F. Palmieri per Silvia Rosa
![]() SoloMinuscolaScrittura
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autori: | Silvia Rosa |
formato: | Libro |
prezzo: | |
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“Solo Minuscola Scruttura” di Silvia Rosa – edizioni La Vita Felice – Milano, ottobre 2012
Recensione di Francesco Palmieri
Dopo “Di sole voci” (LietoColle 2010), Silvia Rosa torna alle stampe con la silloge “Solo Minuscola Scrittura” per i tipi de La Vita Felice. Il titolo, come si evince immediatamente fin dal primo testo, altro non è che la traduzione soggettivizzata dell'acronimo inglese sms (short message service), un trittico consonantico che vuole di fatto essere un rimando sia al medium (strumentale, il telefono cellulare) sia alla circostanza storico-biografica dell'accadimento di quell'evento aurorale che è la genesi dell'atto poetico, della scrittura come forte polarizzazione emotiva che si fa parola e grafia, elaborazione formale e comunicazione. Comunicazione che in questo caso non è solipsistica e nemmeno autoreferenziale bensì discorso diretto, dialogo da un emittente a un destinatario ricevente, a un Tu che sembra tracciare, nel tessuto delle tre sezioni del libro, una parabola statico-ascendente-discendente, quasi fosse la cronaca traslata di una gestazione-nascita-crescita e morte così com'è nel divenire di ogni cosa; emozioni, utopie, identitità comprese. “Qui il sole non decolla, è un disco rotto che mi/ preme sul costato e schiocca note acide di noia.” recita in esordio il primo sms, immettendo subito il lettore in una dimensione esistenziale in continuum con il clima addolorato, lacerato, inquieto, che era già quello prevalente di “Di sole voci”. Silvia Rosa anche qui, in “Solo Minuscola Scrittura”, sembra ancora priva di approdo, ancora paralizzata in un mondo palude, in un reale la cui qualità dominante è ancora l'assenza, il vuoto, quello spleen lancinante di tanta lirica moderna (i cui epigoni ravvedo in Leopardi e Baudelaire), una “noia” che non è vuoto d'azione bensì fuga di senso, impossibilità di cosmogonie inedite, capaci di restituire all'Io sia una giustificazione mondana sia una proiezione nella trascendenza, in una teologia qualsiasi che possa farsi rassicurazione e salvezza, direzione e finalità. Tutta la prima sezione si sviluppa nel segno di un crepuscolo degli dei, di una niciana morte di dio, di una decostruzione persino spietata (“all'apice”, sms#13) di cielo, terra, oggetti, casa, coordinate esistenziali; ancora un dire il dolore di esserci, ancora l'essere testimone delle terribili inadempienze che il vivere accumula in noi e che sempre e per sempre rendono e renderanno l'umano, creditore di felicità.
Una poesia del dolore, quella di Silvia Rosa, almeno fino al testo sms#17 che chiude la sezione “SOLO”. E' qui che emerge un desiderio appena accennato, ancora in potenza e condizionale: “... avrei bisogno di un cielo più/ azzurro che mai, qualche scheggia almeno, uno/ sguardo celeste accogliente.” e qualche riga sotto “... ma tu concedimi un'eccezione, fra le pieghe/ delle parole”; uno scarto in avanti, un movimento propulsivo verso una superficie che finalmente possa aprire l'Io impaludato alla categoria dell'”azzurrità”, a una “scheggia” almeno, all'accoglienza di uno “sguardo celeste”, a quell' “eccezione” di luminosità in grado di spezzare il rigore greve della regola esistenziale dell'ombra, dell'esserci che progressivamente e fatalmente trascolora e abbuia.
Il testo sms#18 sembra certificare una metamorfosi avvenuta, un passaggio di stato, l'irrompere di un'apocalisse laica che, in contraddizione col titolo della sezione – MINUSCOLA –, ha invece la grandiosità intima di una nuova genesi, la freschezza ingenua di un'infanzia aurorale e non regressiva, così come sempre accade quando l'amore e un Tu giungono a scardinare l'essere ammutolito, l'identità cristallizzata in un vissuto che si riteneva condizione definitiva e immedicabile: “vorrei che ci scambiassimo un bacio che ci/ facesse nuovi da capo a piedi ,[...] il tempo di un sospiro/ di piacere che tremi il cuore e frani cielo e terra/ fino all'origine di (un) noi – possibile”. Le prose poetiche successive, almeno fino a sms#26, sono un crepitare di parole leggere, di metafore gioiose, un carosello euforico di tuffi in aria, nuvole ridenti, ribellioni e rivoluzioni nel segno dell'amore, luna park e cartoni animati, abbracci, baci, l'invasione nei corpi di odori e passione, il miracolo di eros quando il “noi” non è più speranza, desiderio, possibilità, ma vita vissuta e carne sensitiva, eccitazione e piacere dell'uno nell'altro.
Se la seconda sezione del libro fosse stata quella conclusiva, si sarebbe potuto parlare di un “happy end”, e certamente avremmo lasciato Silvia Rosa a viversi la sua intima, personalissima ed escludente felicità, una felicità che avrebbe prodotto inni e non più elegie, madrigali ballerini e non più poesia del dolore, ma come scrive Bàrberi Squarotti nella presentazione, vi è un “ultimo capitolo” (la sezione “SCRITTURA”) e in esso la “spiegazione […] il timore che l'amore possa essere un'illusione, un sogno, una finzione della parola, non la verità che coincide con la vita”. La verità. Appunto. E la verità è l'eclissi dell' “eccezione”, l'essere risospinti ad un ritorno al passato, all'imperio della caducità, dell'effimero, del transitorio, al risveglio nel buio che da sempre e per sempre ha la sua geografia sterminata -il vuoto d'essere- e i suoi abitanti assenti -il nulla intorno-. Il dialogo telematico, la scrittura in parole e bit, le onde elettromagnetiche che erano tanto speculari alle vibrazioni invisibili dell'anima, la luminosità stellare della scritta “messaggio in arrivo”, si affievoliscono, traballano, perdono la percussività ravvicinata e frenetica della ricezione-invio, e l'Io e il Tu, il Me e l'altro capo del filo, diventano sempre più angosciati e angoscianti, sempre più piccini, distanti, allontanati e lontani, due forme umane inghiottite dall'etere. Perdute. E la poesia di Silvia Rosa torna ad essere poesia del dolore, fino all'ultima pagina, quando si può immaginare sul foglio, il display del cellulare. Silenzioso. Muto. Spento.
sms#34
mi arrendo, per l'ennesima volta, passo oltre -
un altro limite -, abito le tue parole come una
soglia, che attraverso senza sapere dove mi por-
terà -il tuo nome-. Ad occhi chiusi. Fiutando
stelle, che mi pesano in grembo, e cadono ad
una ad una nel vuoto della tua assenza. ma sono
infinite