L. Minola su Pecora
![]() Nel tempo della madre. Epicedio
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autori: | Elio Pecora |
formato: | Libro |
prezzo: | |
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di Luca Minola
articolo pubblicato su La Recherche
Per parlare del nuovo libro di Elio Pecora, il poemetto “Nel tempo della madre”, uscito qualche mese fa per la casa editrice La vita felice, bisogna partire un po’ da lontano. Negli anni Ottanta erano uscite su “Nuovi Argomenti” le “Nove poesie per la madre” confluite nell’eccellente volume pubblicato da Empiria nel 1997 dal titolo “Poesie 1975 – 1995” dove si chiarisce già pienamente il fortissimo legame del poeta con la Madre, le ansie, le paure verso di lei, verso la sua figura. “Ti toccherà di perderti,/ sarà un giorno dei tanti,/ dove si persero le voci amate;/ da sola scenderai,/ è norma inesorabile,/ dove scesero le ombre toccate;/ quei silenzi, quel buio,/ per un poco ti fingi,/ sul loggiato, nel vento, d’estate.” Questi versi donavano una sicurezza nella pronuncia, una forza pacata legata al vivere. Dopo quasi vent’anni la figura della Madre torna a farsi “voce” nella parola poetica di questo autore. Il poemetto “Nel tempo della Madre” non solo è un canto d’addio, di lutto ma è un raccontare la vita. Una vita. Saperla cogliere in ogni aspetto, in ogni sua pronuncia. E’ chiedersi costantemente quale sia il luogo di un addio, quale sia la mancanza. Pecora ha sempre basato la sua poetica sulla parola diretta, vera, pronta a farsi voce di perdite, addii, voce delle ansie dell’uomo nel suo bastare a se stesso, nel suo volersi e cercarsi.
Nel libro c’è tutto questo: “Che n’è di quella di un tempo?/ Dov’è mai stata? ma quando?/ A sera chiamava la luna/ chiara, assorta sugli orti./ Che n’è dei piedi leggeri?/ che dei capelli intrecciati?/ L’arco dei denti nel bicchiere,/ ecchimosi sugli avambracci,/ livido il cranio, le dita/ palpano il fazzoletto,/ le pupille velate/ non di riso o di pianto./ I figli, gli amici dei figli/ hanno contato per lei/ cent’anni, ad aprile, un sabato:/ come una meta, un traguardo/ il premio di questo disfarsi/ in un torpore che annaspa./ Erano in tanti, una festa/ solo per loro. Una resa/ senza domande e ragioni./ Ma tutti gli altri? Spariti./ Pure vengono in tanti/ nella sua stanza e li chiama.” C’è nel pieno del lutto la mancanza dei piccoli istanti, delle tracce che formano una giornata intera, una vita intera, questo essere stati terreni, questo essere stati legati alle misure di un corpo. Quindi nella morte la perdita di un tutto che ritorna costantemente nelle metamorfosi: “ Non hanno numero i giorni,/ non ha più alba la notte,/ là nel cupo fondale/ le terribili porte./ L’acqua fresca, il succo/ dell’aspro limone,/ i versi della romanza/ “Quel sogno scolpito/ nel cuore…..”/ e nel “mai più” la certezza/ di interminati domani./ Tutto è stato ed è ancora/ se trema mentre riaffiora,/ se tiene mentre confonde:/ un fiume alla deriva,/ il vortice di un lago,/ un legno in corsa sulle onde.”
L’inizio del secondo paragrafo del poemetto parte sotto il segno del mito: “Nacque nel segno del Toro/ melanconico, torvo./ Il nome, estratto fra sei,/ tutti di santa e padrona,/ fu di colei, la più bella,/ per cui dei ed eroi/ con tanta furia assaltarono/ le mura salde di Troia./ Prima indesiderata/ ( le sorelle ventenni/ mescolavano cenere/ nei cibi della madre gravida)/ fu subito prediletta,/ la vezzeggiata.” Per poi continuare nel racconto, la casa, i luoghi (una campagna ormai scomparsa)
dell’infanzia e della giovinezza della madre: “La casa era il regno sicuro:/ le scale, i cortili, i granai,/ le pile di pietra dell’olio,/ le logge, gli armadi, gli odori/ delle dispense e dei tini,/ le stalle, i canili, i pollai,/ l’inverno dei lupi, il cinghiale/ di carni frolle, dolciastre,/ ucciso fra i meli e le arnie./ Voli fra i rami squittii,/ i fichi, i peri, le ortensie,/ il nespolo, i melograni,/ le rondini sulle cimase,/ i greggi, gli scampanii/ prossimi, dietro le siepi.” Tutto ormai è ricordo, memoria, impronta lasciata e mai più perduta, se non nel tornare nelle vite degli altri. Ecco quindi la nascita stessa del poeta, descritta, raccontata come l’inizio di un rapporto infinito e non ancora compiuto, l’inizio di un grande viaggio : “Una Domenica, all’alba,/ le campane a distesa,/ nacque il figlio, l’eletto/ dopo la pena e il silenzio./ A quel bimbo la madre/ si mostrò uguale e compagna/ nell’aspro amato viaggio/ che non s’era ancora compiuto.” Una fortissima unione del “Canto” unisce Pecora alla Madre, una voglia intensa, un canto melanconico, una nenia continua per provarsi la voce. Si parla anche della sofferta lontananza del Padre negli anni della guerra per i suoi continui viaggi in mare: “Andava per luoghi remoti,/ inaccessibili, vuoti,/ dietro il suo canto./ Che mai s’era promessa/ se al figlio consegnava/ un’ impossibile attesa?/ L’uomo dagli occhi azzurri/ andava per mare,/ ritornava distratto,/ tornava per ripartire./ Un altro figlio nacque/ e dell’incauta alleanza/ fu il testimone, ignaro/ l’allegra devianza.” I tempi della Madre rappresentano anche il resto del mondo, i fatti consegnati alla storia, quindi: le due guerre mondiali, la dittatura, l’emigrazione verso l’America. Le vicende del mondo si intrecciano con la vicenda umana. Si toccano, vanno in comune nello stesso buio: “Che l’ha toccata del mondo?/ l’atomica su Hiroshima,/ i terremoti, le guerre,/ la morte delle altre sorelle,/le perdute occasioni/ per capire se un’altra /poteva chiamarsi vita,/non sentirsi smarrita/nella sua stanza chiusa,/nel suo letto deserto,/col marito in viaggio/fra cielo e mare aperto?”. L’infelicità umana sta nel non riuscire a dire completamente il vissuto, nell’impossibilità a parole di essere esatti, di confermare un accaduto, saperlo rivivere, poterlo rivivere. Impossibile poter dire gli odori, gli umori, le temperature, i movimenti mentali, i dolori, le gioie, esattamente quello che si è visto. Tutto fermo nell’istante vissuto, nell’eterno presente che chiamiamo realtà. La vita come un sogno, un gioco, una continua ricerca, una metamorfosi di ogni elemento. La difficile composizione delle simmetrie. Il poeta non può che ricordare, tentare con parole esatte di dar senso a questa continua mancanza: “E tutto il resto che è stato?/ Le ansie, le febbri, i ritorni?/ Che n’è delle notti,dei giorni/ trascorsi, che delle attese?/ Un sogno confuso, un cammino/ per luoghi appena intravisti,/ dentro ogni voce un richiamo./ Il santo bambino pesca/ il cuore di rosso corallo,/ il canto del gallo/ nell’aria fresca,/ le vigne sotto il Vesuvio,/ i giacinti di Lero, il pesceluna a Zonghi,/ la luna oltre il sentiero./ Tutto qui nella stanza/ dove la luce stinge/ già a metà del mattino./ E’ tutto e così poco,/ ma questo tempo è dato./ Pure da questo poco/ non vuole partire,/ se pure è un sogno, un gioco,/ non deve finire./ Se tutto fosse una prova/ da ricominciare?/ Una commedia in canto/ con lieto finale?” Tutto ritorna, questo è dato, questo si sa, ognuno ha da attendere la propria partenza, l’ora giusta fino a che è dato restare. E ci si accorge come tutto sia fragile, quasi inesistente e leggero, spazzato dal vento. “Si sono traditi entrambi,/ il figlio e la madre./ Lei, serrata nel corpo,/ sorveglia atterrita/ il suo bagaglio vuoto,/ la promessa scaduta,/ pure ancora sconosce/ l’ultima uscita./ E lui, mentre grida che tocca/ a ciascuno il morire,/ misura il niente che può,/ il suo gramo capire./ Nemmeno placa il dolore/ la stentata preghiera/ che muove il silenzio./ Sarà novilunio stasera./ Qui non finisce la storia,/restano fuori/ molte altre storie/ di contentezze e di errori./ Pesca il bambino/ il cuore di rosso corallo,/ il sole farà ritorno/ chiamato dal gallo,/ stanotte, forse domaniAggiungi un nuovo appuntamento per domani,/ si schiuderanno le porte/ verso quel niente del niente/ che chiamano morte.” Il rapporto fra Madre e figlio è troppo forte, provoca incomprensioni, rabbie, ma anche molto amore, forse il più difficile da comprendere ma quello più vero. La storia non finisce mai, continua, vive in ogni altra storia, nella semplice azione del bambino alla ricerca di qualcosa di prezioso: un corallo rosso. Un’immagine che rappresenta tutta la mancanza e la felicità dentro ogni attimo vissuto, dentro ogni azione compiuta, che descrive il vivere; lo rende un’esperienza unica. Infine un aspetto molto interessante della narrazione del poemetto, che si riscontra anche in un lavoro precedente di Pecora “Per altre misure” uscito per San Marco dei Giustiniani, è il lavoro teatrale dietro al testo. I personaggi sono mossi dall’autore in modo perfetto, tutto è dosato nella difficoltà dei contrari. Figure su un palcoscenico arduo e intricato: quello della vita. Inoltre molte delle ambientazioni dell’intero corpo poetico di Pecora raccontano il luogo chiuso: la stanza, la casa, il recinto, il corpo stesso; luoghi per eccellenza da dove partire verso l’apertura continua sul mondo. Quella di Elio Pecora si riconferma come una delle poetiche più intense e vere degli ultimi decenni; la sua originalità nel dar voce alle ansie, alle mancanze, alla ricerca continua dell’uomo in se stesso, rende il suo lavoro poetico compatto e sicuro.