G. Linguaglossa: due autori a confronto - B. Brunini e V. Schiavoni
![]() Ombra di vita
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autori: | Bruno Brunini |
formato: | Libro |
prezzo: | |
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Giorgio Linguaglossa
DUE AUTORI A CONFRONTO:
BRUNO BRUNINI E VANNI SCHIAVONI
Bruno Brunini Ombra di vita La Vita Felice, Milano, 2012
Vanni Schiavoni Guscio di noce LietoColle, Faloppio,2012
Si dice che oggi la scrittura (anche quella poetica) è rotta, spezzata, frammentata, dis-locata etc.; si dice che la velocità del mondo induce la scrittura ad essere sempre più veloce, elettrica, galvanica, instabile, emotiva, sentimentale, elegiaca (dalla Tamaro a Moccia, dalla Patrizia Cavalli a Mariangela Gualtieri); si dice che la contemporaneità appiattisce sia il romanzo che la poesia perché appiattisce la prospettiva mediante la imposizione di un eterno e coesteso presente; si dice che la scrittura paratattica ed emotiva è imperante e onnipervasiva a discapito di quella ipotattica e riflessiva; si dice che oggi scrivere un romanzo o una poesia è diventata una cosa che più facile non si può…
Il risultato è che tutti scrivono romanzi e poesie. È diventata una vera alluvione che nessuno può più fermare.
Per chi si scrive (oggi) poesia? Mi correggo: perché (oggi) si scrive in poesia? La domanda è meno banale di quanto appaia a prima vista. Non è una inversione sintattica è una invasione semantica che qui ha luogo; ma il semantico è sempre preceduto da processi sociali, visibili o invisibili. Direi che il semantico segue sempre i processi sociali in atto. Il fatto che la più privata e appartata delle attività letterarie, quale la poesia sia scritta da milioni di persone, sia rimasta una questione, appunto, «privata» e non sia riuscita a bucare il coperchio di ciò che appartiene al «pubblico», è uno spunto di riflessione che non deve essere sottaciuto. Secondo i parametri correnti di scrittura poetica oggi in vigore presso le giovani generazioni ho l’impressione che la scrittura poetica sia quel genere di produzione di artefatti che meglio soddisfa le esigenze di conservazione e di riconoscibilità dell’«io», e inoltre, il manufatto poesia ha il vantaggio di essere diventato una specie di attività affine al contro spionaggio, ci si sente affiliati a una sorta di carboneria, una attività misteriosa e sotterranea, una sub specie di malattia endemica, capillare e diffusa. Rispetto alla chiacchiera imbonitoria che dilaga dalle televisioni ai giornali e invade la nostra vita quotidiana, la scrittura poetica sembrerebbe avere il vantaggio di una sorta di immunità parlamentare che la proteggerebbe. Indubbiamente, c’è una fetta non irrilevante di acculturati che adotta un linguaggio simil-poetico, intendendo con questa espressione qualcosa di simile a un linguaggio esclusivo, personale, a metà tra il linguaggio di tutti i giorni e il linguaggio di tutti. Paradossalmente, più il peso delle scuole e delle tradizioni si è diventato nel frattempo quasi invisibile, più la caratterizzazione stilistico-semantica delle singole individualità tende invece a diventare simile a una scuola o a una religione senza religio e il correlativo linguaggio poetico tende a privilegiare il personale e il privato. O meglio, ciò che il comune sentire pensa che sia il personale e il privato.
L’indicatore espressivo-personale diventa il segnale semaforico della emotività messa a nudo, mai di un concetto o di una macro metafora, semplicemente: non ci sono metafore: si scrive a quel modo perché una pulsione insondabile spinge a farlo. Si vuole comunicare qualcosa ma è qualcosa di impreciso e indeciso: l’oggetto sfugge perché l’io esperiente si scopre, come dire, povero di esperienze; il soggetto sfugge perché le esperienze vive e significative esperite sono simili in tutti gli esseri umani, e quindi generiche, non individualizzate. Manca il medium per eccellenza: il linguaggio, o meglio: l’omogeneizzazione propria del linguaggio poetico. Ciò che è dirimente non è più una concezione del linguaggio ma una concezione dell’«essere». Si ha l’impressione che si scriva in ordine sparso: si scrive oggi soprattutto perché si sente una spinta insopprimibile dall’interno: il resto si vedrà.
In tal senso nel libro di Bruno Brunini c’è tutto il repertorio delle tematizzazioni del colloquiale (l’io e il tu, la memoria, l’intimità, il paesaggio del quotidiano etc.) con un linguaggio che sta al di qua della tematizzazione dell’occasione; è interamente comunicativo perché interamente comprensibile e condivisibile. Ci sono delle felici escursioni alternate a intermezzi o eccessivamente realistici o eccessivamente rammemoranti, ci sono anche ottimi inizi:
Esco sul balcone
e l’edera non c’è,
se non mi chiami più per le scale
salgo lo stesso
e resto
accanto agli oggetti della tua camera,
solo per pensare che ci sei ancora…
che però di frequente non hanno uno sviluppo all’altezza degli incipit: Brunini spesso comincia bene ma poi perde il bandolo della matassa, la composizione finisce quasi sempre in elegismi, non ha ancora esperito l’arte di interrompere la composizione, di deviare, di variare, di stonare, di steccare, di suonare il clacson e gli strumenti a percussione… ma ha il senso del nitore della lingua e delle misure argomentative. Ed è già molto.
Del libro del romano Vanni Schiavoni direi che è positivo quel suo voler uscire dalle remore dei linguaggi collaudati, l’autore va nel mare aperto del parlato narrativo, non fa differenze tra il parlato in poesia e il parlato in prosa, l’unica differenza è nell’accentuazione debolmente tonica e nell’a capo (debole) che tende a sostenere la claudicante attenzione del lettore. Ha scritto recentemente Claudio Magris: «il romanzo può essere narrato soltanto in un modo rotto, spezzato, agglutinante, e disperso... È troppo facile, in un romanzo, dire di un personaggio che è triste; occorre far sentire la sua tristezza, dichiararla, nel modo in cui si accende una sigaretta o guarda fuori dalla finestre». Ecco, io ritengo che accada la stessa cosa anche in poesia. In una poesia devi dire le cose non in modo diretto come si fa quando si scrive una e-mail all’amico, ma devi dirle in modo indiretto o finto-diretto, per far capire al lettore quel particolare stato d’animo o idea che vuoi comunicare. In questo senso Vanni Schiavoni è sulla strada giusta, impiega frasari indiretti mascherati da diretti, impiega anche metafore laddove il testo le richieda, usa collanti, chiodi, scotch sui dislivelli dei materiali verbali. Ecco, direi che il problema è proprio qui: nel saper applicare lo scotch sui dislivelli verbali senza pretendere di nasconderli e senza arrendersi alla oro evidenza.