Felice Seneca su «Una Muta vitalità» di Ilaria Vassallo
![]() Una muta vitalità
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autori: | Ilaria Vassallo |
formato: | Libro |
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Impressioni su “Una muta vitalità” di Ilaria Vassallo – LVF, 2017
nota di Felice Seneca
Proporrei di leggere il libro di Ilaria come un romanzo, il cui protagonista si sente, come vediamo nel primo capitolo (Neo di diametro due millimetri), coinvolto in una vita che non è la sua, o meglio che è quale lui non la vuole, vedendosi continuamente agire inautenticamente (senza poter essere se stesso) secondo scelte di altri. Si fa pur forza, coraggio. Cerca di Essere, nonostante l’insensatezza dell’Esserci, delle delusioni, delle disillusioni, dei vissuti non-voluti. Si sforza di sentirsi forte e resistente come un muro e non fragile come una foglia
Io ero un muro fermo, impassibile (p.11)
E allora una via di fuga, quasi inconscia: fuori casa di notte, quasi a voler dimenticare un qualcosa, un compito da svolgere, alienante, in cui il giovane non si ritrova (ossia non ritrova se stesso) e per cui prova l’allarmante consapevolezza di essere gestito dagli altri, dal mondo, che quasi lo telecomanda, così come il corpo-macchina di cui parla Cartesio è gestito dal pensiero che lo dirige
braccio si muove, testa lo pensa. (12)
E poi una consapevolezza buia:
Non potevo accertare che il pensiero fossi io (12)
Tornato a casa, a notte ormai inoltrata, il protagonista si rimette davanti a quel che ha da svolgere, ma di nuovo lo assale la sensazione frustrante di chi non vede e sente se stesso in ciò che fa: è l’alienazione feuerbachiana, che è di per sè terribile, quasi da far tremare anche quel muro così solido. Essa fa av-vertire, quando provata in rari momenti, il non senso di un vivere non gestito da te.
Tuttavia il muro resistente dell’anima ha forza e ce la fa nonostante tutto e evita che il ragazzo giunga alla pazzia, anche perchè ha un esempio vissuto davanti, uno specchio ben contemplato: la depressione dello zio; uno specchio molto, troppo forte, illustrato dallo zio caduto…. (15)
Allora sentire di far solo cose volute e decise da altri, sentire, come Calderon de la Barca, che la vida est suegno, per cui chi vive viene avanti (alla maniera di Cartesio) mascherato (nietzscheanamente maschera di se stesso) ha un momento stavolta reattivo e bello: invece di precipitare nello sconforto assoluto, Vidal, chiamerei così, provvisoriamente e metaforicamente, il protagonista (Vitalità), se Ilaria lo consente, inizia il primo atto di ribellione sì, ma fresca e giocosa: trasforma, nella fantasia sognante, ciò che ha davanti a sè e in questa immaginazione l’ambiente si popola di oggetti viventi, che entrano nel gioco, nel gioco di Vidal, e che è più vita della presunta vita in tutto quanto si deve fare, voluto, assegnato da altri e vissuto con insofferenza, per l’alienazione che genera. Questi oggetti sembrano viventi e animano una scena vi-vente che finalmente distrae dalla sofferenza:
carta…qualche bicchierino con numeri scritti a penna,… un telfono di carta… fanne un pc allora… sfere rosse commestibili …. pietre, unghie, tutù…. alcool… polpette… (15)
Per riprendere un verso di Meluccio, solo al momento dell’incontro delle palpebre, che chiudono un falso mondo vero e dischiudono il vero mondo in cui si vorrebbe essere (o Essere), il nostro protagonista inizia a vivere davvero la sua vita, in cui c’è di nuovo spazio per la creatività e per il sorriso (ma la stessa poesia prenderà alla fine, per Ilaria, il posto di questi oggetti, a consentirle di vivere in un mondo suo più vero, e anche di proporre agli altri, con la sua poesia, un mondo più vero).
Se, in tal senso, la proposta di Giuseppe Meluccio sembra, tra i sensi possibili, Unità per vivere e oltrevivere, quella di Ilaria Vassallo mi sembra: Verità, per vivere e oltrevivere.
Poi di nuovo dalla fantasia sognante il protagonista si risveglia e compare la cruda realtà di una vita in-autentica, in cui ci si sente eterodiretti, come i visi vuoti della folla solitaria di David Riesman o i volti inespressivi dell’uomo senza qualità di Musil. E riemergono, fatali, i compiti in cui non ci si rispecchia:
le parole riemersero leggibili (16)
Allora viene momentaneamente la speranza di un sonno liberatore, sotto amabili coperte calde, il gradito caldo dei letti d’inverno che
nelle notti di un freddo gennaio chiamasi beatitudine… estrema (16).
Ma il senso di angoscia che desta ciò che non è stato eseguito (angoscia per un rimprovero della società che quasi ci telecomanda), non fa prendere sonno e, alla fine, ci si mette pure un gallo, a questo punto odiato, che aggiunge stress a stress, con il suo canto stridulo che annuncia l’arrivo del solito tran tran quo-tidiano, giungente inesorabile perchè il tempo, a differenza del sonno, non si ferma, ma procede in-espressivo –
e prima o poi arriverà il sonno, per me non per il tempo (18)
– essendo il tempo la temporalità originaria nella dimensione del futuro, l’agostiniana extensio animi, che si fa ora tensione dell’anima, estrema, prospettante un futuro a un volente che non lo vuole, ma che vuole però (perchè non vi ha rinunciato) essere vitalità, Vidal. Un ragazzo, appunto, che ha ora imparato ad uscire dallo stress vivendo momenti sognanti di coinvolgimento tra oggetti animati
frastornato… tra le pezze viola infangate, …la colla … adesivi sui vetri …la tempera che
ricopriva la mia lampada … la rosa gialla che fa la riverenza al piede del tavolino … ghirigori
polverosi e superdorati luccicanti… il vassoio… (21)
Ma ora (e siamo alla seconda parte, una ruga universale) il riandare alla fantasia desituante (perchè libera dalla prigionia di una situazione inautentica) non libera solo dal da fare imposto e non voluto, ma anche dai ricordi accorati e sofferti, realtivi a sofferenze vissute e contemplate negli altri (forse in una nonna), come l’irriconoscenza e la testardaggione di qualcuno che ha fatto morire di crepacuore una madre, ne-gando poi il dolore che le ha dato inseguendo chimere irrealizzabili –
rinnega le sue mani, il suo tempo,…il cuscinetto di piume per una testa e tre chili di chiodi (23)
– quasi avendo un cervello che al posto di pensieri ha punte ferrate che infliggono sofferenza (in una ma-dre), dandosi forse al gioco o a qualcos’altro di rovinoso e impedendo o non vivendo la vita che avrebbe potuto esserci, più bella, come poesia vivente, senza inutile dolore e sofferenza, inferta e patita. Ora si ve-de in costui solo un’anima che
agghiacciata strabocca (24)
Ma una nuova fuoruscita da quella inautenticità (compiti e/o ricordo di persone che hanno inferto soffe-renza) è ora trovata nei sentimenti che si riescono a provare in qualche raro momento. A volte basta un gesto e poi, ancor più, un incontro: si incontra qualcuna e ciò finalmente allontana ogni altro ricordo, desituando rispetto ad esso:
le frange… spostarle… un braccio deperito testare che sia cresciuto… restare vivendo…
immaginare che sia …., irrorato di memoria…. dirti di non spostarti…
vedere occhi che non temono… (25-26)
Poi, di nuovo, il ricordo sofferto (impossibile da rimuovere freudianamente) riemerge e va a chi ha tanto angustiato, persino nella pretesa vana di vincere l’età:
ad agghindarti corri frenetico … vergogna di te, dell’intimo io che sa di realtà,
ma non basta un’ora per cambiare squama, combatti… invano contro la verità della stagione…
A costui Vidal gggrrrida, ma silenziosamente, quasi in un urlo munchiano:
diiimentichiii la pauraaa di una rugaaa universaleeeeeeeeeeee! (27)
sperando che un’eco almeno risuoni nell’animo di costui. A smaltire la rabbia possono servire, stavolta, non gli oggetti o una vicinanza calda, ma una visione quasi rabbiosa di programmi crudi
ho il televisore e una scena di wrestling avanti (28)
Tuttavia Vidal sa bene che non è questa la scappatoia (come non lo erano gli oggetti animati nella fantasia e come non lo era l’illusione di un colpo di fulmine ancora non vero). Infatti guarda
solo per quattro, cinque secondi… il resto non importa, quasi flash spaziale (28)…
La mente allora si riempie dei ricordi delle emozioni genuine, mie prime… (28)
e tornano, ritornano salvifici, gli oggetti animati, come un ferro alato
per nascondermi. Ne erano pieni quei mesi (28).
E’ di nuovo il nascondersi, sottrarsi al senso di vuoto grazie alla fantasia degli oggetti, ad uno dei quali Vidal dice, quasi implorando:
dimmi che devo vagar con me, dimmi che posso veder con te… (28)
E così, in un vortice di sensi nascosti e bambini, come in racconto fiabesco, aggiunge ancora:
…spine son quelle, non pungerai, so dove andrai, gli steli son secchi, la terra buona…(29)
Come si vede, però, i simboli sono pieni anche di senso nascosto, come quelli delle fiabe di Propp, mai banali, perchè tra le pieghe leibnitziane emerge e riemerge, come in una cascata di associazionismi freu-diani, un senso segreto, forse un dolore nascosto:
ripungerai… due stelle nere mi lasciano cadere… due pugni all’anima… (29).
E ritorna a questo punto il tema del tempo annientante, annichilente,
e forse un giorno sarà il tempo ad annientare la vita e il mondo… (30)
frutto dell’associazione freudiana (antilapsus) del proprio dolore, che ha avvelenato la propria anima, con il veleno della terra dei fuochi:
sospeso…ai margini terre di fuoco, sognavo una vita di luce, ma luce l’avevano le fiamme (30)
Sono momenti in cui quasi, per uno sconforto non più solo personale, ma estendentesi alla vita intera che circonda, si vorrebbe
chiudere gli occhi e abbandonarsi, spegnere il tempo e crogiolarsi e scivolare, precipitare (31)
cadendo leggeri, senza avere più decisioni e sogni da inseguire in una vita che non li merita, sentendo quasi spegnersi il calore della vita, così come senza calore è il fumo nero:
il filo brucia, io cado leggero, non sono in piedi, non ho più un piano, senza calore, il fumo nero (31).
E nuovi ricordi si innestano, sullo stesso tono e registro emotivo, richiamati dal dolore delle fiamme della terra dei fuochi, come il ricordo di una persona del cuore
che allieta le giornate fredde e cupe dell’inverno (33).
E un dolce pensiero va a lei, forse scomparsa
si cantava e tu cantavi su due ali di armonia (33)
Un saggio una volta ha detto: porto com me tutto ciò che è mio. Era Biante, uno dei grandi sapienti del mondo greco. A chi gli chiedeva come mai non cercasse di salvare qualcosa, portandola con sè, come facevano tutti in una situazione di generale confusione e terrore, egli appunto rispose: Omnia mea mecum porto. E in fondo tutto ciò che è nostro lo abbiamo con noi, in noi, come sa bene chi autenticamente vive, senza volersi appropriare del di più, da sottrarre agli altri e al mondo, camminando perciò, senza tasche da riempire:
cammina senza tasche colui che vive di sè (34)
E cammina e si incammina allora così Vidal, con poche certezze (due pensieri (34)), ma tenute strette con il ricordo di qualche momento pieno
non vuole altro …illuminato dalle parole mute della mente (34)
rassicurato, come Biante, dalla consapevolezza che il vero e il prezioso di noi lo abbiamo in noi e che è quello ciò che sta nella nostra vera tasca interiore –
la ragione è la tasca più fedele, dell’amore senza leggi (34)
– anche se il cammino soltario, in compagnia di
asfalto e quiete …qualche foglia, una carta… (34)
– non soddisfa di certo
tutto quanto mi circonda sa di niente (35).
E’ in questa poesia, la numero 13 appunto, che per la prima volta si incomincia a scoprire la contro-identità femminile del/della protagonista:
… mi sollevo inebriata.
Ma il desiderio, che è aspirazione e nostalgia insieme (sehnsuct romantica), è ancora quello del vivere nella verità di se stessi, con altri che riescano ad esser se stessi. In metafora: un altro cielo –
un cielo di fiori, di fibre, rugiada, un altro cielo … petali fiori, profumi colori… (36)
– anche se si sa che questo è solo un sogno e
l’anima vaga e sente che oscilla… (37)
Poi finalmente Vidal riflette che non mancano, in fondo, possibilità di rapporti autentici e la mente va a un sognatore, indomito lavoratore, vero quanto il suo lavoro, che vale da artista, per quanto nella sem-plicità dei gesti normli nelle attività normali (dal fabbro al contadino, dal bricoleur al cuoco e così via: polimazia magnogreca), che però occupano sanamente
ogni momento santo (38)
E’ il nonno, tra i pochi contatti irrorati di fiducia, comprensione e verità. E si ritrovano, in associazione freudiana, nuovi ricordi, qualche nuovo oggetto, anch’esso degno di fiducia, una sedia antica dal legno opaco, che ora però quasi risponde a Vidal (nel momento in cui vi si siede), come riconoscendolo, con
lo scricchilio della seduta non stabile (39)
e di nuovo, a seguire, la sinfonia degli oggetti che animano la fantasia e le rispondono, perchè si animano essi stessi:
e i lacci di scarpe e le voci di carte entrano nella calda leggerezza
di una storia che vuole sembrare un sogno privo d’amarezze (40)
E’ una storia di evasione che, però, non vuole ingorgo di parole, perchè i fiumi di parole ostacolono il vero pensiero:
prendi parole e perdi pensieri.
Ma su quella sedia di tanti anni fa, che ancora resiste e risponde stridula al peso, la protagonista ora, dolcemente incastrata tra i braccioli, si lascia andare
un po’ come una vita: (40)
con i due punti finali al posto del punto, come a dire: il resto di quel momento dolcemente sospensivo è il linguaggio che anima il pensiero che vive nel silenzio, il nulla apparente, il pieno reale, perchè
nella sera del pensiero
ossia nei momennti del pensiero leggero (perchè non ostacolato dalle preoccupazioni del quotidiano banale) e, allo stesso tempo, profondo, perchè non ostacolato dai rimossi,
dio non dorme (41).
La speranza del e nel divino emerge, però, scettica, di uno scetticismo a cui hanno abituato uomini, non dio:
vorrei che trepidante…
calerei fin su nel cielo, volerei fin giù in terra (41)
facendosi riscoprire delusi
crudamente vivi in un cammino segnato (41)
nelle ombre del destino. Evidentemente una religiosità apparente constatata in tanti falsi credenti ha de-luso e non le si crede più, perchè essa non è fede vera. Ciò porta Vidal anche a disilludersi circa le false certezze di tanti, che in tante concezioni e sistemi riescono a leggere e a
penetrare nel tempo e nei tempi dell’esistenza della realtà (42)….
nulla capisco. Il circolo vizionso figurati dopo tre anni (42)
Unica certezza è che, andando avanti, si vede a volte scorrere veloce l’asfalto della strada, ma con
l’anima indietro (43)
con una mente a tratti infastidita e stanca, già stanca nel buttare a volte due righe velocemente, ma su impossibili conciliazioni, in cui si inviluppano tante menti pensanti, costringendoci poi a rimeditare i loro assurdi pensieri:
fede e ragione. Provavo a non vederci pateticità… il cieco vede dio.
Il vedente vede il cieco, ateo rimane, ma ne scopre meraviglie (44)
(di chi? potremmo chiedere a Ilaria). Il/la giovane è, come i giovani, apota (colui che non la beve sulle false fedi di ogni tipo), come i giovani antifuturisti, antifascisti e antimarxisti, ma più che altro anarchici, di una rivista di inizio Novecento, da loro fondata, in cui si dichiaravano alieni da ogni fede, umana e divina, apoti appunto, ma non mentitori:
E dico non vedo il dio io, io non mento (45)
L’ostilità per la credenza è, in realtà, ostilità verso i morti di ragione, che sono poi morti alla ragione e che hanno tanto angustiato, ma nei cui confronti matura l’ironia fresca:
sono qui ora ad asoltarvi, cauto ridendo dentro (49)
E’ l’ironia che si matura davanti a quanti pretendono di essere, ma non lo sono
che vogliono essere Sè e a me si professano vere (50)
ma la cui verità forse è solo la loro insincerità o ipocrisia:
pezzi fermi, morti di armonia (51)
bisognosi del divino solo perchè morti alla ragione, per quanto razionali (chi sono costoro, Ilaria?).
Questi morti di ragione, per quanto razionali, rischiano, alle volte, con la loro abile razionalità apparente, di avvolgere noi e il nostro pensiero nelle loro spire di nuvole nere. Ma di nuovo intervengono, salvifici, gli oggetti che si animano:
… mi stavano deviando, con la loro natura lucente,
da un declino di astute nuvole nere (52)
E’ il deviare, quasi salvifico, prodotto però, in noi, anche dalle persone che ci vogliono veramente bene e che ci fanno fare un vero salto nel pensare profondo, anche nell’epoca che
scorre monotona di apparenze (54)
A volte, appunto, la deviazione, il clinamen lucreziano, può produrre vera vita o vero pensiero che sottrae alla arendtiana banalità del quotidiano, facendo saltare dalla banalità del quatidiano al pentirsi di essersi pentiti, rinunciando alla vita. La risposta (infusa nella volontà di non doversi più pentire di pentirsi) è allora che tu
puoi ancora (56)
ma non devi rinunciare più, in nome di false fedi o doveri o obblighi ……. che gettano nella
stasi di vite intrappolate (57)
stasi che si avverte, ad esempio, quando, ritornando alle proprie case, non si vorrebbe rincasare, perchè ciò viene avvertito come il riprecipitare nell’insignificante o nel vuoto o nel dolore.
Si rientra, tuttavia, e si prova la sensazione della insensatezza dello star lì. Poi, da questa sensazione, di nuovo salva l’animarsi degli oggetti, questa volta l’agitarsi immobile e sofferto di un pezzetto di qualcosa, incastonato in un angolo di piastrelle e che sembra dire o ricordare: qui sei imprigionato come sono in-castonato io. La fantasia, però, si libera e ribella ora con più forza e dice che in quella stasi Vidal non re-sterà per sempre,
permanentemente soffocato (60):
se ne libererà, in una volontà nicciana d’esser se stesso. E’ la sensazione dei giovani che provano cruda-mente la sofferenza di essere parcheggiati lungamente nella monotonia di obiettivi indecifrabili, che fa perdere vitalità: basta! Non si deve più vivere rinunciando, riducendosi a rispondere ad immaginarie domande di sassi. Ad un sasso metaforico (la sassata colpisce e scuote, però, come in sogno: il sogno di Nabucodonosor) Vidal risponde: solo per un attimo, solo per un momento,
solo lì l’avrò ascoltato (61)
E’ il momento della svolta heideggeriana, ossia della svolta all’autenticità dell’esistere: dalle domande e drammi esistenziali sul sè e sul senso di sè e del proprio Sè (junghiano), Vidal passa alla/alle risposte, alla vita activa arendtiana, quella vita che sa riconoscere l’inglobamento dell’osservatore nell’osservato, per il tramite dell’osservazione stessa, proprio come nella teoria della realtività generale di Einstein e secondo il principio di indeterminazione di Heisenberg. La nuova e ultima sezione è intitolata, non a caso, “Il mio nome è Vaclav”. Se cambio prospettiva, sembra dire Vidal, cambio io stesso e il mio mondo con me, perchè le foglie d’erba di Walter Whitman, finchè vivranno, non faranno mai dare l’addio definitivo, si-milmente ai gesti semplici di Emily Dickinson, allorchè ella rifletteva che anche grazie ad un solo gesto autentico “non avrò vissuto invano“. E il protagonista comincia da osservazioni di situazioni più vere:
io pure sono questo, povero delatore di quello che è fuori alle mie sbarre (65)
sebbene ancora nel timore che quanto detto o visto
attutito dal pronto intervento… (65)
faccia troppo rumore e allarmi chi ascolta, quasi come nel timore ancestrale dei bambini che si rendono conto di dire troppa verità. Ma ora Vidal non si rifugia più in oggetti animati per sfuggire al senso di alie-nazione. Ormai è stata intrapresa la strada per dire la verità, nella progressiva coscientizzazione, come presa di coscienza, della propria vitalià, non più però così muta, ma decisa al desiderio
irrefrenabile di mettere su carta … quello che avevo nel cranio (66)
e anche quello che ha visto
nell’elettrica meraviglia (67)
Ormai non si torna più indietro, al senso di torpore sofferto, dimenticato nella fantasia di oggetti che si animano, testimoni di una ribellione interiore ancora non molto dichiarata. E’ ora l’ora di vedere, e vedere fino in fondo, non essendo più come gli eraclitei dormienti:
io non devo dormire, perchè sono un mortale (69).
Emerge quasi prepotente il bisogno di recuperare la forza di nascere e rinascere sempre, forza che, forse,
non si è ancora avuta (70)
Si cominciano a vedere, allora, più nitidamente, diseguaglianze e ingiustizie evidenti, come la differenza tra una spiaggia libera dagli ombrelloni sfalsati e
il rigore del blu uniforme del lido privato (71)
per poi passare al lieto (forse) preoccuparsi di apparecchiare un tavolo
per nuove mani da conoscere (72)
Nuove esperienze e niente più rimorsi per il non-eseguito, per il non-fatto secondo volontà altrui:
resto rilassato a fottermene … ho il coraggio di essere pronto a rilassarmi (73)
e niente più pensare alle ipocrisie, come quelle delle commedie nelle chiese di gente che, in realtà, non ha fede sincera, per cui, dice Vidal,
povero dio se esistesse (74)
Non hanno il pudore per le loro ipocrisie
ma io invece ho il pudore (74)
insieme anche ad un’inquieta insofferenza per le stesse cose contemplate in casa, sempre ancora le stesse, come le stesse teorie apprese, che si è dovuto apprendere e di cui si sarebbe volentieri fatto a meno:
i pensieri pateticamente con gli stessi nomi avanti…
gli stessi grandi troni, possenti, miseramente malvagi (75)
A questi pensieri, magari altisonanti sistemi, si preferisce umanamente
vivere l’arguta malinconia che serena mi attanaglia i minuti …. (76)
E si preferisce, per di più, poco, due strofe, forse addirittura la metà, qualche pensiero umanissimo nella consapevolezza che il poco vale più del molto, che la metà vale più del tutto, a differenza di quanti ignorano il bene che si nasconde nella sanità delle cose semplici; essi sono gli insensati di Esiodo, che a loro si rivolgeva dicendo:
insensati, ignorano che la metà vale più del tutto, ignorano il bene che si nasconde
nella malva e nell’asfodelo:
Mi fermo ora, preferirei, provavo a scrivere due strofe.
Ne basta una per evitare di tradire il silenzio (76)
perchè il linguaggio che si fa poiesis, come voce dell’Essere (e dell’esser-se-stessi prima di tutto), non ha bisogno dell’ingorgo di parole, ma solo della concentrazione in se stessi:
rullo di saette si fa spazio tra le meningi, penso assetato da solo con me (77)
ritrovando spazio per una fede possibile
… e tu dio superiore (77)…
ma sentendo difficile o quasi impossibile un vero contatto con il divino, così tanto
protetto da nuvole insonorizzate (77).
Possibili ancoraggi distensivi agli oggetti non si trovano più, ormai. Essi restano ora inespressivi e im-mobili, ora, ora che poca luce dà la speranza di un divino che, non intervenendo, è
esempio di imperfezione (80)
e quasi si diverte a buttar già stracci di vita nella padella della vita, permanentemente
farli lievitare e diventar grandi come pare, con forme diverse, come fanno le frittelle (80).
a diventare quasi burattini del tempo che ripetono le stesse cose ogni giorno
nello stesso (steso) cielo, tra gli stessi banchi (82)
(Ma si scoprirà alla fine che questo cielo è steso come un falso cielo, quello di un tendone o di una tenda da campeggio). Per evitare la ridonandanza insignificante del quotidiano, ossia il Medesimo, ci si può almeno inventare come Altro, contrapponendoglisi: ed ecco, allora, una variazione sul tema: il maschile torna femminile:
me medesima (83)
anche se ancora la ripetitività incombe nell’esecuzione quasi irriflessa
dieci formìule, riempio un foglio e non lo sai… (83)
non sai se stai riempiendo cosa (83)
Più che la ripetitività, in effetti, a incombere alienente è il dovere non vissuto come veramente voluto:
sto al mio posto se produco, se rispetto,,
se mi fermo e leggo tracce…. letto fatto, vetri lucenti… sto al mio posto (83-84)
E’ sempre più difficile riconoscersi in test artefatti (e i test nella vita sono e saranno tanti). Ma resta la poesia come voce di se stessi:
e oscillo ad occhi aperti nella mia gradita …. poesia (84)
Gli oggetti ormai parlano di meno e si sono ridotti a simboli di legami che non ci sono più o che si sono rotti, come
i piatti squartati a terra con altri rumori
che prima non hanno fatto parte della … giovinezza vitale (85)
rumori dolorosi, come quelli che desta la carta vetrata che pulisce le pareti e che ha lo stesso effetto insopportabile del rumore che ha fatto (andandosene) chi è stato
cancellato dai … pensieri (86)
Quella carta vetrata avrebbe dovuto essere adoperata più cautamente, delicatamente, per evitare quel rumore/dolore dovuto al fatto che ciò che poteva essere non è poi stato:
un corno che non suona, una musica non nata,
un’idea sospirata, incastrata nei pensieri (87)
E’ stata come una musica che non si è voluta produrre, come le persone pure che, però, non si coin-volgono, quasi appagate della loro purezza e castità e non vogliono
sorprendere (87)
Ma in fondo non dobbiano poi troppo disperarci per quanto poteva essere e non è stato. Il nicciano sì alla vita è anche sì al ritorno eterno di tutto, di un tutto da accettare pure nelle sue disillusioni, nell’attesa del ritorno di momenti che comunque, poi, finiranno anch’essi nel
nel dimenticatoio della notte del tempo (88)
in cui a volte persin le luci sono grigie e quasi plastificano i giorni (89)
E’ un sì alla vita che, però, non prescinde, ora, dall’impegno nel mondo, quando il diniego nei confronti di piccolezze, bassezze e ingiustizie non può essere solo un distogliere lo sguardo, ma anzi, renderlo più acuto, per farlo esprimere nel no all’ingiustizia, come quella osservata sul corpo di un uomo massacrato da poveri di vita (90)
che ne hanno fatto scemipo. Stavolta non parlano oggetti, cose o ricordi, ma è una persona vera, in carne ed ossa
quattro centimetri di barba rossiccia, nella stasi della mente, due occhi chiari… (90)
mi parla il suo silenzio, una stampella incurante all’angolo della cattedra…. (90)
Non si può cedere all’impulso di non vedere l’ingiustizia, di distogliere lo sguardo, non si è davanti a un
individuo… ma ad una persona (90)
cui quasi non si sa che cosa dire. Ma si saprà dire, invece, qualcosa e lasciar andare di getto la matita HB a gridare sulla carta quel “non è possibile che accada questo“.
E mentre l’emozione e il grido interiore fanno tenerezze di parole, queste ultime non sono fiumi estranei di cose da imparare, ma lo specchio alla consapevolezza del mondo, che vi si può specchiare vedendo la propria bassezza. L’immagine quasi resta immobile e segna l’animo, che non può restare più lo stesso dopo la visione del tragico
e poi mi segnano quarant’anni d’uomo .. due diplomi, due gamebe distrutte, tre interventi
chirurgici subiti, un clan di quattro cinque poveri di vita che ti hanno massacrato (91)
Irrompe il grido gramsciano: non si può essere indifferenti, non si può dimenticare.
Ed è così il momento in cui si esce dal falso cielo che ha oppresso la vita: non era che un tendone steso (da altri), ben piantato in paletti e sotto al quale si è stati troppo a lungo, ma da cui alla fine si è riusciti ad uscire, nello sforzo di venir fuori da limitazioni resesi ormai troppo anguste e i cui confini, però, si è riusciti a trovare
“…. affinchè trovassi i paletti agli estremi….” (48)
Nello sforzo di trovarli e “annullarli” (ripiegando il cielo-tendone nello zaino), quella vitalità dichiarata “muta” ora si rivela, invece, tanto energica e creativamente espressiva, fino a far finalmente svanire
le pezze viola infangate, la polvere nell’angolino….i due braccioli (5)…
che hanno forse troppo stretto o costretto alla ricerca di senso o senso nuovo, costretto troppo a contor-cersi nei limiti di una metaforica poltrona di un falsato riposo-tranquillità.
Una vitalità, così, ancora più vera perchè non più muta, ma rivendicativa di una consapevolezza non più domata o deviata:
se non parlo e taccio so chi sono… davanti ad anime che vogliono essere Sè
e … si professano vere (20).
Siamo all’epilogo. Si è compiuto un cammino come destino. Questo, del resto, per quanto sconvolgente, è per Heidegger il destino stesso dell’uomo, che interpretando fino in fondo la realtà, l’Essere, attraverso il proprio essere, che si fa linguaggio vivente e poetico, non rinuncia a sè, ma tocca o sfiora o interpreta fino in fondo il compito esistenziale più autentico, come Ilaria stessa adombra:
mi piaceva pensarmi sospesa in un altro corpo, in un’altra mente, in un altro pensiero.
Forse è proprio questa capacità di pensarsi sospesa (vivo sospesa, tra sogni e quotidianità, come ascol-tiamo in una canzone di Nathalie) che rende forti interiormente, fino a pensare di essere muri duri, come abbiano visto all’inizio, davanti a cui nulla possono, in fondo, tante vicende vissute, più o meno strin-genti. Appunto sulla terra, dando voce alla terra (o restandole fedeli, come dice Nietzsche), interpretan-done il senso e vivendolo in proprio, ma conservando, come sanno fare i forti (di mente, di cuore e di animo), la capacità di
dare espressione agli occhi, alla mia immagine, osservare me, dare attenzioni
alla vita che è in me … fuori di me (11)
si può riuscire a star lontani dal solipsismo, che è egocentrismo e egoismo, di chi si compiace solo di sè. È la consapevolezza, insieme tragica e felice, che si è coinvolti, che eventuali sofferenze non giustificano mai il no definitivo e che viviamo anche per gli altri, senza essere burattini e senza esserlo soprattutto del Pensiero, per quanto qualche volta ci si possa sentire quasi telcomandati.
Ma non siamo, in realtà, gestiti come piccoli burattini. L’Essere che si fa Linguaggio e parla con noi e attraverso di noi non ci chiede indifferenza: il suo linguaggio è tua poiesis, Ilaria (M. Heidegger; cfr. : In cammino verso il linguaggio). Del resto tu stessa affermi di voler a ogni costo
dimenticare Gli Indifferenti…. (47)
non potendo assolutamente, riferendoti a Vac’lav,
dimenticare te, la tua dimora che non è casa, i … pensieri, che non sono parole (47)
in quanto, tramutandosi in poiesis, questi pensieri, non più solo difensivamente rifuggenti alla fantasia degli oggetti animantisi, vogliono un mondo diverso, ossia vogliono renderlo diverso, perchè vorrebbero un mondo-ambiente di individui-persone e non di individui-cose.
Sono i momenti in cui si vuole essere (o Essere) e non ci si vuole più limitare a copioni del teatro delle marionette, nel quale
muore tutta la poesia con le parole che stanno imitando fallendo (76).
perchè
nella sera del pensiero dio non dorme … tace e brilla nelle menti (41)
e forse quella sera o tramonto del pensiero si rende di nuovo aurora di visioni nuove.
Il protagonista del romanzo-poesia di Ilaria è così riuscito a trovare una via di uscita dalle costrizioni, anche inconsce, che non lasciano libera l’anima, in quanto la irretiscono come una tempesta che la fa andare dove lei non vuole, come quando ci si trova in una folla che muovendosi costringe il nostro cammino nel suo e nella sua direzione. Ma i visi della folla sono tutti solitari, perchè hanno tutti smarrito il senso di sè e si affidano, come dice Heidegger, alla chiacchiera, alla curiosità, all’equivoco in cui cre-dono di trovar senso. Tuttavia bisogna convincersi (e se ne è convinto Vidal) che la tempesta, per quanto forte, non è travolgente, anche nei momenti in cui
tutto quanto …. circonda sa di niente (35).
L’ancora di cielo che è la poiesis lo ha condotto ad individuare (ancora come scrive Nathalie) il punto di forza nella tempesta di vento. Infatti, per quanto il vento urli forte, una montagna non potrà mai piegarsi ad esso, dice un proverbio cinese. Quando si trova quel punto di forza lo si afferra senza paura, si gestisce e governa allora, finalmente, quello stesso impeto, scagliandolo lontano, nel mare o nel deserto, dove non può più far male, aprendo così una via d’uscita
un altro cielo, di nuvole azzurro (36)
passaggio al luogo dove scorre l’anima
e dove gli esseri e gli umani non sono limitati e ristretti a Uomini a una dimensione (come lo sono oggi secondo Marcuse), nella dimensione del pensiero-non-pensiero che
rinnega la poesia (6)
e sa avere solo
parole vane…. (che ) … dipingono i vuoti (6).
Concluderei, allora, proponendo che quella di Ilaria è una poesia che va contro
il torpore della ragione
e i morti di ragione. E lo si capisce particolarmente quando è lei stessa che la legge, facendo capire veramente quello che hanno dentro le sue poesie. Ha scritto Eraclito: la guerra è madre di tutte le cose. Gli oggetti di Ilaria sono cose e allora possiamo invertire il detto eracliteo: è la cosa che è madre di tutte le guerre, guerre però da concepire, in questo caso, come lotte di liberazione, in cui chi anima la fantasia anima e si rianima, in realtà, contro l’ordine dell’Esserci inautentico, per ritrovare l’Essere, proprio grazie a quegli oggetti che si sono animati-liberando-liberandoci e il cui posto, alla fine, è preso da una Cosa che è, ora, per noi tutti lettori, questo stesso oggetto-libro, che vuol dischiudere la via di fuga, ossia la prospettiva di vivere in un mondo più vero, propostoci, appunto, con la sua poesia: un mondo più vero. Grazie.