Francesco Varano per Marco Colletti con «La Materia non esiste»
![]() La materia non esiste
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autori: | Marco Colletti |
formato: | Libro |
prezzo: | |
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Marco Colletti: LA MATERIA NON ESISTE, La vita felice, Milano, 2024
di Francesco Varano
Domenica 12 maggio, si è tenuta, presso la libreria Ubik, via dei Barbieri, la presentazione del libro: La Materia non Esiste,di Marco Colletti, con la partecipazione di un pubblico interessato e con la presenza di Cinzia Marulli, intervistatrice dell’autore, e anche della poeta Marina Petrillo,nel dare la propria voce ai testi, in modo esemplare, a volte anche insieme a quella dell’autore, e l’intervento di Silvio Raffo, poeta e critico. Mentre andavo, pensavo a due libri, quello di Marco e quello del filosofo: Byung-Chul Han, La società senza dolore, in cui si dice apertamente che le nostre società occidentali hanno bandito il dolore dalle nostre vite, insieme all’idea della morte, facendoli diventare un tabù, per creare delle esistenze sempre prone al benessere individuale materiale, come vuole fare il neo-capitalismo che riduce la vita di ognuno alla efficienza produttiva, e non è un caso se ha anche sostituito il termine Resistenza con resilienza, come forma di mantenimento e di efficienza individuale per la produzione; contemporaneamente, mi ricordavo di parti di La Materia non esiste, in cui l’autore riflette, al contrario, sulla fragilità della materia, su i suoi vuoti, sulla smaterializzazione, sulla dissoluzione, sui paesaggi della solitudine, soprattutto quella che si crea tra il proprio sguardo e l’impossibilità di vedere il proprio corpo, soprattutto nella poesia “faccio appello alla stravaganza”, di pag. 28, in cui volendo, si possono trovare echi e riferimenti della filosofia francese.
“…Che importa dove,
magari è dovunque, ma sempre
dentro, in questo corpo che gli occhi
sono condannati a non vedere,
noi strani animali creati alla cecità
interiore. Pura imperfezione
di un atto divino. Svista o intento?”
Marco Colletti con questi versi mette in evidenza un dolore umano comune, e non solo individuale, e in altri coglie elementi che gli consentono di superare l’algofobia, e durante l’incontro nella nota biobibliografica, introdotta da Cinzia Marulli, Lui parla della sofferenza del bullismo giovanile subito. Sempre nella stessa poesia all’inizio infatti si può leggere:
“Faccio appello alla stravaganza,
Vostro Onore. Che mi è costato
tanto essere come sono, gli abiti
accesi, il corpo impeccabile,
l’agognato riscatto dal bullismo
giovanile. Ma urlano le risa, la satira
nelle occhiate, il parlottio agli angoli
della strada che mi attendeva,
la costante colpevolezza di essere
un essere errato, nel poker di spietati
giocatori, in cui ho sempre perso
o forse mai giocato.”
Queste coraggiose dichiarazioni di dolore individuale, che caratterizza una stagione di vita, sono già presenti dall’inizio, e dopo le ritroviamo come asserzioni dell’alternanza di essere e nulla, che le cose siano e non siano, e più in là che lo spazio e il tempo non esistano, che si riducano, che si assottiglino; che si dissolvano, e data la frase riportata in esergo che si ripresentano come sogno. Il soggetto poetico sceglie questo partito preso delle cose, tenendo presente anche una concezione generale scientifica, basata sulla probabilità, sulle onde di probabilità, per cui, come “automi” si è soggetti a un processo di “autodistruzione”, come riportato in “Siamo macchine complesse”, di pag . 105.
“ Siamo macchine complesse,
gli effimeri automi di Dio,
corpispirito dell’imprevedibile
autodistruzione. Asserviamo
nel creato all’inutilità delle stagioni,
allo stanco ripetersi dell’invenzione
del tempo.” (pag.105)
Se lo specchio avesse un’ala
“…E’ il nulla che avanza? Quello
degli atomi che hanno il vuoto
dentro, che ci regalano la materia
leggera e non come appare.”
Però mi sembra che non ci sia una conciliazione con la naturalità degli eventi dell’universo e l’io, come nel pensiero classico degli scritti morali di Epicuro.
Tuttavia si tratta di percezioni già consolidate, nascenti in un <
Negli anni di un canto mi prese
“…Tutto svanì ed io confuso,
nella vita che diventò esistenza
e poi nulla e il vuoto. Ora c’è
cenere intorno ai miei occhi
e lacrime antiche, solcando ferite.
Il grigio che mi resta eppure
ha un caldo sapore, delle cose amate
oltre l’Amore, dell’ultimo appiglio
a chi sono stato. Ed ecco che
cieco rivedo un bagliore.” (pag.65)
La costruzione delle poesie è intensa, per il significato, per la versificazione, per le “visioni”, per il dialogo intrecciato indirettamente con la poesia: come quella di Campana, o direttamente come quella di Montale e Ungaretti, con un orientamento alla Calvino, in cui si intreccia l’umanistico e lo scientifico, oppure riferimenti diretti a testi di riflessione scientifica, come quelli di Rovelli o di Tonelli, insomma la presenza di un laboratorio avvincente, che coinvolge, e ci interroga, creando un “evento” tra libro e lettore. La serata della presentazione se vuole essere stata un incontro di “tenuta a battesimo” del primo libro di Marco Colletti, sono contento di avervi partecipato e di aver cominciato a conoscere i suoi testi appassionanti. Perché i testi stessi e i temi sono entusiasmanti dalla prima alla terza sezione, e su essi si può riflettere, a cominciare dalla prima domanda posta da Cinzia Marulli all’autore, sul rapporto tra vita e arte, che lui stesso identifica con una “visione” della realtà, cioé con una sua trasfigurazione, che comporta al dire di Marco un essere al di fuori della metrica, per poter conseguire una conoscenza infinita, tramite il linguaggio poetico, probabilmente quello che ubbidisce a delle regole sue interne, condizionate dal tempo della crisi della metafisica e del soggetto, e infatti alla sua riflessione si accompagna la lettura di:
“Ho costruito questa gabbia dorata
di parole perché tutti possiate
vederle, prima di ascoltarle. Voci
che hanno occhi e guardano occhi
inaspettati, nella eco del silenzio,
che sinistra gorgheggia di visioni
della vita che ha dentro tante vite”
…
Questa forma della “visione, nel discorso di Silvio Raffo, diviene una delle parole chiave su cui insiste, quella della “visionarietà” nella poesia del Nostro Marco, in cui comunicare il dolore e anche gli squarci della luce. A questo proposito, la poesia letta, con voce sicura e convinta da Marina Petrillo, suona come annuncio di riflessione su questo rapporto, che tiene in equilibrio la vita:
“ Non ho più parole per descrivere
il frammento che sento in ogni luogo
mi trovi. Volti e le loro voci che
si sfaldano come pagliuzze aguzze,
i vetri infranti e le mille schegge
aleggiare come velenose libellule.
C’è un nitore elegante in tutto
questo e forse un dono. Perché
non a tutti è dato di vedere la realtà
così com’è, con la sua potenza
caotica con cui Dio l’ha creata.
La tracotanza di volerlo ordinare
questo creato immenso, quasi
a voler contare le gocce di tutti
gli oceani e dargli un nome.”
…
Agli “squarci della luce” si aggiunga dunque, la ricerca di “un nitore elegante in tutto/
questo e forse un dono”, e personalmente credo che la poesia, letta anche allora, Io sono l’ascensore, che sale, sia come un’immagine, che allarga le braccia per compiere un gesto di luce, accogliere continuamente gli ospiti con gentilezza e cordialità, anche nella monotonia della quotidianità; essa, la poesia così pensata si rivolge all’esterno dell’io, al mondo del noi, della comunità. Nel percorso poetico ecco il dolore trasformarsi nella caratteristica di questa bellezza. Tema determinante e importante del libro.
“Io sono l’ascensore , che sale,
scende, sale e a volte s’inceppa.
Ospito gente, ma non tocco mai
i gradini.”
…
Mi piacerebbe concludere questa prima riflessione sul libro, pensando a una delle prime poesie del noi, quella dedicata alla madre, alla sua morte, alla luce che da essa promana, nonostante tutto, al primo rapporto io-tu, alla morte che viene sempre prematura. Annelisa Alleva così scrive nella prefazione: “Andiamo adesso a una delle prime poesie, bellissima, della raccolta: quella dedicata a sua madre, alla sua scomparsa, da lui rappresentata con il volo di un lenzuolo di lino steso ad asciugare sul terrazzo, che, strappato dal vento durante un uragano, vola via e scompare piano piano alla vista.
“Mi sarei amputato tutto il corpo
…
Tutto
diventa distante ed io da me
stesso. Un lenzuolo steso al sole
all’improvviso vola nudo nell’uragano,
le mollette strappate dal vento,
il filo spezzato. Gli altri panni
restano immobili a guardare.
Quel fantasma di lino è lontano,
sempre più piccolo, e scompare.”
Ah, caro Marco, in chiusura, mi piacerebbe aprire un forma di dialogo, che se ci fosse stato tempo durante la presentazione, l’avrei fatto anche allora. Riflettendo su un paragrafo dell’opera maggiore di Schopenhauer,- notando che ci sono spunti, che potrebbero riguardare alcuni contenuti del tuo libro – dato che Lui dice che il soggetto, cioé l’uomo pensante, è gettato nel rapporto continuo con gli eventi, cioé cose e accadimenti, ed egli li percepisce come oggetti non messi a fuoco, essi cioé si danno come rappresentazione, e in questa rappresentazione consiste il rapporto tra il soggetto e il mondo: esso non è menzogna, illusione, né verità, né errore. In questa univocità il filosofo citando Pindaro dice che l’uomo è il sogno di un’ombra, o Calderon De la Barca, per cui la vita stessa è sogno, – individuando la rappresentazione con il sogno – tu dici di propendere che tutto è sogno di fronte a un tutto di materia, vorrei allora domandarti se per esempio sei arrivato alla tua affermazione seguendo il paragrafo cinque di Schopenhauer, o se ti ritrovi in esso. In tal caso avresti dalla tua uno dei grandi filosofi. Ah, Marco, vorrei continuare anche dopo una immediata, prima lettura del libro, con il domandarti se il dolore psicogeno potrebbe essere espressione di parole sepolte, rimosse; tu pensi in sostanza che la poesia possa essere una omeopatia della vita? Inoltre, rispetto al fatto che nella nostra società, il dolore è reificato, nel senso che abbia perso il suo significato, potrebbe per te essere considerato in progress come un atto emancipatorio? Ti dico questo e concludo: Walter Benjamin, in “Piacere e Dolore” dice che “Di tutte le sensazioni del corpo solo il dolore rappresenta una sorta di inesauribile corso d’acqua che porta al mare”. Cioé il fiume come un elemento che avvicina all’umanità. Ecco, attraverso il tuo libro ci si rende conto di essere più vicini alla sensibilità umana.