G. Linguaglossa su Santoro
![]() Sulla strada per Leobschütz
|
|
autori: | Daniele Santoro |
formato: | Libro |
prezzo: | |
vai alla scheda » |
Recensione a firma Giorgio Linguaglossa pubblicata su Moltinpoesia con numerosi interventi e commenti dei lettori
Daniele Santoro
Da "Sulla strada per Leobschütz"
con una nota di Giorgio Linguaglossa
Daniele Santoro Sulla strada per Leobschütz, La Vita Felice, Milano, 2012
* Giorgio Linguaglossa
Se l’intendimento è apocalittico, il tono e lo stile del lessico impiegato è quello basso del linguaggio del quotidiano, o meglio, della cronaca, ma è la terza persona che parla, una voce fuori campo perché soltanto dal di fuori è possibile l’orrore del racconto dell’olocausto (con la «o» minuscola), soltanto restando di fuori, dall’al di là di una separazione, di una frattura che separa l’Oggi da Ieri. Se l’intendimento è apocalittico, dicevo, la semantica invece appartiene alla «povertà» delle parole. Le parole degli apologhi di questo libro sono «indigenti». Non v’è accelerazione dello zoom, non v’è fotomontaggio dell’orrore, non ci sono parole «intelligenti» quanto una quieta investigazione di ciò che si è manifestato nel corso della Storia. Così, il discorso poetico di Daniele Santoro continua la sua investigazione della cronaca della Storia, della Storia ridotta a cronaca, quel «discorso sulla verità» iniziato con l’opera di esordio Diario del disertore alle Termopili (Nuova Frontiera, 2006) per tentare di andare a fondo, nel fondo, in quel «muddy centre» come lo chiama Wallace Stevens, in quel punto dove non c’è un «prima» che legittima con la sua presenza un «dopo»; non c’è un mito che legittima con la sua presenza un dopo. Santoro si affida alla sola altezza delle parole «povere»; se il tono complessivo è apocalittico si tratta qui di un discorso riflesso sull’apocalisse prosaica, piana, calcolata e programmata dai solerti burocrati dell’assassinio e dello sterminio di massa della Germania nazista. Come ciò sia potuto accadere resta un mistero, come la cultura abbia potuto sopportare l’orrore di un tale mis-fatto, resta un mistero, e come si sia potuto continuare a scrivere poesia dopo un tale orrore resta un altro mistero. E già la scelta dell’autore di sopprimere ogni accenno ai superlativi, ai sensazionalisti, alle intensificazioni semantiche è un segnale inequivoco della sua scelta di campo; il suo registro ora è collocato nella narrazione e nella descrizione, perché la descrizione, essa sola, permette la dis-chiusura della ri-velazione. Ma c’è una rivelazione?, sembra chiedersi Santoro, c’è qualcosa di ragguagliabile alla rivelazione? Ovviamente, l’autore si guarda bene dal peritarsi di porre questa domanda in modo palese, ma la domanda serpeggia in ogni pagina del libro ed è una domanda che non ha ancora una risposta. L’unica risposta possibile e plausibile l’autore la dà con il suo registro timbrico e fonico, con il suo lessico sobrio e spoglio: la povertà della parola usata dall’autore fa parte della ricchezza di un mondo compossibile ma, purtroppo, non sta alla poesia occuparsi del futuro progressivo o compossibile e Santoro rigetta ogni intonazione che lasci trasparire una speranza, ma non perché la speranza non ci sia quanto perché non è di questo mondo, del mondo della Storia, del mondo di tutti i giorni.
Il poeta è per Santoro realista e patetico insieme. Realista perché egli incontra così il reale, patetico perché il conoscere il mondo si svolge su un registro patico. La poesia è per Santoro un atto che trasforma il mondo, che si muove nel tempo e nella Storia, e questa esperienza di trasformazione è una finzione per eccellenza ma non finzione che opera soltanto sul linguaggio poetico, non solo, ma finzione che opera nella Storia, quello spazio che si apre tra ethos e pathos, che il linguaggio poetico adotta per mimesi. Il verso e il metro delle composizioni afferiscono al carattere geometrico del «male», un ordine architetturale presiede l’organizzazione scientifica dell’orrore, e la poesia che voglia raffigurare un tale mis-fatto non può che riprodurre, come in una memoria interna, il medesimo ordine architettonico; la memoria ritmico-timbrica trapassa nei testi e si risolve nella violazione delle regole che presiedono alla formazione musicale del verso, alla rima, alla organizzazione fonico-timbrica. Se la rima, come è stato detto, è la memoria della «gioia», il libro di Santoro riflette e sancisce l’assenza della «gioia» e la sua conversione in afflizione, afflizione della povertà dello Spirito hegeliano della Storia. Il verso libero di Santoro è appunto questo: l’esatta misura della afflizione; l’abito narrativo del verso libero scopre così la propria illibertà da quel dominio che ha creato l’orrore. Così, il verso libero di Santoro si scopre affatto libero, anzi, si scopre complice di quell’orrore che voleva rappresentare. Santoro scopre così che non c’è nulla di più rappresentabile dell’orrore accaduto. Il poeta salernitano si è documentato, in calce il libro riporta i riferimenti bibliografici dei fatti presi ad oggetto delle poesie, come per verificare i riferimenti storici e fornire al lettore l’assicurazione che quel che si è scritto appartiene veramente all’accaduto, all’orrore e non è un atto di privata «finzione» o di «immaginazione»: il verso povero, prosaico e ordinario per raffigurare un «reale» povero, prosaico e ordinario. L’impiego del tono ironico è qui da intendere come un tentativo di autodifesa dall’orrore, comprensibile a livello psicologico.