Giorgio Poli per Adua Biagioli Spadi
![]() L'alba dei papaveri
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autori: | Adua Biagioli Spadi |
formato: | Libro |
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Adua Biagioli L'alba dei papaveri, La vita Felice, Milano, 2015
Essendo questa l'opera prima di una poetessa non più giovanissima si è autorizzati a considerarla il bilancio della propria attività poetica ma al contempo anche il bilancio della vita sin qui vissuta. Una rapida scorsa all'indice ci dice che qui sono stati raccolti 69 testi; non sono certamente pochi e già questo numero ci dice qualcosa sulla tenuta scrittoria come sulla ricchezza della vita interiore dell'autrice. Si potrebbe discettare se sarebbe stato opportuno strutturare diversamente il libro, che so?, articolarlo in sezioni contenenti testi tematicamente affini o cronologicamente vicini. Invece queste 69 poesie sono state messe tutte sullo stesso piano (preciso che la mia è una constatazione non la segnalazione di un limite) pure provviste di un proprio titolo che ne sottolinea l'autonomia, con ciò stesso incrinando la possibilità di stabilire convergenze e omogeneità che un'operazione critica degna di questo nome deve pur rinvenire. Un'opera di questo spessore quantitativo, ma anche qualitativo come vedremo, si apre ad un ampio ventaglio di percorsi critici, di attraversamenti del testo (ad es. ruolo e peso della memoria, le città e i luoghi del cuore, l'attesa e l'assenza, ecc.). Ogni lettore critico dovrà scegliere la strada a lui più congeniale.e io ovviamente ho scelto la mia.partendo dalla copertina. Biagioli, oltre al bellissimo titolo, forte di una vivacità coloristica su cui ritornerò più avanti, ci fornisce un sottotitolo (poesie d'amore e identità) che non dobbiamo sottovalutare ma, al contrario, mettere bene a fuoco. Allora dico che le parole “amore” e “identità” contenute nel paratesto sono il Leitmotiv, la chiave con cui aprire la porta del macrotesto; esse ci spianano la strada per arrivare al cuore del libro e ritengo che senza forzature possano essere considerate un'endiadi (figura consistente nell'esprimere un concetto unitario attraverso due termini coordinati: nel caso di specie: identità amorosa. E questo dice già tanto!). Ma analizziamoli uno alla volta. Primo sostantivo (“amore”). Per tanti versi o, meglio, per i tanti versi, quella di Biagioli è una poesia innamorata. L'io poetante – uso questa espressione per rimarcare la pur minima distanza dalla persona fisica dell'autrice dei versi: una distanza che esiste anche se si fa di tutto per annullarla con la parola “identità” (come a dire: attenzione: qui mi ritroverete tutta, quasi psicologicamente nuda, senza maschere di sorta) – l'io poetante, dicevo, è portatore di una straordinaria carica d'amore che, appunto perchè eccessiva, è destinata a restare inappagata. Il fraseggio amoroso è caratterizzato da una calda affettuosità con rare punte di erotismo esplicito o magari delegato. Per dare un'idea di questa poesia innamorata ricorro ad un'essenziale campionatura. Sul piano della definizione si veda Scintilla, p.73: “L'amore è una scintilla infinita/dove tu ancora non arrivi/e io già tutta la possiedo”; sul piano della analogia (Le aquile, p.68: “...le aquile vere/.../catturano vette e ci fanno l'amore,/il viver loro è sempre di più/del mio fragile tremante volo”); infine su quello della fenomenologia (Delle tue radici, p.37). Mi spingo addirittura a dire che solo uno sguardo femminile come il suo poteva essere capace di tanta delicatezza di accenti. Essa ha per oggetto una figura maschile che si individua tramite l'allocuzione a un “tu” amato, ora vicino ora lontano, ma lo spazio testuale è interamente dominato da un Io che non cela fragilità e dubbi ma che si fa forte proprio di questo. La poesia innamorata si estende ovviamente al mondo della natura sulla quale l'io posa uno sguardo incantato per cui il consueto diventa meraviglioso, il comune straordinario. Se scienza e tecnica tendono a manipolare la natura, i poeti in genere ce la restituiscono intatta, magari anche più bella, proprio come fa l'autrice in forza dell'evidenza di immagini vivide, colorite nella stessa misura in cui sono colorate.
Sono convinto, ovviamente sulla scorta di autorevoli critici, che l'inizio e il finale di un'opera letteraria siano decisivi per ricavare importanti suggerimenti in ordine al suo senso globale. Del primo verso qualcuno ha detto che, come il primo amore, non si scorda mai. Qualcun altro (P.Valery) che il primo verso è un dono degli dei, mentre gli altri sono a carico del poeta di turno. Ma qui ci si riferisce al primo verso di un testo di lunga durata: un poema o almeno un poemetto e ognuno di noi ricorda benissimo l'attacco dell'Iliade nella versione del Monti, o quello della Divina Commedia o del Furioso dell'Ariosto e via discorrendo. Ma quando si ha a che fare come qui con una raccolta di poesie il discorso va riformulato: è la prima poesia o l'ultima che possono dirci qualcosa di importante se non decisivo. Nell'Alba dei papaveri le ultime due poesie dedicate alla madre e al padre sono evidentemente un omaggio parentale, un tributo affettivo non utilizzabile per l'operazione di cui sopra. Ma il primo testo è di tutta un'altra stoffa. (Rosso, p.11). Questa è una straordinaria e degnissima poesia proemiale, fornita di una bellezza abbagliante e di una chiarezza quasi cristallina. A mio avviso è la poesia che non solo apre la strada alle altre ma che in qualche modo le alimenta col suo fuoco ardente (ad es. in Sguardo fra le stelle, p.58, della vita si dice che è “un roseto acceso.. /che sfavilla e muta”), col suo empito travolgente. Qui ogni parola appare giusta, necessaria, quindi convincente a partire da quel “Mi affaccio” iniziale, seguito da “nel rosso rubino/del rosso”. Non sfuggano la novità e la potenza della dizione: si colloca in primo piano una figura della ripetizione (con valore intensificante) che contiene pure una variatio grammaticale (infatti il primo “rosso” è agg. puro mentre il secondo (il colore) è agg.sost.). Quando ci si accinge ad accostarsi ai misteri e ai segreti del nostro cuore (il “rosso rubino”) si rischia di essere accecati dalla potenza dei sentimenti e delle passioni trasposte nel fulgore della pietra più rossa esistente in natura, dunque occorre cautela e prudenza che quell'affaccio restituisce come meglio non potevasi. Poi, l'io poetante perde l'equilibrio, precipita nel “lago di porpora”, chiedendo di bruciare nella sua fiamma perchè ogni altra modalità sarebbe l'insensato spegnersi di una vita soffocata. “Colore del fuoco e del sangue, il rosso è per molti popoli il primo colore, perchè è il più strettamente legato al principio della vita. Ma vi sono due tipi di rosso: uno notturno, femminile, che ha un potere centripeto di attrazione, l'altro diurno, maschile centrifugo, turbinoso come un sole” (cito dall'importante Dizionario dei simboli della Rizzoli). Non si può nutrire alcun dubbio sul tipo di rosso prediletto da Biagioli. L'altro pilastro si cui si regge, a mio avviso, la struttura del libro è la poesia eponima, quella che gli dà il titolo e che viene riproposta in quarta di copertina. Questa poesia è indubbiamente più densa perchè più connotata della poesia proemiale. Sono dodici versi, l'ultimo dei quali è staccato dai precedenti. E' un testo dal fascino indiscutibile per quel tono concentrato, affettuoso, ad avvisare il lettore che si sta aggirando nelle zone più segrete e inconfessate della psiche dell'io poetante, dalla quale emerge per frammenti qualche ricordo ma anche qualche esperienza rimossa. Bisogna affidarsi alla suggestione dei suoni e delle immagini che si orientano secondo la figura del climax (progressione di frasi in crescendo). Intanto nel primo verso spunta la luna senza la quale nella poesia biagioliana non si compie niente di importante dato che incarna la sua Stimmung malinconica. L'ultimo verso, staccato dalla strofa precedente, ripropone il titolo con una voce verbale (E') che suggerisce l'accadimento e con l'aggettivo apparentemente pleonastico “rossi”. L'aggiunta accentua l'immagine dilatandola oltre se stessa. Come non ritrovarvi un'eco, una reminiscenza cosciente o inconscia delle pascoliane “fragole rosse” di Il gelsomino notturno? (peraltro questo sintagma lo si trova pari pari a p.14). Personalmente avrei lasciato la preposizione articolata “dei” invece di trasformarla in “di”. Se qualcuno obiettassse che si tratta di un dato poco significativo, risponderei “Eh no! Qui è in gioco la differenza tra determinatezza e indeterminatezza. I vv. 10-11 sono semplicemente stupendi: quei “fiori avvinghiati” sono, a mio avviso, una proiezione identificativa, un esemplare di quell'erotismo delegato di cui ho parlato. Se i papaveri di Biagioli non sono quelli da cui si ricava l'oppio e poi l'oblio, ma gli umili fiori di campo cari a Demetra, dea delle messi e dei misteri eleusini, e simboleggianti il fuoco della passione amorosa, è trasparente l'allusione ad un giorno in cui si possa realizzare l'evento eccezionale, l'epifania dirompente. Insomma quella pienezza vitale che solo nell'amore trova la sua compiuta realizzazione. Ma come si può vedere, si ritorna nel campo semantico del rosso/fuoco/passione. Qui si ha a che fare con un'accensione specialissima: le memorie (della infanzia o della giovinezza) sono accese, e anche nel terz'ultimo verso compare un accendersi (quello del cielo). Si ha l'impressione di una vita incompiuta o incompleta (i due “quasi”), ma infine ecco la tanto a lungo attesa alba dei papaveri rossi, che prelude ad un nuovo inizio esistenziale. Qui, come peraltro altrove, i territori della memoria si rivelano contigui a quelli del sogno.
Se, come si è visto, il color rosso (legato al fuoco, al sangue, alla passione amorosa, al prediletto e umile fiore del papavero) appare l'elemento organizzativo, strutturante dell'intero libro, non per questo l'autrice trascura gli altri principi essenziale all'origine del Tutto, quelli che i greci chiamavano archài. L'aria (diciamo: cielo), l'acqua e la terra come suolo dove appoggiamo i piedi sono una presenza diffusa, capillare; una presenza talora singolare, talora collettiva come in L'assenza (p.13, dove, guarda caso, fanno capolino misteriose ma non troppo “rose infuocate”).
Sul piano linguistico appare sostanzialmente rispettoso della norma grammaticale. Segnalo come infrazione più marcata solo una certa predilezione per la sostantivazione di aggettivi, o participi che indubbiamente muta la percezione della realtà, volendo in questo modo dare sostanza, quindi rilievo, importanza, ad elementi che di per sé non l'avrebbero.
Concludendo: questa è un'opera prima di notevole maturità.
Giorgio POLI