Giorgio Linguaglossa per Marco Colletti con «La Materia non esiste»
![]() La materia non esiste
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autori: | Marco Colletti |
formato: | Libro |
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Marco Colletti, La materia non esiste, La Vita Felice, pp. 128, € 12, 2024, Lettura di Giorgio Linguaglossa, Il poeta romano impiega il linguaggio forse più inadeguato del nostro tempo, quello della poesia, in senso largo, della poiesis, che parla della crisi in cui viviamo con la lingua della crisi
Marco Colletti compie minuscoli gesti linguistici per liberarsi dalla tirannia della poesia apofantica, sposta lo sguardo dall’oggetto del pensiero all’analisi e alla indagine dei presupposti del pensiero tout court, piega l’interrogare su se stesso. Il principio logico fondamentale, il principio di non contraddizione non è negato ma limitato e ricondotto al suo luogo d’origine, e così il determinato (la parola) scopre di essere un indeterminato (la non-parola). L’indagine del poeta predilige l’ambito delle in-determinazioni dell’io, di ciò che non si è ancora sedimentato, il valore di tutto ciò che è in incognito: gli stati d’animo, le tonalità emotive, le angosce del quotidiano, il sublime, i gesti incompiuti che scompaiono, un sorriso che scompare… Sono parole «ondulatorie», «intermittenti» queste del poeta romano, ma ruotano pur sempre attorno all’epicentro dell’io; la voce non è impostata al centro del petto ed esce acrilica, im-provvida mentre stride. La «voce» dei poeti italiani delle ultime generazioni sembra posizionata nella glottide, esce sempre in falsetto, a metà tra la glossa e l’inciso, tra Atene e Gerusalemme; ormai è lontano il magistero del secondo Montale per il quale l’isoglossa ubiquitaria delle parole smargiasse è un lontano ricordo, adesso, nel post-moderno, le parole fuoriescono da un tubo di dentifricio in un connubio indecente che sa di argumentum, da dottor sottile. È questa la differenza tra il linguaggio del secondo Montale e quella dei poeti delle generazioni ultime i quali si vedono sottratti finanche la materia del linguaggio in quanto quel linguaggio è in realtà reificato. Infatti, Colletti fa uno sgarbo a Montale:
Meriggiare pallido e assorto, / presso un rovente muro morto
L’attenzione del poeta romano verte su quanto è «prima» dell’atto della parola, sul «prima» che la stessa parola presuppone, e sul «poi», su ciò che segue. La dislocazione dello sguardo si sposta dal contenuto del «dire», del logos, all’itinerario del logos. Questo tragitto porta Marco Colletti a scorgere il profilo di quel continente nascosto che Vico chiamò ingens sylva, l’indeterminato, ciò che appare non concluso e non definito. Siamo a ridosso di quella problematica, l’angoscia, di Sein und Zeit di Heidegger, che agli inizi del novecento apre l’EsserCi alla consapevolezza della «possibilità dell’impossibilità dell’esistenza in generale».
I poeti, come ha scritto Adam Zagajevski, spesso dimorano in una strettoia «tra Atene e Gerusalemme», «tra la verità mai pienamente raggiungibile e il bello, tra il pensiero e l’ispirazione». «Tale viaggio – continua Zagajevski – può essere descritto nel modo migliore con un concetto preso in prestito da Platone – metaxy: essere “tra, tra la nostra terra, il nostro ambiente ben noto (tale almeno lo riteniamo), concreto, materiale, e la trascendenza, il mistero. Metaxy definisce la situazione dell’uomo quale essere che si trova irrimediabilmente “a metà strada”». Metaxy, deriva dal platonico métechein, che significa «prender parte», «mezzo dove gli opposti trovano mediazione».
Io parafraserei così la frase di Zagajewski: la poesia dimora fra Atene e Hong Kong, fa parte del mondo, è un ente che sta, heideggerianamente, tra Cielo e Terra, un equilibrio precario che la poesia deve reinventare ad ogni passo. La poesia quindi è un ente che sta “tra”; questo suo essere tra due mondi è la sua ragione di esistenza e la sua quintessenza. Ogni civiltà produce la sua propria forma-poesia, che è necessariamente diversa da quella del passato. Il «frammento» è il modo con cui da Eliot in poi la poesia fabbrica questo ponte interrotto.
Cito Roberto Bertoldo a proposito del suo concetto di «surrazionalismo»: «La poesia resta una creazione oltre la ragione e la realtà, però passa nel corpo dell’autore, attraverso di esse. La ragione che va oltre la ragione assume in sé quegli “integratori emotivi” che la qualificano. Il surrazionalismo è questa ragione che ‘risolve’ la contraddizione nell’emozione»
(R.B. Nullismo e letteratura, p. 251 Mimesis).
Convengo con il fatto che la poesia di oggi non può che essere «surrazionale», perché si ciba di integratori emotivi e cognitivi. È un artefatto non im-prevedibile, non è dato a-priori e neanche a-posteriori, non è distinguibile dal kitsch, e neanche dal sublime.
Marco Colletti impiega il linguaggio forse più inadeguato del nostro tempo, quello della poesia, in senso largo, della poiesis, che parla della crisi in cui viviamo con la lingua della crisi. Ma quale linguaggio se tutto è in crisi? E qui sorge il problema: come scorgere l’orizzonte della crisi con le parole stesse della crisi?, non si nasconde qui una evidente aporia?
Due parole sul Tagebuch (diario)
- Il genere prescelto è il Tagebuch, il diario (narrativo e poetico), il luogo nel quale vengono appuntati i pensieri del giorno, ciò che pone all’“Io” il compito etico di rispondere all’ordine del giorno mediante dei pensieri che rispondono ad una situazione attuale di incertezza e di pericolo.
- Se sapere è porre in luce significati a partire da presupposti che restano in ombra, scrivere un diario poetico sull’io è non sapere ciò di cui si scrive, un tentativo di inoltrarsi tra le ombre dei significati che sono essi stessi nell’ombra e quindi che non possono essere condotti alla piena luce dell’evidenza. Il diario è propriamente questo, un tentativo di gesticolare nell’ombra dei significati ossificati, un tentativo di compiere dei gesti che aprano degli spazi nei significati in ombra.
- Scrivere un diario poetico sull’io è, letteralmente, storiografare se stessi mentre si procede nella scrittura. Scrivere è osservare. Si tratta perciò di mettere a tema il problema della collocazione ontologica dell’osservatore il quale sembra essere al di qua della pagina mentre invece è sempre al di là, nel pieno della luce dei significati già dati, ovvero, oscurati. Ed è questa l’aporia del diario poetico, la sua finzione è la sua funzione, il voler dare ad intendere che chi scrive è l’osservatore che osserva la scena, mentre invece è un intruso, un ospite nel teatro dell’esistenza, un ospite che fa parte dell’esistenza che scorre ma che non può vedere dall’esterno come il teatro vorrebbe dare ad intendere. E l’io si scopre privo di una platea, deiettato nel linguaggio.
- Il pensiero poetante si fa costellazione di parole, indagine, pensiero (poetante) che s’indirizza a ciò che si manifesta, a ciò che si dà come oggetto di conoscenza, ovvero ai significati, ma che nello stesso tempo ne rievoca anche la provenienza; ma i significati si danno in presenza a partire da un’assenza, da uno sfondo che va a fondo. Rievocare la provenienza non significa rendere presente ciò che è assente ma anche revocarla, portare a manifestazione ciò che, come tale, non si manifesta, ma che esplicita l’attuare un mutamento dello sguardo, una diplopia: vedere ciò che si mostra come ciò che è in presenza, ma guardarlo, in un certo senso, anche dal lato dell’assenza, vederne il limite interno.
Che cosa dunque rievoca (e revoca) il pensiero poetante? Esso «rammemora» l’Evento, e così lo revoca, lo falsifica. Rievoca quella zona d’ombra che è l’accadere stesso della luce; l’andare a fondo in quanto far emergere qualcosa non al fine di gettare luce sull’ombra e cancellarla in quanto ombra, ma al fine di «sospendere» la cogenza dei significati.
Si tratta di mostrare che quei significati che vengono alla presenza non sono verità assolute nel senso di ab-solutum (sciolto, libero dal contesto), ma appartengono sempre a una cornice, figure che appaiono in primo piano a partire da una condizione che, subito, retrocede sullo sfondo. Rammemorando questa condizione, i significati vengono «storicizzati», mostrati nel loro limite, ossia nella loro contingenza storicamente determinata e nella loro dipendenza da un orizzonte.
Heidegger ha ragione quando afferma che il corpo umano è affatto diverso da tutte le altre cose del mondo perché è un corpo, cioè il corpo di un soggetto che dice di sé di essere un “Io”, e di conseguenza di avere un corpo.
Homo sapiens è questa separatezza. E come l’umano è separato dal suo stesso corpo così è separato dalle cose e dal mondo. L’ecologia non risolve questa frattura interna all’umanità dell’umano, può al più mitigarne e dilazionarne gli effetti e gli affetti. L’ecologia è una oncologia. Gli effetti dell’io sono i suoi affetti. Heidegger parte da questa constatazione antropologica, parte dagli affetti (la cura del Sé). Si tratta ora di capire fino a che punto, questo strano vivente che è l’EsserCi, che nega il proprio stesso essere corpo, che è questa stessa negazione, può spingersi verso il mondo delle cose, fra cui c’è anche il ‘proprio’ stesso corpo che gli è estraneo quanto una galassia distante miliardi di anni luce.
La poesia del novecento, da Pessoa ai giorni nostri, scopre l’“Io”, scopre una galassia dentro l’“Io”, questa complessità inestricabile fatta di tempo, di spazio, di micro eventi; caratteristica della poesia dell’io è il pensiero riflettente che pensa intimamente il reale, e il diario è la cronografia di questo singolare pensiero riflettente.
È anche vero che c’è una istanza dell’io che chiede di entrare nel mondo del senso e del significato, che spinge per entrarvi. L’esistenza non si nutre solo di oggetti, non è solo fatta della sostanza del godimento, del carattere acefalo della pulsione, ma esige di entrare nell’ordine del senso e del significato. Il genere del diario poetico è questa procedura di accensione del senso e del significato; senza questo accesso, l’esistenza si disumanizza, resta vita biologica, ricade nell’ombra.
(Giorgio Linguaglossa)
Marco Colletti vive e lavora a Roma. Laureatosi in Lettere all’Università degli Studi di Roma “La Sapienza” (con la tesi L’immaginario affetti – vo nelle Familiares del Petrarca, Relatore Prof. A. Asor Rosa), si occupa da sempre di poesia, critica letteraria, con approccio erme-neutico-antropologico, e di arte contempora nea in qualità di curatore e artista digitale. Le sue opere digitali sono poesie visive e le sue poesie visioni. Organizza eventi e convegni letterari ed è redattore della rivista “Forma-fluens International Literary Magazine”. Suoi contributi critici sono presenti anche nelle riviste “Laboratori Poesia” e “Il Mangiaparole». È art director e illustratore per aziende e case editrici internazionali nel settore dell’illustra zione per l’infanzia.
Io sono l’ascensore, che sale,
scende, sale e a volte s’inceppa.
Ospito gente, ma non tocco mai
i gradini. E soprattutto non so
cosa c’è oltre il portone del mio
palazzo. Non arrivo al piano
del terrazzo e non vedo mai
il cielo. L’aria è limitata, a volte
sa di profumi borghesi, ma
anche di sacchetti d’immondizia.
Le grate sono quelle dei confessionali
o delle finestrelle nei conventi
di clausura. Ma c’è lui a ricordarmi
chi sono, sempre lo stesso specchio
verticale. La mia figura è intera
e mi risponde che sono incastonato
in un parallelepipedo che attraversa
lo spazio grazie a un gioco di funi.
*
Oggi ho scritto tanto e stanco.
Ne apprezzo il dolore di fronte
a oggetti amati, che, sbagliando,
incastonano la mia vita come
una collana di versi. Sono stanco
del riposo. Io sono il topo nella
ruota a cui Qualcosa ha spento
la cinesi. È laddove la volontà
cessa il suo cammino, perché
il bivio e il quadrivio la fanno
indistinta. È laddove la scelta
consuma le ruote sulle mille
strade aperte da quel Qualcosa.
Che forse vuol dire solo qualsiasi
cosa, qualsiasi onda, gemito d’aria
o l’urlo di una rosa impazzita.
Affacciandomi percorro quel
giardino che grida, forse vedendo
o forse cieco. Gli occhi cavati
dalle qualsiasi cose, quelle aguzze
e affilate come una frusta chiodata,
che storpiano adesso l’umana
presunzione dell’intelligenza
*
La vita è una serie televisiva
di genere horror. Per questo
non la guardo. Nato bendato
alla materia, agli spigoli aguzzi
del reale, volava la mente
alla rinuncia di giorno in giorno,
lepidottero cromatico contro
il quotidiano bianco e nero.
Forse più solo nero.
Nel mio recinto di colori vado
spendendo le trenta monete
della vita. Quanto costa quel
tradimento da pagare
per sopravvivere, per vivere sopra
quel buio che mangia il profumo
di una tuberosa e l’oro dei narcisi.
C’era solo distacco e dolore,
in un’infanzia allagata
dalle risucchianti maree,
che rimanevano dentro
le vivide conchiglie, avide
a rubare la voce del mare.
Di tutto quel frastuono il conforto
di un sibilo, incastonato
tra le pieghe madreperlacee,
le iridescenze effimere
del Prisma primordiale.
*
Ieri notte mi è capitato di sognare
il vuoto e l’ho abbracciato come
un’anima volata in cielo. Nel silenzio
ne abbiamo parlato di quel viaggio
chiamato giorno, di quel treno che
non ho mai preso e che aspetto,
disoccupato doganiere.
Oggi, nella siepe dei pensieri
ho trovato una scaglia di vetro
e le ho dato nome realtà.
*
La vita è una serie televisiva
di genere horror. Per questo
non la guardo. Nato bendato
alla materia, agli spigoli aguzzi
del reale, volava la mente
alla rinuncia di giorno in giorno,
lepidottero cromatico contro
il quotidiano bianco e nero.
Forse più solo nero.
Nel mio recinto di colori vado
spendendo le trenta monete
della vita. Quanto costa quel
tradimento da pagare
per sopravvivere, per vivere sopra
quel buio che mangia il profumo
di una tuberosa e l’oro dei narcisi.
C’era solo distacco e dolore,
in un’infanzia allagata
dalle risucchianti maree,
che rimanevano dentro
le vivide conchiglie, avide
a rubare la voce del mare.
Di tutto quel frastuono il conforto
di un sibilo, incastonato
tra le pieghe madreperlacee,
le iridescenze effimere
del Prisma primordiale.
*
Il mio canto resterà silente,
tra le onde balenanti delle avide
parole. Le onde abbandonate
alla bufera dell’esistente,
dei loro gorghi di convinzioni,
al divino disincanto. Tremano
le dita spoglie nell’autunno
come rami, umide di scrittura
intagliata sulle cortecce. I nomi,
i cuori e le frecce che cercano vita,
lo spazio di arrivare agli altri
nel pensiero. Vagano nel disoriente
le campane accese come fiamme,
il giallo oro che non trafiggerà
che sguardi assenti e corpi stanchi
di trascinarsi lenti. Quel tornado
che appare, ma non visto,
che non lacerati lascia uomini
e case, mentre tutto intatto muore.
*
Le ragioni della poesia
Nella poesia non c’è ragione.
Come nella vita non c’è ragione
di esistere. Chiunque la voglia
trovare non vi entrerà mai. Ma
rimarrà sempre a citofonare
fuori da un cancello, a cercare
chiavi, a implorare un guardiano
per passare. Intravedere, tra
le sbarre orlate, quell’interno
sfocato da raggi e pulviscoli
e solo immaginare.
A dire il vero c’è chi tra quelle
sbarre si fa sottile, come nella
metafora dell’ago e del cammello,
e riesce a passare. Si perderà
però e questo è il suo prezzo.
Senza cercare sarà sempre
un trovare, smarriti e stupiti
da rami snodati, mari e montagne,
da ciò che abbiamo dentro, non
importa se anche dentro l’altro.
È l’Eden mai perduto. Ognuno
che costruisce la sua nuova
poesia in quella di un altro.
Eco e Narciso: il triste amore
tra la voce e lo specchio,
il corpo che si discioglie
in parola e il corpo che annega
nella limpidezza dello stagno.
Lo stagno che quelle stesse parole
hanno prefigurato. Tra me e voi.