G. Montanari per G. Busetto
![]() La pelle o la devozione all'anima
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autori: | Gianmarco Busetto |
formato: | Libro |
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Gianmarco Busetto
LA PELLE O LA DEVOZIONE ALL'ANIMA
Ed. La Vita Felice, marzo 2013
Tutto lascerebbe pensare che, in La pelle o la devozione all'anima, Busetto attore e regista teatrale porti in scena la parola. Due atti. Due personaggi. La pelle e l'anima, per l'appunto. Monologhi e voci (off) di ritorno. L'immancabile accompagnamento musicale alle sue performances: rapsodie, requiem, canti, canzoni, crescendo. E invece no, non si recita qui. Tanto meno a soggetto. I versi non sono successioni svelte di immagini da declamare con voce calda e avvolgente. Come ci si aspetterebbe. Ma pennellate, sì pennellate su tele intessute di vita. Poesie talmente dense di materia da poterci quasi affondare le dita dentro. Paesaggi e figure stagliati su sfondi accesi da tre colori ricorrenti, stendhaliani: il bianco, il rosso, il nero. Ecco allora perché tanta neve, tanto sangue, tanto buio. L'inverno, la carne, la notte. Che sono poi le nuances delle stagioni e degli elementi. Ecco allora perché tanta primavera, tanta acqua, tanto autunno, tanta terra, tanto cielo, tanto inverno. Ma soprattutto fuoco, estate e ancora fuoco. Busetto tiene in mano il pennello dell'anima e dipinge sulla pelle. E lo fa con devozione alla parola-tratto.
Il repertorio del poeta-pittore è vasto, copre l'intera gamma dell'umano, la tavolozza del divenire. Nel mondo di dentro e in quello di fuori c'è guerra e allora Busetto dipinge inevitabili battaglie, memori di Leonardo, Delacroix e Géricault. Che si tratti di "battaglie per i forti" o di "guerre per gli idioti", non possono che mietere vittime. Metafore di campi di battaglia, la pelle e l'anima accolgono le ferite, superficiali o profonde, sempre trofei di dura e bella sofferenza. Il poeta non assiste ma partecipa alla tauromachia in atto nell'arena dell'esistenza, si sente egli stesso toro, un giorno vittima, un giorno carnefice. Scrive con le tinte forti, chiaroscurali di Goya e Picasso.
Gianmarco disegna con maestria la tensione tra cielo e terra che anima chi è vero artista. Il poeta è uomo di questo nostro mondo fatto di carne e bocche, vino e sangue. E lo dice subito, senza mezzi termini: "io sono qui,... / io sarò sempre qui/ io sono dove poggio i piedi/ in questo preciso istante". È una dichiarazione d'amore all'essere, per il momento, solo e fortemente terreni. Senza rassegnazione ma con tutta la tenerezza e l'accondiscendenza per i limiti e gli errori insiti nel nostro corredo genetico. Dovremmo accettare il suo consiglio da amico a godere dell'istante, per non farne inutile, passeggero starnuto. Poi, si vedrà cosa riservano l'altrove, l'eco. Menzogna? No, questo non lo pensa con convinzione Gianmarco. Persino quando si definisce "minuscola tenebra di bugia che/ corre il rischio di credersi sole". C'è in lui la speranza che tiene in vita. Lo anima il desiderio di dare una mano a un dio sghembo e malconcio perché torni a fare quei miracoli smessi ormai da tempo. Dice basta agli inganni delle promesse, alle convenzioni religiose, sempre meno convincenti, che stanno ammazzando il divino, riducendolo a santino da portafoglio. Ritorna insistente la preghiera che non nasce da una fede trita, forse delusa, ma dall'irrinunciabile bisogno di trovare il senso. Che stia in un amplesso pianto, consumato da bestie, o in un riflesso di stella. “Ora qui io prego che/ malgrado tutto esista.” Non è la morte a far paura, ma morire solo, senza lasciare una traccia. Qui c’è una fede smisurata nella parola e nel suo potere taumaturgico. Quella di Gianmarco è una lecita crociata per conquistare attraverso la poesia e il vivere il significato ultimo. La jihad di un moderno templare che intinge la spada nel sangue in nome del cielo. Ma non dimentica la carne, mai. Carne che va nutrita perché lei possa, a sua volta, nutrire lo spirito. A suon d’amore e di carezze, di cibo e d’arte, di sussurri e bestemmie. Standosene comodamente seduti alla tavola della Grande Bouffe di Ferreri, davanti al Bue di Soutine, spalancato, che pare gridarci “Ehi, non lo avete ancora capito? La pulizia dell’anima passa attraverso la sporcizia della pelle!”
A suon d’amore, si diceva. Certo, ma non quello plateale, che si manifesta al momento giusto quando la relazione lo richiede. L’amore, che funge da filo rosso che cuce pelle e anima, è spesso amore postumo, col senno di poi, amore che si sveglia nell’assenza. E vive di attese e di ritorni.
Intanto, mentre aspetta, il poeta se ne va a zonzo per Parigi. Non sembra neanche abitare la sua laguna ma l’ardesia dei tetti di Lutezia. Si lascia trascinare dentro la notte di Céline, la sua anima beve pastis paglierino e ascolta Jacques Brel, mentre le gambe corrono sulle spiagge di Biarritz. Allora è forse la Francia, così presente, la sua seconda pelle, la sua seconda anima?
La pelle o la devozione all’anima è un viaggio fisico e mentale, dalle prigioni nere di Piranesi ai cieli bianchi di Chagall, passando per il rosso incendiario della vita su terra. Ci vuole verità ed onestà da parte di chi scrive e di chi legge per intraprendere questo cammino. Tenendo presente che la pelle e l’anima non sono superfici nemiche: una veste il cuore, l’altra lo abita. Entrambe benedette.
Confermo. Non sono poesie da recitare. Se non a se stessi.
Gabriella Montanari