G. Cerrai su Santoro
![]() Sulla strada per Leobschütz
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autori: | Daniele Santoro |
formato: | Libro |
prezzo: | |
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G. Cerrai (Blog Imperfetta Ellisse) su Santoro
Daniele Santoro - Sulla strada per Leobschütz - La vita felice 2012
Frammenti di Shoah che Daniele Santoro mette in versi, a partire da fatti, ricordi, documenti, come si evince da note e bibliografia. L'idea di fondo del libro è dunque questa, un libro di programma quindi, senza voler togliere nulla alla forte spinta etica di Daniele o forse alla necessità di ricostituire una memoria o una identità.
L'affermazione di Adorno, secondo cui "scrivere una poesia dopo Auschwitz è barbaro e ciò avvelena anche la stessa consapevolezza del perché è divenuto impossibile scrivere oggi poesie" è arcinota. Sappiamo peraltro che in seguito Adorno ci ripensò su, precisando che semmai era meglio affermare che "non ci si può più immaginare un’arte serena" e non credo che a tutti sia perfettamente chiaro il suo pieno significato. Sappiamo che più volte detta affermazione è stata comunque confutata dalla letteratura stessa. Sappiamo anche che la sopraffazione del dolore, il tentativo di dire l'indicibile, narrare l'inimmaginabile si è tradotta in difficoltà del dire (e forse di gettare uno sguardo nell'abisso), in un linguaggio spezzato e oscuro come quello che Primo Levi (pur amandolo) "rimproverava" a Paul Celan, quando diceva di "pensare all'oscurità della [sua] poetica come ad un pre-uccidersi, a un non- voler- essere, ad una fuga dal mondo", o ancora a "un riflesso dell'oscurità del destino suo e della sua generazione".
Dunque, si può parlare ancora di quella immane tragedia? Santoro, classe 1972, ha affrontato la questione. Si chiede il prefatore, Giuseppe Conte: ci si può documentare per scrivere versi? Lui si risponde di sì (e parla di sfida). Io invece non lo so, o almeno credo che non basti, altrimenti potremmo aspettarci da uno dei tanti liceali che ogni anno salgono sui treni della Memoria che li portano a visitare Auschwitz o Mauthausen, a parte una auspicabile nuova consapevolezza, qualcosa di più di un buon tema. Ovvero, c'è un nesso tra esperienza cognitiva e fatto artistico? Il filtro può essere meramente culturale? Fino a che punto la cognizione del dolore può essere mutuata prima di poterne trarre a buon titolo un oggetto poetico? Credo che il punto sia questo, o almeno uno dei punti. Cioè l'empatia dell'autore, il fare sua la tragedia, anzi di più, cercare di capire (e far capire al lettore) le ragioni di una personale scelta, da quale profondità essa provenga. Per capire cosa intendo forse potremmo rileggere cosa scrissi brevemente a proposito di "Lettera da Praga" di Francesco Marotta (v. QUI)
E' proprio questa "lontananza", se così si può dire, che permette a Santoro di affrontare la Storia in maniera postmoderna: il linguaggio viene chiarificato, reso colloquiale, a tratti "modernizzato", l'indicibile viene "detto" (e gli eventi ricomposti) per frammenti, come una registrazione, l'autore rinuncia a una epica del dolore, tiene a bada - credo volutamente - sia l'elegia sia l'emotività lirica (tranne che in alcuni testi che preferisco, oltre alla secca ma dantesca La distribuzione del pane) ovvero quei tratti che più consentono quella carica affettiva e empatica a cui alludevo, quegli elementi di trasfigurazione del dato di realtà che coinvolgono e contaminano sia autore che lettore, ne mettono in moto la capacità di percepire quello che non sanno, nemmeno se lo hanno studiato. Eppure è proprio questa "freddezza" che alla fine di questo libro che si legge velocemente potrà lasciare il gelo evocativo di una tragedia su cui non sarà mai possibile dire l'ultima parola, scrivere l'ultima poesia.