibile a ogni tentativo di comprensione, che è anche il vuoto pneumatico (o la terra trasfigurata) in cui allignano il sogno e la poesia, e a cui accenna la Suppo, nei versi. «La parola poetica contiene una verità che trascende l’autore (la costruzione umana abile, compiaciuta, sicura di sé) e che si ricollega alla natura» 22 dice ancora Viviani. L’arte è «la natura nell’opera» 23, aveva già scritto in Il mondo non è uno spettacolo, quasi riecheggiando queste parole della Cvetaeva: «L’arte è il mezzo attraverso cui l’elemento naturale ci possiede e ci tiene; mezzo per tenere (noi – da parte degli elementi naturali) e non tenuta del possidente, stato di possessione e non contenuto del possesso» 24. E forse non è un caso che questo libro poetico di Angela Suppo, esito di un lavoro lungo, paziente, non diverso dall’esercizio altrettanto lento e amoroso, “senza indicazioni di tempo”, dell’artigiano, si concluda proprio nel segno delle stagioni sotto il quale era iniziato, cioè nel segno della natura, di quell’elemento naturale che ci possiede attraverso l’arte e la poesia, secondo la Cvetaeva. Altre stagioni, è infatti il titolo della sesta e ultima sezione del libro, e si riferisce al tempo della maturità, alla stagione autunnale della vita, tanto quanto la primavera e l’estate evocano invece, secondo un simbolismo fin troppo trasparente, l’età sontuosa della giovinezza. Eppure – e sono proprio le vicissitudini della natura a insegnarcelo – anche la stagione invernale, tempo di perdita e di precarietà, non è esente da promesse. Anche l’inverno raccoglie il seme di un insospettato fiorire, come il giallo del limone – divinità occhieggiante sotto la coltre nevosa –, o quel «carnevale inaspettato», che si sprigiona, in gioia, da una neve d’infanzia – «neve di zucchero filato», presagio primaverile, nell’ultima poesia della raccolta: Neve di Liguria.
Neve di Liguria:
giallo occhieggia il limone
e gocce di sole
già illuminano
il giardino.
Ieri era inverno
e oggi ride
una neve
di zucchero
filato,
un carnevale
inaspettato.
1 JAMES HILLMAN, L’anima del mondo e il pensiero del cuore, Milano, Adelphi, 2002, pp. 135-136.
2 Immagini, da non intendersi come abbellimento, «quell’accezione sterilizzata, deodorata della parola ”estetica” che l’ha privata di denti, lingua e dita» (Ibidem, p. 142). Al contrario, la bellezza, che al pari della bruttezza non rappresenta né il contenuto né, tantomeno, la base dell’estetica, costituisce semmai, nell’accezione neoplatonica, a cui Hillman fa riferimento, l’ostensione dei fenomeni, il manifestarsi dell’anima mundi, ciò per cui, insomma, le virtù e le forme ottengono grazia di rivelarsi.
3 Ibidem, pp. 142-143.
4 «Ognuno di noi è chiuso in una corazza la cui funzione è quella di difenderci dai segni. Ininterrottamente ci accadono segni; vivere vuol dire essere appellati, occorrerebbe solo essere pronti, solo percepire (…) Ognuno di noi è chiuso in una corazza che presto per via dell’abitudine non avvertiamo più. Solo rari istanti riescono a penetrarla e a risvegliare l’anima alla ricettività» (MARTIN BUBER, Sul dialogo. Parole che attraversano, Milano, Edizioni San Paolo, 2013, p. 26).
5 Ibidem, p. 27.
6 Ibidem.
7 CRISTINA CAMPO, Gli imperdonabili, Milano, Adelphi, 1987, p. 118.
8 Ibidem, p. 167.
9 «Poesia è anch’essa attenzione, cioè lettura su molteplici piani della realtà intorno a noi, che è verità in figure» (ibidem, p. 166).
10 «Giustizia è un’attenzione fervente, del tutto non violenta, ugualmente distante dall’apparenza e dal mito» (ibidem).
11 JAMES HILLMAN, L’anima del mondo e il pensiero del cuore, op. cit., p. 82.
12 DAVID LAWRENCE, Fantasia dell’inconscio e altri saggi sul desiderio, l’amore e il piacere, Milano, Mondadori 1978, p. 51.
13 JAMES HILLMAN, L’anima del mondo e il pensiero del cuore, op. cit., p. 82.
14 Ibidem, pp. 82-83.
15 «Appena ricompare il volto primaverile delle cose e, rompendo le sue catene, riprende vigore il soffio fecondatore dello zèfiro, per primi gli uccelli dell’aria celebrano te, o dea, e la tua venuta, turbati in cuore dalla tua potenza» (LUCREZIO, De rerum naturae, vv. 10-13, traduzione di Olimpio Cescatti).
16 CRISTINA CAMPO, Gli imperdonabili, op. cit., p. 39.
17 JAMES HILLMAN, L’anima del mondo e il pensiero del cuore, op. cit., p. 55.
18 L’espressione stessa “intelligenza del cuore” connotava, come precisa Hillman, «l’atto di conoscere e amare simultaneamente per mezzo dell’atto immaginativo» Ibidem, p. 47.
19 Su posizioni ancora più oltranziste si colloca M. Cvetaeva quando, a proposito del modus operandi di certa critica distruttiva, usa una metafora non meno cruda del bisturi: quella dell’autopsia, «e non di un cadavere – di un corpo vivo» (MARINA CVETAEVA, Il poeta e il tempo, Milano, Adelphi, 1984, p. 21), che distrugge spietatamente ciò che, con tanta fatica, è stato creato dal poeta.
20 «Sentimento, Ragione e Memoria sono i nomi dei nemici della poesia. Invece Percezione e Sogno sono gli amici. Percezione e Sogno sono l’unico livello sentimentale possibile in poesia: sono i sentimenti della poesia» (CESARE VIVIANI, Il mondo non è uno spettacolo, Milano, Il Saggiatore, 1998, p. 27).
21 Ibidem, pp. 15-16.
22 CESARE VIVIANI, La poesia è finita. Diamoci pace. A meno che…, Genova, Il Nuovo Melangolo, 2018, p. 24.
23 CESARE VIVIANI, Il mondo non è uno spettacolo, op. cit., p. 20.
24 MARINA CVETAEVA, Il poeta e il tempo, op. cit., p. 107.
