F. Palmieri su Muti
![]() La bellezza del nero
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autori: | Daniela Muti |
formato: | Libro |
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“L’avessi vista tu/ La bellezza del nero// Canteresti…”, recita l’incipit della silloge poetica di Daniela Muti, quasi a volerne suggerire subito e provocatoriamente, non solo la qualità dominante del percorso di lettura che il ‘tu’ interlocutorio dovrebbe effettuare, ma la soluzione stessa della contraddizione inscritta nell’accostamento sintattico-filosofico fra i campi semantici dei lemmi “bellezza” e “nero”. E’ universalmente noto che il nero sia la negazione della chiarità, l’occlusione del vedere, l’eclissi della percezione estetica; al buio, nella tenebra, nell’orrore dello scuro, ogni mondo fenomenico, ogni oggetto, ogni singola presenza umana, perde consistenza, identità, senso, direzione; nel nero si reitera la stessa angoscia che ebbe a provare Dante, quando scrisse “mi ritrovai per una selva oscura”, metafora di quella condizione psicologica, emozionale e spirituale, in cui l’esistere, l’esserci, smarrisce ogni orientamento, ogni finalità possibile. Ma l’opacità cromatica del “nero” non è solo la dimensione poetica di cui ci racconta la Muti, è anche una dimensione di pensiero, una condizione filosofica, la stessa di una ormai secolare, consolidata tradizione esistenziale e concettuale del pensiero occidentale – il pensiero negativo -, quello che va, solo per citare i nomi più ricorrenti, da Schopenhauer a Kierkegaard a Nietzsche agli esistenzialisti.
Eppure la Muti, sempre nel medesimo incipit, prosegue: “Avresti lo sguardo del cieco/ Per comprendere tutto/ Fuori da ogni apparenza”, indicandoci lei stessa la possibile via di fuga, l’uscita, la sortita dall’assedio del nero, una sorta di liberazione dell’Io poetante, della coscienza, attraverso un cammino introiettivo dove lo sguardo accecato sembra conquistare quella chiarezza di visione che permette, tuttavia e ancora una volta, la cognizione della bellezza. Una bellezza certo non fenomenica, non transuente e sempre provvisoria come può esserlo quella di persone e cose, ma che è molto simile alla bellezza (oserei dire platonica) delle idee, della sostanza dei sogni, di quegli stati aurorali di coscienza che sembrano individuare una volta per tutte le “essenze” dell’esserci, i suoi nuclei atomici e primari, le ragioni assolute in cui dimora ogni potenziale Senso e Divenire, le ragioni di vita o di morte, i paradigmi unici e soli attraverso i quali certificare la nostra condizione di carne viva, carne che esiste, che prova, sente, che ha uno Scopo.
Ed è proprio in questa discesa nera nell’abisso esistenziale ed affettivo, in questo raggiungere le fonti originarie, le motivazioni fondanti l’esserci al di fuori di ogni eventuale contaminazione fenomenica, al riparo delle illusioni ottiche a cui spesso il mondo induce, che Daniela Muti sembra trovare -e indicarci- quella chiarezza di visione in grado di discernere fra struttura e sovrastruttura, essenza ed apparenza, sostanza e superfluità; in una parola: l’ontologia, l’ “in sé”, ossia le ragioni umane del vivere. Ragioni umane che non hanno nomi nuovi (non potrebbero averne), radicalità rivoluzionarie (sono da sempre rivoluzionarie), ma contengono la familiarità di qualcosa che dimora immanentemente nell’anima e che mai ci ha abbandonato, anche quando si credeva o si crede di averla perduta. Sono nomi che ritornano, ostinati, in filosofia come in letteratura, nella prosa così come nella poesia, e si chiamano gioia e dolore, caduta e ascesa, esilio e patria (quale luogo dell’anima), solitudine e compagnia, amore ed odio, “paura di morire e la mano dell’angelo”, nulla e dio, silenzio assordante e voce salvifica.
Ecco, il libro di Daniela Muti – “La bellezza del nero”- è di certo un libro di crisi, l’estenuante elaborazione di un lutto, quasi la documentazione di una perdita irreversibile, eppure contiene un’infrazione, un gesto ribelle, l’affermazione di uno scatto d’orgoglio, un guizzo di speranza e un’aspettativa di luce ancora, quella luce viva, quella proiezione vitale -al di là di un tempo definitivamente occluso- che si fa ostinazione a vivere, ostinazione che non è coazione d’organi ma “radice” che cresce “Dove la terra cede/ Al rumore del sole/ Per una vita da vivere/ Dopo la morte”. Una vita da vivere ancora, un incanto estetico e psichico che ancora si può compiere, può ancora accadere nel dopo-morte, una bellezza che la visione spietata del nero -per contrasto- rende più desiderabile, essenziale, luminosa. Una bellezza al di là del nero. Per questo il nero può essere bellezza. Per questo “La bellezza del nero”.
“E’ qualcosa di rotto o bruciato
O ferito
E’ qualcosa che avevo
Quel segno di fuoco
Originario splendore
In rossa accoglienza
Del cuore, del soffio, del lampo”
(pag. 16)
Francesco Palmieri