Giovanni Turra in poesia (su L'EstroVerso)
![]() Con fatica dire fame
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autori: | Giovanni Turra |
formato: | Libro |
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Avrei desiderato dedicare i testi ordinati in Con fatica dire fame (Milano, La Vita Felice, 2014) a Philip Larkin, The Master of Ordinary (questo l’epiteto conferitogli da Derek Walcott). Anche io infatti, come il poeta inglese, invoco – inascoltato, beninteso – la musa della mediocrità, e mi riprometto di scrutare con crudezza, ma pietosamente, gli eventi capitali dei nostri spersonalizzanti destini personali: dal lavoro alla scopofilia, alla solitudine, alla noia.
La mia tensione letteraria è tutta qui: affondare coraggiosamente nella vischiosa opacità del quotidiano per distillare momenti di tenerezza (i rari punti di contatto delle nostre vite) e di lirismo autentico, con l’ambizione di tradurre alcune verità esistenziali nel linguaggio del senso comune.
In questo, la folla di necessari numi che mi tutelano include una vasta e vaga zona della poesia realistico-espressivista, che, dalle origini della nostra letteratura, potrebbe arrivare, infittendosi di nomi via via che si attraversa il Novecento, sino al feticismo laterizio di Umberto Fiori. Ma non posso tralasciare altre tradizioni che ho accostato negli ultimi anni, soprattutto quella inglese, di cui ho già evidenziato il mio campione, e quella americana, in primis William Carlos Williams: «No ideas but in things».
Ricostruita per sommi capi la mia linea ascendente, in antagonismo netto con tante poetiche ancora oggi in voga, tutte più o meno ermetiche, orfiche, neo-orfiche, neo-neo-avanguardistiche, faccio mia l’affermazione di Giovanni Giudici, secondo cui «il poeta è la più impoetica delle creature». Volendo pensare poeticamente in un’epoca da cui sono state bandite prima l’immediatezza della poesia e poi la poesia tout-court, il poeta non può che riconoscersi impoetico. Un po’ come, dopo l’annuncio della morte di Dio, l’uomo occidentale si dichiara ateo.
Mi preme subito chiarire che per me «impoetico» non appartiene al campo semantico di «insipiente», «inelegante» e simili; tutt’altro: rientra semmai in quello di «onesto». Citando Roland Barthes, chiamo «eleganza» la miglior economia possibile dei mezzi a disposizione: la poesia classica – e classici per me sono, ad esempio, Umberto Saba e Vittorio Sereni, entrambi «onesti» e, dunque, impoetici – assorbe l’uno nell’altro con eleganza il contenuto e la forma, non necessariamente armonizzandoli. Al contrario, certo modernismo (con cripticismi e simbolismi annessi) mi sembra ancora divaricato tra la forma da una parte (imperdonabilmente sciatta, specie fra i più giovani) e il contenuto dall’altra (il più delle volte attinto un po’ a caso).
La volontà di definire una poetica mi spinge anche a tracciare il mio orizzonte visibile e vivibile: dall’anonimo e scambiabile suburbio dell’hinterland mestrino di Planimetrie (Castel Maggiore, Book, 1998), allo spazio reale e immaginario di un condominio (meglio: un’insula) di Condòmini e figure (Poesia contemporanea, nono quaderno italiano, Milano, Marcos y Marcos, 2007), infine agli automi disarticolati “alla Depero” dell’ultimo libro. Ne deriva che il mio registro linguistico è assai poco connotato territorialmente (è una scelta che mi distingue dagli antichi sodali dell’«A27», Igor De Marchi e Sebastiano Gatto) e si avvale piuttosto, ma abbastanza di rado, di tecnicismi mutuati dall’edilizia. Semmai, s’incistano qua e là termini obsoleti e/o desueti (la vecchia storia del linguaggio pre- e postgrammaticale).
L’intento della mia scrittura è comunque quello di violare l’intimità domestica, inventando dei surrogati dell’unheimlich freudiano, la cui massima espressione è per me rappresentata da Odradek, l’esserino somigliante a un rocchetto piatto di filo a forma di stella che s’accampa nel racconto Il cruccio del padre di famiglia di Kafka.
L’attenzione portata al corpo giustifica, invece, l’attributo dato da qualcuno alla mia poesia: «sarcastica», il cui etimo, che mi piace interpretare, rimanda al verbo greco sarcazo, «stacco la carne dalle ossa»; un vilipendio che perpetro con la determinazione analitica del chirurgo, nulla concedendo alla contemplazione. Corpo e casa significano allora l’adozione di un punto di vista limitato, uno dei tanti possibili, e l’individuazione di una cornice precisa, al cui interno circoscrivere con esattezza il dominio di alcune esperienze. Senz’altro agiscono in questa direzione le suggestioni derivatemi dalla lettura di poeti quali gli ungheresi Attila Jòzsef e George Szirtes (quest’ultimo emigrò in Inghilterra nel 1956), il tedesco Durs Grünbein, l’italiana Anna Maria Carpi; e dalla lunga frequentazione delle pagine di Kereny, Jesi e Hillman.
Il rischio è rappresentato da un’inevitabile e parossistica autoreferenzialità, che io chiamo «autocannibalismo». Allora cerco di giocare d’ironia e di stornare l’attenzione del lettore altrove, con finali a sorpresa e voli pindarici, secondo la lezione divertita del Palazzeschi più anziano. Ed è, il Palazzeschi degli ultimi libri, il più impoetico tra i poeti che conosco, perché, con spudoratezza e candore, più di altri mette a nudo tutto se stesso.
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