F. Palmieri per G. Montanari
![]() Arsenico e nuovi versetti
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autori: | Gabriella Montanari |
formato: | Libro |
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“ARSENICO e NUOVI VERSETTI” di GABRIELLA MONTANARI
Ed. La Vita Felice - marzo 2013
Non si sbaglierebbe a qualificare la scrittura di Gabriella Montanari come scrittura cinica, disincantata, beffarda e ironica, tanto è marcata - nei versi della silloge “Arsenico e Nuovi Versetti”- la categoria della dissacrazione, della messa in discussione di valori ritenuti umanamente e socialmente fondanti quali l'amore, una fede qualsiasi e persino la famiglia, i rapporti parentali e amicali, la comunione universale d'intenti, di direzione e senso esistenziale. Ma del resto, l'Autrice stessa preavverte il lettore già nel dichiarativo esplicito del titolo del libro: non vi si legge né anticipazione e né promessa lirica, nessuna fuga aerea nel metafisico, neanche un “versetto” che faccia da ponte verso un' improbabile trascendenza -se si esclude ogni possibile escamotage linguistico-; non promessa salvifica ma, al contrario, veleno, il potenziale tossico dell' “arsenico”. E non tanto quello che si potrebbe supporre sia dato da ingerire all'imprudente lettore, bensì lo stesso veleno che l'Io poetante, quasi socraticamente, si è ritrovato suo malgrado a dover assumere, sentendone dentro se stesso la potente carica di annichilimento. Ed è in questa accezione di senso che la poesia della Montanari si fa miracolosamente rimedio omeopatico, parola apotropaica, confessione terapeutica ed anche auto da fé; e ancora e perché no, mitridatizzazione possibile anche per lo stesso lettore, perché il dolore, il disincanto, la decadenza e la morte del sublime e di dio, non sono mai un affare privato, una consumazione impersonale nel tragico confine solipsistico della persona, ma un accidente che, pur in misura e intensità differenti, cade su ciascuno di noi come condanna universale, un capriccio cosmico perpetrato sull'individuo da divinità disumane e sadiche o, molto più realisticamente, da una natura che ancora non ha imparato a fare i conti con la fame di assoluto incistata nel “cuore” umano.
In “Arsenico e Nuovi Versetti” (coerente l'associazione con quelli “satanici” di Salman Rushdie che Lino Angiuli cita nella prefazione al libro) non viene taciuto niente di quelle pieghe taglienti (o piaghe?) che stanno nascoste e urticanti nella trama dispersiva e smemorata del vissuto; nessun “taglio inferto” è medicato davvero, nessuna pudicizia e verecondia; piuttosto è un indulgere nel polo antagonista di ogni idealità che si fa vuota ideologia consolatoria o di copertura, vestito ipocrita di una nudità aggredita e corrotta dal tempo e dall'infine scoperto velleitarismo delle illusioni (che sono “morbo” dice la Montanari), quasi a voler essere assolutamente certi di non stare a spacciare o a seminare quote o dosi minimali di assoluzione, sublimazione, riscatto, per noi che siamo -e presumibilmente saremo- “donne e uomini in croce/ in cerca di pace” (p. 18).
Eppure “Arsenico e Nuovi Versetti”, ossimoricamente, paradossalmente, è un libro d'amore, perché fra sberleffo e abiura, fra parola tossica e dissacrazione, lo si sente il dolore per quel miracolo vitale -l'amore- tanto atteso e mai venuto davvero, si avverte netta la nostalgia commossa per una “terra a lungo ignorata/ che ora si vendica riempiendomi la bocca di oleandri e il naso di lucciole” (p. 36), la pietas di chi guarda lucidamente la decadenza in atto eppure rimossa di “scheletri vispi/ che si arrabattano tra due mondi/ pur di non avere l'aria da pensionati.” (p. 44), senza per questo dichiararsene fuori o immune quando l'Autrice, in un gioco impietoso e coraggioso di oggettivazione di sé, osserva la scena “della danza golosa/ di due corpi/ seriamente/ compromessi.” (p. 117). E allora si comprende chiaramente quali siano i veleni di questa poesia e quale sia il movente autentico di una “untrice” che in realtà è ella stessa l'unta, la contaminata, avvelenata da quel disvelamento in negativo del vivere, che sta in agguato nel tempo, negli anni che trascorrono, nell'insufficienza di ciascuno di noi ad essere completamento assoluto e definitivo per l'Altro e che lo stesso Altro non può essere per noi, nel divenire di una Storia che procede necessariamente verso un teorico avanzamento progressivo ma dove “nessuno – conta – i – morti” (p.39) e nessuno ci conterà fra i morti.
Oltre al pregio della sincerità (che in letteratura si chiama onestà intellettuale), questo libro ha il valore aggiunto di un linguaggio che rifugge dall'ipermetaforizzazione del dire poetico e si assume invece la responsabilità programmatica, la “voglia di scalfire, sverginare” (p. 21) la parola, in opposizione al vezzo di un perdurante ermetismo e di un lirismo spesso estenuato dalla separatezza dell'Io dagli oggetti e dai rumori fisici, materialistici, del mondo reale. In controcorrente ma in sintonia con diversa produzione poetica europea dei nostri giorni, la Montanari vuole usare il registro del linguaggio comune (seppure secondo una modalità personale e creativa), vuole costruire “testo” con una sintassi che si concede poche licenze extragrammaticali, è capace di una comunicatività diretta e senza estetizzazioni mito-poetiche (basti leggere la poesia manifesto “Enten – Eller”) ma senza far venire mai meno la tensione morale, etica, profondamente riflessiva, che percorre la sua scrittura, dove pure non sono sporadici il guizzo lirico, l'ampiezza del respiro, come quando scrive di un sogno residuo, sopravvissuto:
“che mi lasci inseguire il profumo
che ha l'amore
di biancheria
fresca di bucato.” (p. 88).
FRANCESCO PALMIERI