L. Gattoni per Pianzola
![]() Il ragazzo donna
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autori: | Luisa Pianzola |
formato: | Libro |
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Testo critico di Lorenzo Gattoni sulla poesia di Luisa Pianzola pubblicato sull’antologia Poesia in Piemonte e Valle d’Aosta, a cura di Emanuele Spano e Davide Ferreri, collana Il Cantiere, Puntoacapo Editrice, novembre 2012, pp. 448, euro 30 (Tra i poeti presentati, Giorgio Bàrberi Squarotti, Guido Ceronetti, Sandro Gros-Pietro, Angelo Lumelli, Tiziano Salari, Mauro Ferrari, Paola Mastrocola, Luisa Pianzola, Andrea Temporelli, Silvia Caratti, Tiziano Fratus, Federico Italiano, Enrico Marià).
Referti animali. La poetica notturna di Luisa Pianzola
di Lorenzo Gattoni
Un anonimato da cui è bandita la soggettività se non come ricordo, prima che la condizione umana si riducesse a quella di una merce: questa sembra essere la realtà del nostro quotidiano. E questa è sicuramente la realtà quale emerge dalla poesia di Luisa Pianzola, in particolare dal recente Salva la notte (La Vita Felice, 2010): l’uomo ridotto a un oggetto in balia di un tempo che lo schiaccia e di altri oggetti che lo assediano e lo feriscono, in attesa di una salvazione. Il titolo medesimo, sottilmente ambiguo, lascia intendere il presupposto implicito della raccolta, dichiara la nostra umana condizione di condannati. Da cui l’esigenza di salvarsi.
Pianzola non ricerca una affermazione di “poeticità”, il punto di equilibrio formale tra parola ed emozione, persegue invece un livello espressivo più alto che corrisponde a una esigenza di comunicazione di tipo superiore. Perché parla di noi, i condannati, siamo noi gli abbandonati, gli infortunati, siamo noi ad avere bisogno di consolazione. La sua è una poesia non sul dolore ma di dolore.
Questo collante unitario, che plasma e articola l’opera, è reso perfettamente a partire da una condizione impersonale (si vedano alcuni versi programmatici: «Mi sentirei a posto con la coscienza,/ impersonale collettiva come ho sempre cercato di essere,/ un buchetto insulso nella folla affaccendata militante./ Che orrore, dio, la parola io.» [p. 71]) e la stessa scrittura sembra la redazione di un referto che registra, elenca, cataloga con un tono apparentemente piatto, distaccato. Ma alla condizione impersonale della scrittura corrisponde una condizione impersonale dell’esistenza, quella che l’essere umano vive oggi. Nei versi di Pianzola insiste una condizione domestica dell’uomo e della scrittura, ove per domestica s’intenda un contesto minimalista, privato, lontano dagli assalti e dai protagonismi della storia. Siamo stati qualcuno, dice l’autrice, e di questo qualcuno siamo oggi portatori di un ricordo senza averne memoria personale. Siamo insomma in presenza di un vivere malato, di una devastazione sociale così ramificata nella microfisica delle relazioni e così plateale nel palcoscenico della rappresentazione pubblica e pubblicitaria da essere assurta a banalità quotidiana, grottesca e tragica nello stesso tempo. Una morsa fatale per fuggire dalla quale, paradossalmente, il poeta si trova nella condizione di farsi egli stesso animale (come già si annuncia nel precedente La scena era questa, Lietocolle, 2006: «Ero un cane in fin di vita./ Ero un cane in un cortile in fin di vita/ ma poi venivano le rondini i guardiani/ e il cane che ero non moriva/ […] // E ho terra tutt’attorno,/ e campi da guardare.» [p. 13]), cioè per poter sentire ciò che il poeta in quanto uomo non può più sentire, per mantenere la propria sensibilità la persona umana deve diventare un animale.
Noi, esseri umani, siamo così retrocessi a una condizione dove vige una coscienza di sé irriflessa: si ha coscienza di una condizione senza sentirla né comprenderla, semplicemente essa esiste. Contestualmente, non esiste genere, perché la condizione animale tratteggiata nell’opera di Pianzola neutralizza la diversità di genere, determinando un ambiente neutrale che da un lato istituisce uno stato sterile, di vacuità fine a se stessa, e dall’altro uno stato anestetizzato, dove il sentire è solo una vibrazione elettrica su un circuito nervoso incapace se non oramai impossibilitato a una qualsivoglia reattività. Il corpo è pertanto centrale, non a caso in Pianzola tutto è fisico, concreto, corporale (Corpo di G., Lietocolle, 2003, è il titolo di una precedente pubblicazione). Ed è evidente come, per compiere questa operazione di autotrasformazione da persona umana ad animale, sia necessario essere al massimo grado della consapevolezza: l’autrice, il cui temperamento pittorico conferisce alla scrittura tratti vividi e larghi, decisi e profondi, è infatti capacissima costruttrice, la sua è una poesia della regolarità, una paziente, precisa e meticolosa costruzione di una scenografia e di una scena. Per questo il lavoro svolto da Pianzola, che viene da studi d’arte e di architettura, si può dire di campitura, ovvero di delineazione del fondale, dello scenario sul quale poi l’autrice fa agire il movimento di corpi e oggetti. Anche a questo scopo serve il tono colloquiale, quasi monocorde, da registrazione, da voce fuori campo, antilirico ma senza diventare narrativo. Non è, la scrittura di Pianzola, un esercizio oggi un po’ di moda di prosa poetica; anzi, essa è decisamente moderna per la capacità di far parlare e di descrivere la dinamica di un soggetto-oggetto smembrato, svuotato, trasformato, “animalizzato”, e per la capacità di portare nella pagina e nei versi ampiezze di mondo e di tempo.
Abbiamo quindi la realtà e la rappresentazione; l’uomo e gli oggetti che lo “descrivono”; la merce che ci assedia e l’immagine. Nello sviluppo del testo, si parte da un punto di osservazione che annota ed enumera, passando per un diario della estraniazione e dell’annullamento della persona, per la distruzione-trasformazione delle cose che resistono oltre il soggetto, fino a incontrare il mondo delle merci che tutto fagocita. La merce che si sostituisce alla persona, la persona che felicemente si lascia sostituire dagli oggetti che diventano balocchi. Merce che diventa immagine, l’immagine che sfuma e svanisce. Ma nonostante tutto è esistita, esiste una realtà, impastata di passato sia personale sia storico. Una realtà che tende al silenzio, ancora una volta alla cancellazione. Così gli oggetti ne divengono testimonianza e i comportamenti una imitazione. L’opera poetica di Pianzola viene così ad assumere un senso anche politico, oggi diremmo “biopolitico”, sulla realtà e sulla rappresentazione: minacciati da entrambe, ci troviamo tra due voragini, vediamo per barlumi, per abbagli, per visioni, accecati dalle merci e dagli oggetti, tra i quali ci sono anche gli essere umani medesimi, ci siamo noi.
In conclusione, la condizione notturna di cui scrive Pianzola è contemporaneamente luogo di salvezza, una invocazione, e di approdo. Perché la nostra condizione solare, la chiarità del pensiero e dell’agire dell’uomo moderno sono state sbranate dal buio, dall’oscuro, dall’irrazionale.
Siamo dunque al buio e non vediamo più, stretti tra il vedere doppio di una realtà che si è spezzata («… l’adulto/ vacilla, scricchiola, cede, vede doppio.» [p. 13]) e «il cielo/ [che] è un fondo incatramato» (p. 15): per questo secondo Pianzola occorre essere come animali, per questo dobbiamo stare al livello del terreno, dobbiamo tastare, annusare, rovistare. Nel buio, nonostante tutto e a dispetto di tutto, è necessario guardare.