Giuseppe Scaglione per Monia Gaita con «Non ho mai finto» su correlazioniblog
![]() Non ho mai finto
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autori: | Monia Gaita |
formato: | Libro |
prezzo: | |
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Dell’amore e di altre cose.
di Giuseppe Scaglione
Oggi mi va di scivolare dal cavallo delle nuvole,
mirare dritto al fianco delle case,
slegare la fanciulla che fui,
che ancora sono,
riconsegnarla al padre dei sambuchi.
Se si volessero individuare le parole più adatte a spiegare il senso della silloge Non ho mai finto (La vita felice, 2021), della poetessa campana Monia Gaita, occorrerebbe ricercarle in questi versi. Essi contengono la chiave per decodificare i profili poetici che l’autrice ha sviluppato per esprimere la propria visione del mondo.
Quella che propone lo sguardo della Gaita è una declinazione esistenziale fatta di battute d’arresto e ripartenze, di sconfitte e di rinascite, di sofferenza e di gioia. Ma soprattutto un alternarsi di algori ed emozioni. Il crepuscolo e la luce, in un afflato impressionista che genera immagini poetiche nitide, dentro le quali affida al colore dei giorni lo spirito e la materia. Il colore incide forme nella narrazione, la descrizione poetica ingloba la figura, ma la luce domina su ogni elemento, punto fermo sulle alterne vicende dell’anima e della sostanza fisica dell’esistere. Però sull’apparente mutevolezza della Storia, individuale e collettiva, l’autrice distende una weltanschauung che si traduce nella concezione di un andamento sinusale dell’esistenza. Fatta, come il battito cardiaco, dal succedersi di sistoli e diastoli, laddove le prime sono lo slancio, la ripartenza, la ricostruzione dopo il terremoto (che le drammatiche vicende della sua Irpinia abbiano segnato profondamente l’animo della poetessa è fuori discussione), le seconde la ronzante pausa in cui la vita tace, per dirla con Pasolini.
Ricapitolare il fatto, fissare il soffitto,
sentirsi stringere la gola per paura,
finire cancellato come un disegno di gesso
alla lavagna.
Come se fosse facile vivere
in questo odore di ammoniaca
del dare e dell’avere.
Come se fosse facile aprire le portiere
alla fatalità dell’universo
e retrocedere dove la cartilagine del senso
scoppia in fango.
Ora il concreto e l’allarme
dragano l’impostura,
diretti nello stesso alveo:
il gran silenzio delle cose
e la facciata riflessa d’un niente
nel canale.
E poi:
L’istante lascia vibrare
qualche rametto smosso
dal passato.
Non c’è un’ora precisa
perché il paniere che credemmo vuoto
si riempia all’improvviso
e rimaturi, orma priva di squarci,
lungo i vetri.
Perché:
La vita passa fra una lezione e l’altra,
un clandestino entrare negli sbagli
dalla porta posteriore,
uno schivare attivo e resistente
i dispiaceri.
Si accolgono le spoglie dei collassi
senza pianto,
si estraggono diverse scivolate
dalla valva,
si digerisce la rinuncia mista al vuoto,
bene o male.
La scrittura segue e asseconda il ritmo sinusale delle visioni, procedendo per sintagmi mutuati dalla koiné o indifferentemente da linguaggi gergali, quasi tecnici, alternati a parole liriche intagliate come diamanti. Una scrittura capace alternativamente di emozionare e sconcertare, risolvendosi in visioni che toccano profondamente l’animo del lettore. Insomma, una padronanza stilistica che permette all’autrice di restare arditamente in bilico sulla parola poetica, tra la vertigine e la catarsi. D’altronde la Gaita, apprezzata giornalista, è approdata da tempo alla poesia. Sue le sillogi Rimandi (Montedit,2000), Ferroluna (Montedit,2002), Chiave di volta (Montedit,2003), Puntasecca (Istituto Italiano Cultura Napoli,2006), Falsomagro (Editore Guida,2008), Moniaspina (L’Arca Felice,2010), Madre terra (Passigli, 2015) premiata allo Spoleto Art Festival 2016.
Ora, con Non ho mai finto, la parola poetica indaga sulle verità dell’esistenza e lo fa con un anelito di reductio ad unum dell’osservazione sulla realtà storica e l’esplorazione introspettiva. Anelito teso allo spasimo fino al punto di rottura in cui dilagano, o viceversa si nascondono, le passioni umane. Quando il linguaggio si fa lirico e si distende sopra ogni cosa il sentimento d’amore. Per la propria terra, per le persone che attraversano la vita, per la scrittura stessa. Un sentimento che atterra e suscita, avvince e impaurisce, ma colora di sé le trame dell’esistenza. Un sentimento intransitivo, che é in quanto deve essere, immanente e trascendente al tempo stesso e per questo capace di muovere verso la conoscenza del sé e permeare il pensiero. A volte – nella declinazione più passionale – si dispiega nei versi alludendo al senso dell’inespresso, del fiume di lava che scorre sotto la roccia gelata. O al senso di ciò che poteva essere e non è stato. Comunque è sempre una verità, nonché l’energia vitale che sostiene la sistole, la ripartenza.
Non ha particolare importanza, nella semantica dell’enunciato narrativo della Gaita, l’attribuzione di un’identità al tu o all’io poetico. La vera soggettivazione sembra infatti consumarsi nella sua scrittura, il cui valore fondante, se non anche allegorico, è ravvisabile in quella categoria barthesiana del “neutro” che decostruisce il senso delle antinomie. Tu e io, la materia e lo spirito, la terra e l’uomo sono concetti che si diluiscono attraverso il value del sentimento poetico che prorompe nelle sinestesie e nelle sineddochi di molti versi e componimenti. Comprendere tuttavia l’anelito di sintesi tra l’io storico e l’io antropologico che esprime la poetica di Monia Gaita è il presupposto necessario per capire l’orizzonte di idee in cui si colloca la sua visione del mondo. Che parte non soltanto dalla sua biografia ma soprattutto dalla sua poesia, rintracciando i nodi tematici che la percorrono. Procedendo in questo modo si potrà apprezzare la poetica di un io che, nascendo nel cuore e nella Storia, non sceglie la via della scrittura ma è condotto sulla via della scrittura dalla Storia stessa nonché da un ritmo di passioni e sentimenti che viene prima ancora della coscienza e genera la scrittura.
Le sezioni che compongono la silloge (Il ciclo del sentire, Confluenze, A colloquio coi luoghi) svolgono un percorso dialettico che richiama il “senso continuo della vita storica” che fu di Amelia Rosselli ma sembra sostanziarsi, più che nella necessità storica di partire dal presente e dal passato per guardare al futuro, nella comprensione del sé come esso è rapportato al sentimento. Sembra addirittura svolgersi una lotta tutta giocata sul terreno poetico, neutra e non funzionale poiché si sottrae alla padronanza del soggetto, e affiorano i termini di una riflessione introspettiva che confluisce in un umanesimo potente, capace di mettere in discussione se stesso e, assumendo il suo portato poetico, avviare una riflessione sull’opportunità di prenderne le distanze per rinegoziare la propria identità. A rischio di una stanchezza esistenziale, quasi di una resa alla complessa manifestazione della Storia e alle difficoltà della vita. In altri termini, come è stato spesso per le avanguardie poetiche del Novecento, la tentazione dell’indifferenza è nodale. Come è nodale la tentazione dell’epochè:
Il mattino cade,
come un insetto si posa sulla mano,
lascia nel cuore una collisa risonanza.
Trovo in natura quello che cercavo:
la nuvola arzilla
sul bordo di un ramo stagionato,
l’arte della convalescenza
a custodire il nucleo originario.
Resto fedele ai muri,
indistinguibile dal rosmarino
e dai papaveri dei campi.
Un’altra barca di stanchezza
viene tirata in secco sulla riva.
Qualche progetto sguazza dentro l’afa,
qualche altro,
mimetizzato fra i polmoni delle foglie,
torna a casa.
Ma queste tentazioni vengono dilavate nella diastole, nella chiamata a raccolta dei propri paradigmi esistenziali fondanti, nella mozione vitale che sgorga dal quotidiano, che la Gaita è capace di poeticizzare, e diluisce la disillusione rigenerando l’amore intransitivo:
Ci tocca sistemare
alcune tegole fuori posto,
rimpatriare i danni,
incunearci in un ulivo d’abitabile.
Insegna la storia
a non sentirci cancellati,
a non dilapidare la parola data.
Ed è fortuna
desumere la luce dalle foglie,
acclimatarsi al vento,
istituire un’adiacenza coi passanti.
Quando la gioia ti muore sulle labbra
come una parola,
devi nutrirti di quello che rimane
nel cestino,
difendere il “ti amo” che imparammo
in epoche remote,
ruotare attorno al fulcro dei viventi,
continuare.
E così il verso sa farsi visione che contribuisce a spalancare le porte del paesaggio emotivo, facendolo penetrare tra sguardi e riflessi, tessuti e situazioni. E anche al lettore è dato di catturare l’istante, di sfidare il tempo eliminando ogni distanza tra la realtà e la sua libera interpretazione. È un gioco poetico che rompe la superficie della percezione, scende nel profondo e, fatto di riflessi e allegorie, trova gli strati più profondi dell’anima. Da lontano giunge l’eco delle parole di Anaïs Nin, forse il migliore commento che si possa fare a questa silloge: Ci sono abissi in cui la maggior parte degli esseri umani non osa scendere. Sono gli inferni della nostra vita istintiva, il viaggio nei nostri incubi necessario per rinascere.