Francesco Tomada per Marco Bellini e La distanza delle orme@
![]() La distanza delle orme @
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autori: | Marco Bellini |
formato: | Libro |
prezzo: | |
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Lo ammetto, lo ammetto: ognuno, e io per primo, ha le proprie abitudini e spesso le mantiene anche se sa che sono sbagliate. Quando mi avvicino ad un libro di poesia, ad esempio, lo faccio in modo del tutto inopportuno: per prima cosa lo apro a caso, leggo qua e là, lo ripongo e poi ricomincio nello stesso modo per giorni. Soltanto dopo, quando ormai mi capita di ritrovare le stesse pagine e di riconoscerle, soltanto allora inizio la lettura sistematica cercando di ricostruire il filo, trovando qualche poesia che mi era mancata come una pietra angolare a sostenere il tutto.
Sbaglio sapendo di sbagliare, appunto, ma devo dire che raramente l’impressione iniziale, per forza frammentaria, si è poi discostata di molto da quella conclusiva. A volte però accade, e adesso sto raccontando proprio di questo. Perché quando ho preso in mano l’ultima raccolta di Marco Bellini, La distanza delle orme (La Vita Felice), la prima impressione è stata letteralmente quella di non capirci nulla: una scrittura che mi sfuggiva nel suo motivo di esistere, nei concetti, mi dava l’impressione di essere una sorta di costruzione intellettuale e poco più; e questo mi sembrava ancora più strano proprio perché conosco Marco e la sua poesia, e da lui un’operazione del genere non me la sarei aspettata. Ero perplesso, insomma, fino a quando non sono capitato sulla pagina delle note – pagina che spesso nei libri nemmeno leggo – e lì la prospettiva si è completamente capovolta.
Ecco, se posso dare un consiglio, per addentrarsi in La distanza delle orme è bene partire da lì, perché i punti da cui Marco Bellini parte per questo suo viaggio sono lontanissimi da noi ed hanno bisogno di essere fissati: si parla della sepoltura dei neonati all’interno del tronco degli alberi in Indonesia, di un meteorite caduto nel modenese nel 1766, del ritrovamento in una zona boscosa di un bambino – avvenuto nel 1793 – che non aveva mai avuto contatti con esseri umani, del luogo dove nell’anno 930 le tribù vichinghe si radunarono per una forma di primordiale parlamento. Senza questi e altri nodi non si può partire né comprendere il percorso di Bellini, che in realtà è tutto meno che una astratta costruzione intellettuale, piuttosto l’esatto contrario: l’autore scava e riporta a noi il passato e il distante, identifica nelle realtà così lontane nello spazio e nel tempo quelli che sono i nodi comuni dell’umanità, del vivere (o morire) da esseri umani. C’è sempre un voi che idealmente si unisce al noi attuale, che sia tensione, desiderio, oppure “quel vuoto / portato a noi / che siamo il vostro lascito”; c’è un senso di comunione presente e costante che attraversa gli oggetti, la natura ed il tempo e ci colloca all’interno di un flusso che parte da lontano, lontanissimo e adesso si concretizza nel nostro stare al mondo, nel raccogliere il nome, le tracce e il ricordo di chi c’è stato come forse altri in futuro faranno con noi. Bellini fa proprio questo, “occupare carta / per darvi voce”, dà voce a chi non ne ha più , dà voce al “nostro tempo che vi chiama e interroga”, e lo fa con una lingua che si svela essenziale e diretta: come giustamente osserva Sebastiano Aglieco nella postfazione, “si ha l’impressione di una scarnificazione stilistica ottenuta per semplificazioni successive”, di un processo lento e consapevole che qui raggiunge una limpida asciuttezza.
La poesia di Marco Bellini diventa dunque poesia di altri. E lo fa non soltanto sulla carta, con i mezzi tradizionali, ma si spinge ad aggiungere un mezzo di interazione in cui il lettore diventa in qualche modo protagonista della poesia stessa e sceglie come percorrerla: al libro è infatti allegato un cd in cui, a partire dal testo, è possibile aprire delle finestre che aggiungono proprio le parole che sono mancate o non ci sono giunte, gli incisi di chi non può dirli oggi, e che arricchiscono la scrittura di una prospettiva diversa che ci giunge da lontano. Si tratta di un esperimento rischioso ma dal risultato affascinante, e che in qualche modo fa sì che La distanza delle orme non sia un unico libro ma più libri in uno, e che attraversarlo non sia un’esperienza unidirezionale ma dipenda da chi vi si approccia: “Qui dove tutto si presta alla storia / e la terra ha il suo calendario / la nostra parte si è compiuta. / Tocca a voi l’ascolto.”
***
L’Enfant sauvage
Si fa riferimento a un bambino di circa dodici anni catturato in una zona boscosa nel dipartimento francese dell’Aveyron nel 1793. Il soggetto sembrava non avere mai avuto contatti con altri esseri umani, non parlava e, anche in seguito, i progressi nell’acquisizione del linguaggio furono minimi. Sono noti numerosi casi, rinvenuti in diverse parti del mondo, tra cui Africa, India e Russia, di bambini allevati da orsi, lupi, gazzelle o altri animali. L’Enfant sauvage è il titolo di un film del 1969 che François Truffaut ha dedicato proprio a questo caso.
Non sapremo mai dov’era per te
il luogo della parola madre,
quanti capezzoli contava, il timbro
dei suoni, del fiato trasmesso.
Un segreto che respinge: dove avevi preso
il latte, il calore per l’infanzia
dentro quel bosco che ti ha restituito
e i colori rimasti incollati all’iride
come un passaporto. Ti apparteneva
una pace, il posto dove riconoscerti,
dove stare era giustificato.
***
Come ascoltare? Quali vibrazioni
dei muscoli sul viso leggere?
Non c’è stato modo di educarti alle sillabe,
i primi anni pesavano troppo
e la voce sgretolata veniva dal vento
da quei rumori di foglie e animali
che noi avremmo dovuto imparare.
Ti hanno lavato per lavare
un mondo dalla pelle.
Le mani sapevano tracciare le linee
di un cervo su una pietra?
Forse hai preso la nostra strada,
soltanto in un tempo già consumato;
scelta diversa, involontaria, nudo
dai vestiti e dall’ipocrisia.
***
DNA umano allo stato brado: profilo,
lunghezza delle dita, tutto quanto
per dire l’imbarazzo di una provenienza
là nel fondo di tutti.
Ma chi ci ha lavorato? Chi ti ha dato
quelle grida, il modo di curvare la schiena
di sbucciare una castagna?
Rimbalzano fratelli sparsi nel tempo
dentro terre di lupi
e gazzelle, le loro sembianze.
Fratelli un po’ anche noi, nei giorni
dei lumi, della ragione sovrapposta
agli istinti che ti muovevano.
***
Si sono stancati di misurare i gesti
(il tuo fiuto ancora trovava gli alberi)
di cercare le chiavi per una lingua
che fosse uno spiraglio dentro
uno specchio limpido di paura.
Ti hanno messo in basso, tenuto
da una luce revocata, le differenze marcate
il solco definito; ora capaci
della presunzione necessaria
a dimenticare.
Non sapremo mai dov’era per te
il luogo della parola madre.