G. Mobili per R. Pacilio
![]() Gli imperfetti sono gente bizzarra
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autori: | Rita Pacilio |
formato: | Libro |
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Rita Pacilio, Gli imperfetti sono gente bizzarra (LVF, 2012)
Si guadagnano, dantescamente, le stelle, dopo aver ultimato il viaggio allucinante attraverso Gli imperfetti sono gente bizzarra di Rita Pacilio, smilza ma densissima silloge poetica orbitante attorno ai degenti di un ospedale psichiatrico. Urge in prima istanza affermare che l’approccio espressionistico adottato per quest’impresa (ardua e zeppa di trappole) mi pare l’unico adeguato all’argomento - voglio dire l’unico eticamente legittimo, il solo che eviti sia lo sguardo “clinico”, sia quello, forse ancora peggiore, di commiserante paternalismo.
Un chiaro patto di onestà è suggellato nel momento in cui l’autrice stessa (voce poetica, certo, ma qui anche e soprattutto corpo), acceduta alla dimensione tormentata del degente, lascia che essa si riversi sul suo mondo, elettrizzandone, isterizzandone i contorni. Munita di un poderoso arsenale metaforico, Rita Pacilio procede ad esplodere la dicotomia tra realtà psichica e realtà “esteriore”, illuminando proprio la porosità e fragilità di quella frontiera, mettendone in discussione la presunta nitidezza.
Questa non è, diciamolo subito, una registrazione “medica” della malattia, con la sua presunzione di obiettività panottico-tecnocratica (è necessario citare Foucault? Lo fa già, implicitamente, l’autrice, parcellizzando il corpo dei pazienti-reclusi in altrettanti ginocchi, spalle, fronti, labbri, colli: membra tristi che hanno smarrito un progetto comune). La lingua di Rita Pacilio (essa stessa ricorrente/insistente nel testo come “pezzo di carne”: forse il pound of flesh da pagare all’entrata di questo viaggio nel cuore nero della nostra alterità?) non “registra”, non “documenta”: piuttosto, si mette in gioco, calandosi nella malattia e rendendovisi vulnerabile, provocando (ma anche subendo) infiammazioni analogiche e sinestetiche attraverso un universo zoomorfo di oggetti “irritabili” (suscettibili, come materia umana, a essere sedotti, violati, feriti) che si fa controcanto urgente a una condizione di emergenza psichica. Le piogge hanno “occhi”, gli odori “cadono”, i camici “camminano”, le strade sono “malate”.
In questa discesa agli Inferi, il Virgilio di Rita Pacilio è certo l’Urlo di Munch, concentrato visivo/auditivo dell’angoscia di esistere, e alluso direttamente nella prima poesia della raccolta: l’“urlo muto”. Ma vi si trova anche l’influenza ben assimilata del Volponi allucinato di Memoriale e Corporale, insuperati sunti della dissociazione del soggetto nella ferocia disumanizzante della società contemporanea.
E c’è già tutto in nuce nello stupendo incipit della raccolta (Si increspa il lago di Nemi): lo zoomorfismo (il lago s’increspa “doloroso” e “morde” le nuvole), l’annuncio di un viaggio faticoso (bisogna arrivare in cima a questo nuovo Zauberberg - un altro “sanatorio”), l’affanno, l’inquietudine, il problema pressante del “contatto”. E anche, a ben vedere, il primo suggerimento di un trauma sessuale, espresso con un’ambiguità che denuncia la conturbante vicinanza del reale (nel senso lacaniano): “ragazze di colore nude a metà”. Quale metà?
Qualcosa di simile, si ricorderà, accade nel Deserto rosso di Antonioni, nella sequenza dell’isola narrata da Monica Vitti: la ragazzina (“di colore”) sulla spiaggia, a un certo punto, si toglie il top. Pochi secondi dopo, nella sequenza successiva, il top è di nuovo al suo posto. Ma la voce narrante della Vitti ha ignorato completamente l’accaduto: una dissincronia tra parola e immagine che rende visibile, precisamente, la dimensione del trauma.
Se il mio uomo ha mani blu è forse, nella raccolta di Rita Pacilio, il testo più notevole per densità semantica, e pure per la condensazione di quell’ambiguo leitmotiv erotico che pulsa più o meno sotterraneo per tutto il libro. Un altro tema prominente è quello circense, coi reclusi organizzati in uno struggente e spietato (nel senso in cui la vera pietà dev’essere spietata) carrozzone di freaks in cui non si fa troppa fatica a riconoscere, senza nulla togliere alla specificità delle condizioni qui trattate, una sineddoche per la condizione umana in toto.
Da questo scontro con il trauma infinito dell’essere umani (non siamo forse, nel verso forse più acuminato dell’intera raccolta, “costole che non erano previste”?), si emerge spossati, ma più consapevoli: come da un autentico incontro con la verità.
Giorgio Mobili