“Democrazia” di A. Toni su La città e le stelle
![]() Democrazia
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autori: | Alberto Toni |
formato: | Libro |
prezzo: | |
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Articolo pubblicato su La città e le stelle
Presentiamo la 1^ e la 2^ parte del poemetto in Pdf (18 KB) Toni_Democrazia
Proponiamo la nota critica di Gabriela Fantato a Democrazia, poemetto di Alberto Toni, edito nel 2011 da La Vita Felice di Milano, con una postfazione di Elio Pecora.
Alberto Toni è autore di molte raccolte poetiche, tra cui, solo per ricordarne alcune, Dogali e Liturgia delle ore, fino a Mare di dentro e Alla lontana, alla prime luce del mondo.
Uno sguardo vigile per inventare la democrazia
L’ultima opera di Alberto Toni è un poemetto unitario, attraversato da un’eco di taglio civile e con un titolo forte: Democrazia. Si tratta di un poemetto che, pur nella brevità del testo e con ritmo spesso sincopato, trasmette immagini emotivamente intense, scene di un evento bellico, unite a riflessioni, domande, esclamazioni su fatti urgenti e drammatici che si affollano attorno a un Io che guarda e si rivolge spesso a un “noi”, soggetto collettivo che in tralice domina la scena. L’opera si articola in cinque passaggi, o sezioni, connessi tra loro eppure anche autonomi, con un filo unitario però, che si dipana attorno ad alcuni temi e parole-chiave quali: la guerra, con i caduti da onorare; le madri, che tengono viva la memoria e creano il senso per un domani; la democrazia come evento collettivo da costruire per un mondo nuovo a venire; l’importanza di una legge scritta che ne sia fondamento e anche – alla base di tutto ciò – la necessità della pazienza e la speranza, modalità interiori capaci di costruire il futuro che verrà.
Nella prima parte di Democrazia la scena si apre chepare tutto sia già accaduto, forse si allude alla Seconda guerra mondiale, vista la citazione di Fenoglio in apertura, con parole tratte dal suo romanzo Primavera di bellezza, ma non è definito a quale conflitto si faccia cenno e questo rende le immagini ancora più forti, estrapolate da una esatta connessione storica e rese eterne, se così si può dire, come scene di ogni possibile guerra passata o futura. Il poemetto di Alberto Toni si apre con una scena che coglie cosa resta dopo «la fine dell’offensiva», come si legge, dopo che lo scontro si è concluso con “una vittoria”, per cui il poeta nota che «nelle strade non c’era / più quell’odore di stantio, rimanevano / a braccia aperte, una protesta, un’idea / finalmente qui scriviamo la parola / buona». Sono quadri vibranti, mischiati a lampi di tremori, dolore e gioie rapide, confuse, così che sulla pagina tutto pare fremere, offrendosi al lettore in versi intensi e ritmati insieme, proprio come se l’emozione viva connotasse ciò che sta accadendo e fosse in noi nel momento in cui leggiamo. È una voce riflessiva e attenta al reale quella di Toni, mai retorica, e ci testimonia ciò che di doloroso è rimasto come impigliato in luoghi e persone, tanto che ogni cosa, ogni vivente, si agita e cerca i caduti e ciò che resta dopo l’evento che li ha scossi, come tagliati dentro, immersi in atrocità e solitudine: «Nel fango, esterrefatti, andiamo / a raccoglierli, vuoi vedere la mia / giacca a brandelli e ciò che resta / come in un museo di solitudine / e di guerra?». C’è vivo e forte il desiderio di fare pulizia, di togliere ciò che resta del massacro, così che si avverte sia la durezza tangibile degli eventi, sia il modo disorientato e allarmato di sentire di chi ne è parte: «Pulire la strada, rassettare, prendere / la parola, perderla, dividere, tacere / il tonfo, la gamba che fa male, ora / mi fermo e ascolto, ora che tutto è / deciso». Attore ma anche spettatore, il poeta sa immergersi nella durezza della guerra, così come sa restarne fuori per vedere e testimoniare, levando esclamazioni, ponendosi domande o regalandoci riflessioni gnomiche, in questi passaggi: «Qualcuno diceva che la salvezza / ha bisogno del fuoco, le madri / in gesti di stizza verso i soldati / che non capiscono». Ecco un altro esempio di come riflessione ed emozione sono unite e fuse nei versi di questo poemetto: «La legge scritta, ma prima ancora / quell’idea di proteggersi, alla luce / prima ancora sorreggersi e poi per / gli altri rimasti indietro nella truppa, / radi». Ciascun lettore resta coinvolto da questi versi, da ciò che dicono, tanto da indurci a restare immobili, quasi senza capire perché, come in attesa che finisca lo strazio.
Nella seconda parte si introduce un nuovo tema e lo scenario muta: «Democrazia è pazienza», leggiamo in apertura e, appena oltre: «Un ragazzo sventola la / bandiera», il che allude alla fine del conflitto, e nella strofa seguente, scopriamo quasi una chiosa ai versi di inizio, regalandoci l’immagine della festa, della libertà e tutta l’atmosfera del testo si apre come d’incanto: «Audace per scelta forzata di libertà / lieti saranno i giorni, in festa anche / nei campi liberati, e il confronto / serrato con la popolazione, serve / tutto». Ritorna ancora la dichiarata necessità della pazienza: «Abbiamo pazienza / e la pazienza è il ramo sempreverde», dal che emerge che è chiara la certezza di possederla, così come la giustizia, che pare appartenere a quel “noi” di cui si diceva all’inizio: «Abbiamo regole scritte: la giustizia, / scaldarsi, mettersi in marcia verso / la città più vicina e ospitale», valori uniti alla certezza che il tempo cancellerà in parte il dolore, anche se non toglierà mai il sangue dei caduti. In questa sezione il ritmo si fa ancora più stretto, concitato e pieno di domande, come se ci fosse un Io che guarda e intima (a nome anche di un “noi”), che chiede ed esclama, mentre attorno eventi e stati d’animo si affollano: «I fuochi sempre / accesi, i messaggeri, i dispacci, dammi / una sigaretta, l’ultima prima di dormire / zitto!» e alcune strofe dopo, ecco altri versi di allarme: «Una cupola? Una guglia? Trova tu la consonanza / tra distruzione e pietra, tra fenomenali / conseguenze e cerchi magici della / comunità», dove si va evocando un “Tu” che possa dare risposte ma, infine, resta solo la certezza del momento caotico, con la malinconia dello spaesamento, del dubbio aperto: «Ogni parola ne attira un’altra. I paesi miei sono / anche i tuoi? O soltanto un’altra terra lontana, / dispersa nei mille rivoli dell’incendio a cui non / avresti mai voluto partecipare?». E ritorna ancora, per la terza volta, una frase chiave della sezione: «Abbi pazienza. / Per la democrazia abbi pazienza»; segue un breve dialogo tra l’Io e un “Tu” – già presente in scena – in cui emerge una riflessione rapida sul ruolo della poesia, vista come forza senza nome, «che incendia e non lo sai / nemmeno è più graffiante di una lettera / da casa», il che dà conto del valore che le parole del poeta possono assumere sul campo di battaglia e viene qui in mente anche Ungaretti, con i suoi versi acuminati e franti, che poi furono quasi il “manifesto” di tutta una generazione disorientata e delusa, lasciata sola dopo il primo conflitto mondiale.
Nella terza parte del poemetto si fanno determinanti le parole per la necessità del cambiamento esterno e anche interiore: «Quello che non volevamo. Cancellalo, / toglilo dalla prospettiva: soltanto un peso, / e non abbiamo bisogno di ragioni / sfilacciate, tediose / ma di aria, / pellegrini», il tutto nella certezza di esser di fronte a «una generazione che dovrà / rinascere», anche se ciò sarà possibile solo se ci sarà una legge, forte e chiara, con articoli «scolpiti nel marmo», scrive Toni: una legge che sarà nata dal comune accordo, dopo una «consultazione referendaria», il che fa emergere un tono quasi didascalico e assertivo, ma anche molto coinvolto, emotivo e pieno di tremore. Questa atmosfera così ricca e concitata ci fa entrare nelle parti finali del poemetto. La quarta sezione si apre con una citazione dalla raccolta Trasumanar e organizzar, di Pasolini, che annota: «Come dice Euripide “La democrazia consiste / in queste semplici parole / chi ha qualche utile consiglio da dare alla patria?”», il che allude al grande lavoro di creazione ex novo che è la nascita di un paese democratico, ma evoca anche un operare unitario, dialettico, collettivo e, dunque, dopo avere ricordato un soldato caduto, il poeta-testimone e osservatore delle scene in corso scrive: «L’amore della madre non ha limite. Ora / è tempo di lavoro», quasi a ribadire che la memoria deve diventare “forza operante”, potremmo dire, non malinconia o lamento del perduto. La quinta e ultima sezione porta a esergo una citazione dal libro Cuore, di De Amicis, dove si legge: «L’educazione di un popolo si giudica innanzi tutto dal contegno ch’egli tien per la strada», quasi a volere ricondurre la democrazia anche all’educazione e questa a qualcosa di semplice, visibile, elementare: il comportamento quotidiano, il che abbassa il tono del testo, che sinora era stato tragico, riflessivo e ci immette in scene più aperte, anche con immagini di boschi dove si dice che: «Frassini, acacie, pioppi / ippocastani, platani: tutti sono alberi / per la vita» e dove compare la parola sogno, evocata più volte, come qualcosa di vitale e forte che viene dai ricordi, dalla giovinezza, dalla vita stessa e che – insieme con la luce della nuova primavera e del rosso che segna le strade – nessuno potrà rubare. Resta però, per non scordare «il pianto / delle madri per l’abbandono. Il sussulto, / la disarmonia necessaria, la legge, nuova / democrazia». Tutto potrà ancora costare sangue, lotta e dolore, ma è necessario credere nel domani, scrive Toni con tono epico, con un’emozione che coinvolge il lettore: «Perché la morte non sia definitiva, ma / trama sottilissima, con un nodo. // Dipanare, attendere, rifare il filo sciolto / ai legami, riagguantare il lavoro perduto». E finalmente verrà un tempo di primavera piena, tempo di regole e di pane, ma anche di acqua e sorrisi: un tempo dove «è il coro che dilaga», annota con gioia il poeta-testimone, e la festa sarà di tutti. Con Democrazia, dunque, Alberto Toni sembra dirci che tutta la vita, proprio come o
gni evento drammatico, è avvolta in un’atmosfera di allarme, tensione e disorientamento, tanto che l’esistenza sempre si dà intrecciata al vuoto, al buio e alla perdita, al fango, alla morte e al dolore delle madri, così che ciò che vediamo e viviamo pare sempre appartenerci e, al contempo, sempre sfuggirci. La situazione della guerra, qui evocata nelle prime parti del poemetto, infatti, non fa che acuire lo stato di precarietà, allarme e necessità che contrassegna la vita. Così come il clima di vittoria e di unità emergente del finale sa anche dirci che la vera gioia e il vero mutamento nascono dopo un grande dolore e dopo la perdita che strappa tutto. Per questo autore – a mio avviso – la poesia nasce e fortemente vive proprio là dove tutto sembrerebbe perduto, dove occorrono ancora di più la speranza e la pazienza che sempre alimentano la vita e nutrono anche la convivenza comune. Elementi dell’animo che sono il fondamento stesso che crea la possibilità del futuro, assieme al ricordo della madre, alla forza delle leggi e al sapere tenere vivo “il fuoco”, come si legge in questo poemetto: un fuoco che insieme è simbolo di amore e passione, ma è anche immagine di vita concreta da alimentare e costruire. La parola di poesia in Democrazia si fa al contempo voce fragile dell’umano e insieme grido potente di perdita e di nuovo possesso: una parola che afferra il movimento dell’esistenza sia nel suo darsi presente, sia nella tensione che la anima in un divenire futuro; parola vibrante di speranza e attenta a non dimenticare. La poesia è “una forza” che fissa il passato e apre al futuro ed è “fondamento di una legge”, tutta da scrivere: una parola nuova che salva l’umano dal vuoto e dal caos.
Gabriela Fantato