Intervista a Marco Sonzogni (B. Bracci)
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autori: | Marco Sonzogni |
formato: | Libro |
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Il bello di tradurre. Intervista a Marco Sonzogni
Oggi al PoesiaBar ho incontrato Marco Sonzogni, traduttore, docente di Lingua e Letteratura Italiana presso la School of Languages and Cultures della Victoria University di Wellington, ma anche saggista, curatore di antologie e poeta.
B: Marco, innanzi tutto grazie di aver accettato il mio invito al PoesiaBar.
M: Il piacere è tutto mio, Barbara, seguo il tuo lavoro di poeta e ambasciatore della parola poetica. Sono onorato di parlare con te, da un emisfero all’altro.
B: Tu sei un traduttore di poesia affermato. Qualcuno dice che il “traduttore è traditore”. Ma la traduzione non è prima di tutto un atto estremo di amore verso il testo, considerando anche il fatto che, quando la poesia gira nel web o tra la gente, il nome del traduttore è spesso sacrificato?
M: Io vivo la traduzione, da sempre, come servizio – mi sento un servitore del testo e dell’autore che traduco. E per servire bisogna essere pieni di amore e di curiosità – nel senso, ovviamente, di curiositas – ma anche di umiltà, di consapevolezza dei propri limiti: la traduzione letteraria, soprattutto di poesia, espone il traduttore a tutti i propri limiti interpretativi e scritturali. Detto questo, il ruolo e il contributo del traduttore sono fondamentali, e vanno riconosciuti: sacrificare il nome del traduttore è una grave mancanza di rispetto… ma per fortuna, negli ultimi tempi, le cose stanno cambiando…
B: Il traduttore di poesia è anche un po’ poeta? So che tu scrivi anche poesie… come riesci a trovare il compromesso tra creatività e ascolto del testo (e del contesto)?
M: Se diamo retta a Leopardi – che, avendoci provato (con risultati che pochi sono in grado di raggiungere), giunse alla conclusione che solo un poeta può tradurre un poeta – il traduttore di poesia deve quantomeno avere un animo poetico, un apprezzamento per la parola poetica: solo così, infatti, può rendersi conto di (almeno un po’ di) quanto succede in un testo poetico ed entrare in dialogo con esso e con il suo autore.
I poeti che traducono, infatti, hanno spesso intuizioni in grado di risolvere difficoltà di ogni tipo – sintattico, lessicale, fonetico, semantico – con (apparente) facilità interpretativa e leggerezza di mano che a un altro traduttore costerebbero ben altro sforzo e porterebbero a ben altri risultati.
Detto questo, un poeta che traduce un altro poeta può cadere nella tentazione di sovrapporre (o, peggio ancora, imporre) il proprio ‘ego poetico’ a quello dell’autore che sta traducendo, finendo con il riscrivere un testo anziché tradurlo (anche se volte persino questa situazione porta a risultati positivi…).
Nel mio caso… in primis devo dire che faccio fatica a chiarmi poeta, pur scrivendo e pubblicando poesie, e questo mi aiuta a mantenere l’atteggiamento di servitore di cui ho parlato prima. Il compromesso tra creatività e ascolto del testo (e del contesto) è, a mio modesto avviso, diretta conseguenza di una disposizione interpretativa e traduttoria improntate all’umiltà e al desiderio di sapere tutto del testo e dell’autore da tradurre. Il resto, ne sono convinto, vien da sé – con tutti i dubbi e l’abituale labor limae che accompagna ogni forma di scrittura.
B: E a proposito di “contesto”, il tuo libro La speranza di pure rivederti… Clizia, Montale e l’impossibilità di dirsi addio (Archinto, 2013) racconta il rapporto tra Montale e Irma Brandeis. Quali sono i fatti di vita vera che hanno influenzato la poetica di Montale e che hanno portato al mito di Clizia?
M: Che bella domanda! Quanto tempo e quanto spazio mi dai? Montale ha sempre detto di non sapere inventare nulla, di partire sempre dal vero. Ecco, nel caso di Clizia ha detto la verità. Irma dal canto suo voleva essere la compagna di Montale e non la sua musa. Le poesie escono da questo scarto che in fin fine è molto semplice e umano. Ci sono state discussioni tra i due, litigi anche forti, amore vero, paure, esitazioni, promesse, ricatti… e forse dei due quello che non ha proprio fatto tutto il possibile affinché la storia prendesse una piega diversa è stato Montale. Avendo studiato per anni le carte di Irma, posso dire che soffrì molto per quanto successo, ma non nutrì mai rancore nei confronti del suo Eusebio… anzi, protesse con tutte le sue forze la loro storia e il loro amore dalle domande – spesso invadenti, irrispettose e presuntose – di tanti Montalisti alla ricerca ossessiva del dato biografico corrispondente al dato poetico… Ogni volta che le fu possible, Irma mandò al diavolo tutti questi paparazzi letterari… mettendo affettuosamente in riga anche i due critici di Montale che stimava e di cui si fidava: Glauco Cambon e Gianfranco Contini.
B: So che stai curando il Meridiano Mondadori dedicato al Premio Nobel Seamus Heaney, recentemente scomparso. Come è avvenuto il tuo incontro poetico con lui e qual è il segno che Heaney ha lasciato nella poesia con la sua penna, da lui stesso paragonata a una vanga nella celebre Scavare… («Tra il mio pollice e l’indice riposa/ la tozza penna. Scaverò con questa .»)
M: Il Meridiano è un lavoro lungo e di gruppo – includerà traduzioni di mani diverse, tutte però all’unisono nel fare giustizia a uno dei più grandi poeti del nostro tempo. Ci vorrà tempo, ma siamo sulla buona strada.
Il mio incontro con la poesia di Heaney? Guarda, la prima poesia di Seamus Heaney che ho letto – una sorta di serendipity: me la mandò, quando ero all’università, un amico che stava studiando alla Queen’s University of Belfast (dove anche Heaney aveva studiato) – non è inclusa in nessuna delle sue dodici raccolte. Si intitola Tractors, e ful pubblicata sul «Belfast Telegraph» del 24 novembre 1962. Leggendola ho ritrovato in una manciata di versi il mio mondo: come Heaney sono nato e cresciuto in campagna, formato dalla natura, sottomesso umilmente ai suoi ritmi e all sue regole. Ho capito che quel mondo non solo esisteva davvero ma era importante, degno di nota, degno della letteratura, degno della poesia. Credo sia questo il segno più profondo che mi ha lasciato – un segno che con il tempo e con la lettura ha preso forme e significati diversi, facendosi sempre più profondo, sempre più necessario.-
Da quel momento ho letto – e continuo a leggere – tutto quello che Heaney ha scritto e tutto quello che è stato scritto e si scrive su di lui. Averlo conosciuto e averlo frequentato per oltre vent’anni ha reso tutto più intenso e speciale, e ha ovviamente aumentato il mio desiderio, e di conseguenza le responsabilità, di servirlo in traduzione. Sono stato fortunato, ben oltre i miei meriti, a realizzare quel desiderio, e sono grato a tutte le persone che me ne hanno dato l’opportunità, te inclusa con questa intervista Barbara.
B: Tu sei insegnante di lingua e letteratura italiana alla Victoria University di Wellington. Qui in Italia come sai, la situazione è tragica: scaffali nelle librerie sempre più poveri, tanti poeti, pochi lettori e poco interesse da parte di scuola, media e istituzioni… Come sta la poesia in Nuova Zelanda?
M: La poesia sta bene qui: è fresca, si rinnova abbastanza frequentemente, è considerata, le sono dati – con le parole di Heaney – spazio e credito. Il paese è molto giovane, dunque il peso e la responsibilità della tradizione sono ancora relativamente leggeri. La cosa che mi piace di più nella poesia neozelandese è la sua matrice multietnica, e non mi riferisco solo alla lingua e alla cultura indigena Māori ma a tutte le realtà linguistiche e culturali che convivono liberamente in questo incredibile paese e nella sua letteratura.
B: Vorresti regalare agli amici del Poesiabar uno dei versi da te tradotti di cui vai più orgoglioso?
M: L’orgoglio è un sentimento che cerco di tenere a distanza in quanto è il peggior nemico dell’umiltà. Allora condivido con te non un verso ma una poesia che mi ha letteralmente spremuto quando l’ho tradotta. Ci ho lavorato mesi, studiando come un matto tutto quello su cui potevo mettere le mani che riguardava un animale che fino a quel momento avevo considerato “comune” e “innocente”: la lepre.
Nella Bodleian Library di Oxford è custodito un manoscritto in inglese medievale (Middle English): MS. Digby 86 fol. [168.sup.r-v]. Si tratta di 64 versi redatti in distici rimati tra il 1272 e il 1283 e raccolti con il titolo Les Nouns de vn leure en engleis (I nomi della lepre in inglese): un vero e proprio catalogo di appellativi — 77, quasi tutti peggiorativi e quasi tutti hapax legomenon — con cui apostrofare una lepre qualora capitasse la sventura d’imbattervisi.
In questa lunga lista sono elencati attributi desunti da leggende, storie e dicerie medievali provenienti da tutta Europa che l’anonimo autore esorcizza negli ultimi quattro versi in cui la paura lascia spazio alla speranza e… all’appetito. Il tutto genialmente incastonato in una serie tambureggiante di rime impossibili.
Con l’aiuto di Margaret Laing, esperta d’inglese medievale e interprete dei nomi della lepre, ho potuto leggere e capire questo testo, e di conseguenza tradurre in italiano e in rima la traduzione in inglese e in rima di Heaney. La quartina finale in calce alla traduzione l’ho aggiunta di getto, in memoriam, pochi minuti dopo avere appreso che era morto.
Seamus Heaney
I nomi della lepre
Chiunque la lepre incontrerà
malconcio sempre ne uscirà;
se a terra non avrà posato
quello che dietro si è portato —
arco che sia o bastone —
e col gomito impartirà benedizione
e con voce pura e pia
reciterà questa litania
della lepre a lode e gloria.
E sarà tutta un’altra storia.
“Lepre ovvero: leporella,
bugiarda, grandicella,
sora Del Lepre, salterella,
scattante, monella.
Battistrada, muso bianco,
scansafossi, culo sporco.
Voltafaccia, imbrogliona,
smamma-via, rosicona,
menagrama, cialtrona.
Coda svelta, scampaforca,
fila-rugiada, erba-in-bocca,
tira-tardi, la-fa-sporca.
Sguardo fisso, gatta di bosco,
gatta di ginestra, sguardo losco,
appostata, occhio fosco,
stralocchia, sbircia-sbieco
e poi ancora salta siepi.
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