Giorgio Mobili per Rossano Pestarino
06.05.2015
![]() Lingua che non so
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autori: | Rossano Pestarino |
formato: | Libro |
prezzo: | |
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Rossano PESTARINO, Lingua che non so, La Vita Felice, Milano 2014
In questa sua seconda raccolta, Rossano Pestarino, poco più che quarantenne, riesce in un’impresa di cui pochi altri si possono fregiare: si esprime con la voce di un poeta che ha il doppio dei suoi anni. È la voce tersa ed equanime di chi si è collocato aldilà delle cose umane; posizione da cui non si può parlare che con una gioia fredda, temperata al fuoco di quattordici stazioni della disperazione, e raffreddata nelle acque del non ritorno («Non c’è traccia, / comunque, di un ritorno», p. 49). Per giudicare un poeta vivo, intimava T.S. Eliot, you must set him among the dead: per Pestarino, il poeta deve già lui stesso immaginarsi morto in vita; e la sua poesia, postuma. Se nella raccolta precedente (e sua opera prima), Lune d’Honan (Manni, 2012), Pestarino ritagliava all’io poetante un ruolo defilato, al limite dell’evaporazione, da cui osservare lo spendersi quotidiano dei gesti e delle cose, in Lingua che non so, il poeta, ridotto a voce scorporata, occupa una postazione di impossibile adiacenza a un cosmo postumano, in cui ogni soggetto è in preda a un’irreversibile afanisi («sparivano, i profili, / le mani», p. 9).
La fantasia sveviana di una terra esplosa che come nebulosa «errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie» si trova qui del tutto compiuta. Lingua che non so si apre, infatti, fantascientificamente, su un’umanità liquidata da un ultimo, definitivo parassita («Si è diffuso un morbo, un germe strano / ... ha prosciugato / una a una le vene / di ogni carne», p. 9)
Il “germe strano” è responsabile di una vera e propria dissipatio humani generis, per cui un universale raddensamento fa sì che l’astratto si rapprenda nel concreto, e che il soggetto, sclerotizzato in un corps morcelé, si appalesi solo in periodiche apparizioni di disiecta membra: «dita scheletriche» (p. 15), «occhi vetrificati» (p. 34).
L’immagine del taglio (talvolta concomitante, biblicamente, a quella della mano: «offri la mano al taglio», p. 19) ricorre in una moltitudine di oggetti affilati (ghigliottina, scimitarra, lama, compasso, cuspide, trapano...). Un rasoio di Occam è passato sul mondo, e ne ha operato l’ultima escissione: quella dell’uomo coi suoi gesti e le sue gesta, declassati al «loglio nero» della storia (p. 57). Il nuovo cosmo (reminiscente di quello “irritabile” dell’ultimo Volponi) è una dimensione fluida e volatile che fa smottare i rapporti tra le cose, dinamitando in primis la dicotomia cartesiana tra res cogitans ed extensa, nella misura in cui la prima si verte e caglia nella seconda («I vecchi masticano / parole verdi, filamentose, amare» p. 46). Eppure, i dualismi sopravvivono: perché finché si scrive, si è ben vivi. E dunque, scatti di desiderio ascensionale, convogliati da epifanie di luce e verticalità, vengono ostinatamente a interrompere il rassodamento entropico del paesaggio, spesso con l’assertività di una visione paradisiaca: «scale altissime come croci» (p. 46), «colonne alte e snelle» (p. 57), «il moto vertiginoso delle ali» (p. 58). E poi i tetti, il cielo, i palazzi, e bottiglie ammonticchiate: tutti parte della stessa tensione ascendente, come se il creato, depurato dell’uomo e dei suoi presami, fosse ormai libero di assurgere alla perfezione che sempre fu nelle sue corde.
Il dualismo, inevitabile nei vivi, è il segno inequivocabile che il desiderio persiste, e con esso la lingua, il suo motore. È il paradosso di ogni fantasia del cupio dissolvi, ben presente all’autore, che vi gioca rianimando con ironica perizia una lingua che dovrebbe essere morta, ma che invece è ben viva; una lingua classicheggiante che si avvale degli istituti metrici tradizionali, ma con le necessarie sprezzature: perché questi istituti sono sempre-già abitati dal dissolutorio spettro pascoliano, e basta prestarvi orecchio per avvertirne il destabilizzante basso continuo: quello di una lingua che ci “sa”, ma che noi non arriviamo mai, davvero, a sapere. Dedicarci a saperla è l’impresa infinita di una vita, un’impresa che d’altra parte ci corrode, ci fa altro da noi, ci rende un po’ morti in vita. Ci porta dall’altra parte.
(Giorgio Mobili)