Imperfetta Ellisse: Giacomo Cerrai per Francesco Lorusso
03.11.2014
![]() L'ufficio del personale
|
|
autori: | Francesco Lorusso |
formato: | Libro |
prezzo: | |
vai alla scheda » |
Francesco Lorusso - L'ufficio del personale - La Vita Felice, collana Agape, 2014
Lo so, il titolo fa venire in mente un manuale di gestione aziendale edito da Buffetti, e invece è una raccolta poetica, che però di risorse umane, in un certo senso, parla davvero. E quell'ufficio del personale non riguarda soltanto i molti che popolano uffici e aziende, ma anche l'officium della persona dell'autore, personaggio e interprete di un disagio (sì, il disagio c'è anche in questa poesia) che si genera non tanto e non solo nell'intimo ma anche in un ambiente sociale o lavorativo in cui passiamo gran parte della nostra vita e a cui, facendo ricorso alle nostre "risorse umane", dobbiamo sopravvivere. L'idea di Lorusso prende spunto da qui, dalla consapevolezza, assolutamente corretta, che questo ambiente esterno, fatto di oggetti, schemi ripetitivi, piccole o grandi alienazioni diventi poi inevitabilmente "interno", interiorizzato, parte della nostra identità, specchio in cui si riflette la nostra vita, anche affettiva, psichica e che di converso su di essa si riverbera, anche in ambienti altri o in altre sfere.
Ma non ne fa, in senso stretto, narrazione. Se molti di questi testi sembrano frutto del rimuginare un pensiero durante qualche pausa lavorativa (e i segni sembrano essere i tanti lemmi riguardanti quell'ambito che connotano alcune delle poesie), poi in realtà l' occasione (ma non in senso montaliano: "Tra l'occasione e l'opera-oggetto bisognava esprimere l'oggetto e tacere l'occasione-spinta") diventa suggestione per un uso allargato della metafora: del lavoro come parte "eccedente" della vita, come segnale dei limiti sociali, come topos della reiterazione dei giorni o dei gesti, e quindi del tempo, mentre la vita (quella vera? quella emotiva?) trascorre. O come dipendenza.
Prendendosi qualche piccola rivincita. E quale potrebbe essere se non l'ironia, l'uso della lingua come simbolo di libera scelta e di orgoglio intellettuale, le invenzioni metaforiche che sono tutt'altro che "tentennanti e spaesate" come dice Vittorino Curci nella postfazione? Così può capitare di incontrare in questi testi accostamenti interessanti: "consensi vietati", "l'odore sbadigliante del chiuso", si parla di un legame come di un "contatto scaduto", di "salari amari", di un "sapore simulato che si sparge dai capannoni", di "menzogna prospettica inarcuata", di "mani lavorate", di "visi non più modulabili", si accenna ad un amore che è stato "corroso con le loro procedure prestampate da allegare", e così via. Se quindi, come dicevo, Lorusso non si limita a far narrazione di queste dinamiche tra sociale e intimo, c'è però in questa poesia una concretezza convincente, un'aria di sur-realtà che è agevole percepire come "vera", c'è alla fin fine un racconto a maglie larghe che lascia margini all'interpretazione. E quindi mi ha fatto piacere, perchè sono sempre stato in disaccordo sul suo essere considerato poeta "secondario", ritrovare in esergo il Pavese di "Lavorare stanca", forse un capostipite della poesia "narrata" (basti rileggere "I mari del sud"), ma mi sembra ci sia, in qualche tratto, anche Pasolini.
E quindi ha ragione Daniele Maria Pegorari quando nella prefazione accenna alla coesistenza di due libri: quello marcato, come si diceva, dal "lessico attinto alla sfera sociale", e quello nel quale "si racconta lo sfacelo personale, scandito dalle ore di un ufficio laico e disperato". Un po' meno d'accordo sulla "rivelazione drammatica" della "scomparsa del soggetto". Sia dal punto di vista puramente letterario, perchè io credo che in questi testi il soggetto, il soggetto poetante e poietico, sia ben presente e si sia riappropriato di un diritto a resistere e parlare; sia da un punto di vista per così dire politico, perché si tratta non di una rivelazione ma della buona vecchia alienazione (un concetto che andrebbe rispolverato) di cui hanno trattato molti, da Rousseau al Marcuse de "L'uomo a una dimensione", che non mi pare fuori luogo citare in questa occasione. Se la poesia di Lorusso ha un pregio (ma ne ha più di uno) è di avere avvalorato, sia pure in maniera alterna, questa monodimensionalità come materiale poetico ("Ricordami chi siamo, rientrando, / se ti lego a uno schermo piatto / è per difenderci da un contatto scaduto"), di averne fatto un vissuto raccontabile e un bersaglio, evitando di cadere in una generica lamentazione del disagio di vivere, così tanto diffusa. E' questo, questa riduzione dell'esperienza a serbatoio lessicale/emotivo e la sua fusione col quotidiano il piccolo elemento di novità di questa poesia, per quanto non totalmente originale se la si legge nell'ambito di una poesia dai connotati "politici" che ha avuto illustri precedenti. Ma comunque quel che conta in questa scrittura è non solo il grado di qualità complessiva ma anche quello, se posso azzardare, di resilienza poetica a questa dimensione. E se "adesso [che] sulla nostra pelle / non hanno più corpo le cose" è pur vero che la poesia non ha intenzione di rinunciare al tentativo di ridare loro sostanza. (g.c.)
continua la lettura dei testi qui
continua la lettura dei testi qui