Il Mito quotidiano nel mondo poetico di Vittorino Curci, articolo di Giuseppe Scaglione
![]() Poesie (2020-1997)
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autori: | Vittorino Curci |
formato: | Libro |
prezzo: | |
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santi e giostrai del calendario,
grumi ghiacciati in campo aperto.
resta il sangue della terra
anche dopo.
è così che uno cerca, sfigurato,
tra rocce lunari e crepe di asfalto
vita, non tradirci proprio ora.
sei poco, a volte,
e non basti. te ne stai nel chiasso
di qui, dove siamo contenti
del pochissimo che abbiamo
con te, l’angelo dei tócchi
Sono versi che Vittorino Curci include nel volume Poesie (La vita felice, 2021), un’antologia personale che seleziona e ripropone le tappe di un lungo percorso poetico. Tuttavia la scelta di proporsi con un’opera antologica, di soffermarsi a riflettere sul proprio cammino, di riassumere, non deve trarre in inganno. Non è il momento per Vittorino, ma forse non lo sarà mai, di cristallizzare la parola poetica dentro un percorso compiuto. D’altronde di questo assunto ne fa anche esatta corrispondenza il polimorfismo strutturale della versificazione che – come ampiamente denota la raccolta – ricomprende modelli di scrittura anche piuttosto differenti tra loro. Una pluralità articolata di schemi sintattici, di diverse musicalità, di varie scelte ritmiche nella successione dei sintagmi. Pluralità che pur se da un lato segue una linea evolutiva coerente, dall’altro esprime l’impossibilità, per Curci, di considerare l’idea stessa di Poesia come di un qualcosa che abbia a che fare col senso del definito: anzi dal punto di vista formale la costante è data dalla continua ricerca dell’innovazione stilistica, dalla progressiva e sistematica decostruzione e rielaborazione di significato dei lessemi e dei segni d’interpunzione, dalla originale capacità del verso di sorprendere. Se questo è vero sul versante del linguaggio, lo è ancor di più per il tono poetico, per le visioni capaci di reinterpretare in un looping senza fine i paradigmi esistenziali dell’individuo storico e dell’individuo antropologico. Con la pulsione alla sintesi tra questi paradigmi, – come ci spiegano tanti altri suoi versi, anche ricompresi nell’antologia come per esempio la poesia Canone dei proverbi – pulsione che risolve nel senso del Mito, altra costante della sua poetica:
la sera delle case è quieta per chi va
nei libri a cercare i suoi segreti. tra bottiglie
vuote e uno zampillare di foglie
inginocchiamoci davanti al possibile
del pane muffito non chiedere al forno.
la luce smemorata di una seconda estate
svaria da un presagio all’altro.
ma noi non siamo i figli illegittimi del secolo
Nei versi di questi due componimenti è forse racchiuso il lemma del codice comunicativo dell’autore, teso alla continua ricerca dell’universale, che consiste in un perimetro di “realtà pura”. L’espressione di questo perimetro può essere però ostacolata da marcate componenti soggettive, o dalla rappresentazione di dettagli descrittivi. Per superare questa possibile difficoltà, Curci articola una versificazione in grado di risalire agli archetipi, di trattare il mistero dell’esistenza con una parola poetica spiazzante, surrealista o finanche a volte metafisica, che genera nel lettore quella unheimlich freudiana di cui è capace solo la grande Poesia. Ma al tempo stesso, accanto alla prospettiva perturbante o forse proprio in ragione di questa, il mondo poetico di Curci restituisce o comunque evoca il senso della storia personale, fin dalle origini, fin dall’infanzia. Scrive Milo De Angelis nella prefazione che: L’infanzia percorre tutte queste pagine, con le sue scene antiche e il suo eterno «primo ottobre nel cortile della scuola», il suo giocare «a morra con le ore della notte». Ma non è l’infanzia crepuscolare del rimpianto. È una stagione vivissima che non possiamo situare nel passato, che ci raggiunge e ci supera, a volte ci aspetta. È un inizio incessante in cui siamo immersi…

D’altronde la vita intellettuale di Vittorino Curci è un costante inizio, un rinnovamento continuo. L’esordio è come artista: dopo l’Accademia di Belle Arti di Roma – allora diretta dal grande Toti Scialoja – Curci entra nel gruppo di eventualisti che negli anni ’70 si forma attorno a Sergio Lombardo, con Cesare Pietroiusti, Anna Homberg e altri ancora. Nella capitale espone le sue prime opere di arte concettuale, alla galleria Jartrakor diretta da Lombardo. La qualità della sua produzione lascia presagire traguardi importanti ma già dentro una delle sue opere – una tela bianca con al centro la scritta in corsivo amatemi – si manifesta la irrefrenabile pulsione per la parola, il logos. Che lo porterà a diventare logonauta, come egli stesso si dice, convinto del primato della poesia ma non del poeta, che ritiene uguale agli altri uomini. Il livello dei versi è alto, tanto da vincere il premio Montale per la sezione inediti nel 1999. Commista alla passione per la poesia si agita nel suo spirito creativo quella per la musica. Jazz, oppure musica improvvisata. Nelle performances alterna alla lettura dei versi l’esecuzione di brani improvvisati, con il sassofono. Inoltre si cimenta nella narrativa e infine è un valido disegnatore surrealista. Pubblica prevalentemente i disegni nel suo blog, vittorinocurci.tumblr.com, oppure su Instagram, con un ampio seguito internazionale. Il volume Poesie, a questo proposito, include il lungo elenco delle sue pubblicazioni, delle mostre, delle performances musicali, la discografia e le partecipazioni ad antologie poetiche.

Ma va detto che la vita intellettuale di Curci è soprattutto studio, lettura, approfondimento, affinamento del gusto artistico e letterario. È uomo di vasta e profonda cultura, a volte anche intransigente nel riconoscere o attribuire un valore ontologico all’arte, alla musica e alla letteratura, tuttavia la fede che vi ripone non assume contenuti demiurgici, non è moraleggiante, è piuttosto figlia di una notevole capacità percettiva. Non è un caso che questa sua sensibilità sappia individuare il valore intrinseco della migliore produzione contemporanea, anche prima che la critica dominante esprima il suo giudizio. Parallelamente si può affermare che l’atto creativo – nella parola, nel suono, nel ritmo, nella visione – sia frutto di questo profondo studio e di questa sensibilità. Straordinaria è la capacità della sua scrittura nell’osservazione e nell’elaborazione della realtà, capacità che trasferisce in versi nei quali la parola esplora il reale e la Storia ma non li documenta in modo oggettivo: piuttosto, con lessemi e sinestesie di impronta surrealista, li sublima nel senso come si è detto della “realtà pura”. O meglio, se si vuole davvero cogliere l’essenza della sua poetica, del Mito. Insomma, un umanesimo alto e potente in cui l’Uomo e la Storia trovano appunto nel Mito significati e verità altrimenti impossibili da enucleare. Il topos necessario da cui muovere l’osservazione è incarnato dalla provincia, in una elaborazione ermeneutica ben diversa e distante dalla declinazione commerciale dell’istrionica quanto improbabile paesologia, sospesa tra l’essere una moda e il contemplare la cenere, per dirla con Mahler. Nei versi di Curci invece il paese (con le sue tradizioni e contraddizioni) viene piuttosto elevato a spazio etico di conoscenza, a laboratorio di situazioni. Pur non propriamente trasfigurata in epos, la provincia esprime una rappresentazione complessa e articolata dell’esperienza e a sua volta il dato esperienziale si diluisce nella parola scritta, alla quale imprime un anelito di verità:
come auspici d’alfabeto
come sassi sbiancati dalla pioggia
le vecchie pantomime degli eccentrici
ruotano intorno al sole
ma sui boschi c’è ancora nebbia.
a queste latitudini
le notti cadono sugli orti
con lumi freddi e vapori bluastri, le lingue
di fuoco odorano di carbonella
e i fatalisti hanno sorrisi di scimmia
che dispensano senza riserva.
devo forse ricordarlo io
che l’amore dei padri si capisce
dopo, quando il cielo impalma la terra?
Perché, in una declinazione dirompente e abrasiva al limite del drammatico, la poesia di Vittorino esprime il senso stesso di un destino identitario, attraversando la memoria e con essa un percorso individuale e collettivo, fino alla sintesi, nella parola poetica che declina il Mito, dell’io storico con l’io antropologico. E quindi la parola stessa, per Curci, è esplorazione della verità come d’altro canto la verità è scandalo dentro la parola. Scriveva infatti di lui Dario Bellezza: Curci può permettersi simili verità, e trasecolare senza la paura di scandalizzare i già scandalizzabili, se appunto la poesia oggi si pone, e quella di Curci non fa eccezione, come il massimo dello scandalo. Ma più spesso sono i suoi stessi versi a spiegare lo scandalo della verità:
c’era dell’altro, cellule stellate che vagavano
nel blu di metilene, cose pensate
per un tempo che non è questo. e numeri
quantici, fotosfere, superammassi galattici.
c’era anche una punta di lancia nel costato
venga pure il tempo dei rovelli e dei malocchi
delle fionde e delle croci, ma ora sono qui
nel presto musicale di questi alberi e queste
case che guardo come fossero tubazioni
incrostate, ascolto il cigolio di una carriola
spinta da un idiota e mi sento in debito
per ogni pattume, per ogni scintilla di senso
so che vuol dire essere un teppista.
ma non ho comandi, consigli o suppliche
non mi piego al modo imperativo.
l’allegoria, in questi casi, è giustificata
dalla cospirazione dei giorni veloci
È una scrittura, quella di Curci, che offre suggestioni e “ascendenze” surrealiste, ma ne propone gli stilemi con lucidità e un’accuratezza ben lontana dalla scrittura automatica degli autori di quel movimento d’avanguardia storica. Devoto senza alcun limite alla parola, Vittorino invece non perde mai il controllo dell’atto poietico. In questo risiede la sua genialità e forse, in qualche modo, la sua particolarità. È capace di soffermarsi ore e giorni su una sola parola. Fino a quando non ne estrapola il senso, il suono, la verità. Sembra come se dietro ogni parola che sceglie ce ne fossero in fila indiana, nascoste e allineate, altre cento e quella che ci presenta le contenga tutte. Nessuna scrittura automatica, nessuna deriva, nessun sia pure minimo cedimento alla parola emozionale. Nonostante tutto l’amore per la scrittura, la tratta con chirurgica precisione. L’investigazione nella vasta foresta dei simboli, che André Breton chiariva essere il paradigma cardine del surrealismo, in Curci non altera la nitidissima definizione delle immagini poetiche. Peraltro questo va detto anche delle sonorità improvvisate che emette con il sassofono, nonché delle linee essenziali e icastiche dei disegni.
In tutte le sue declinazioni creative Curci esprime un bisogno di ampio respiro, di spaziare con la visione senza alcun vincolo di adesione a un modello statico, sia formale che stilistico. Questo è di tutta evidenza nelle performances di musica improvvisata ma è altrettanto vero anche nella sua scrittura, che per esempio può assumere toni di elegia o di lirica, distendersi in forme prosimetriche o racchiudersi nell’aforisma, purché il canone stilistico sia funzionale all’impulso sincretico della fusione tra il Mito e il quotidiano.
Ricorre all’afflato elegiaco quando scrive di un pomeriggio di sabato con la stessa / gomma per cancellare e gli stessi errori / viene il dubbio che il tempo non si stacchi / dai nostri poveri corpi e che siamo qui / per farcene una ragione – io però / mi accontento di quello che trovo, delle / due tre parole che mi restano nel sangue.
Oppure affida a una lirica intimista e introspettiva il tema della solitudine esistenziale, come nel componimento Non ero solo ad essere solo:
le domeniche sera guardavo sugli usci
tutte quelle angeline e antoniette
vestite di nero che piangevano a vanvera.
mi sentivo un treno che ferma in tutte le stazioni
avevo nutrito l’attesa pensando al futuro come
un grande noce davanti alla casa, e mi ero portato
un libro per cercarti, magari in un’isola segreta,
in una grotta oscura bagnata dal mare
era tutto così contrastato che il barbiere
zecchinetto, sobbalzando nell’orto dei nascenti
dove la parte cieca sanguinava sui miei fogli
quadrettati, smise di giocare
la vita mentale del testo era di così breve durata
che mia madre aveva un’altra – più velata – voce.
il moltiplicarsi delle strade
imponeva suoni stolti e sfacciati
In definitiva, se è vero che la Poesia è oggi consapevole della propria irriconoscibilità nel mondo, Curci affronta il problema con l’apertura a profondità che conferiscono sostanza fisica al tempo e al senso dei luoghi, appunto il Mito, che nel tono poetico assume un significato metastorico. Mentre la versificazione esprime una sorta di rivoluzione permanente rispetto alla tradizione linguistica. Tutto questo gli permette di raggiungere ciò che le cose contengono di inaccessibile alla percezione, al visibile. E soprattutto di dar voce a cose che esistono, nell’individuo antropologico, pur nella loro fragilità o se si vuole caducità. Ed ecco che dal verso promanano forme e colori, in uno scenario poetico dove si incontrano la psiche e l’universo. In questa profondità metastorica Curci trova la Poesia, senza vanto di vittoria ma solo per fermare sulla carta la parola essenziale:
albe mute ci mangiano
i sogni che facciamo.
la parola cade sul foglio
per scaricare il peso di mille storie
sembra una preghiera stare qui.
le labbra cercano in silenzio
la strada del ritorno
la notte resta impigliata nei vestiti.
fuori, non ci siamo che noi
sotto mentite spoglie