M. Ercolani su Macciò
![]() Abitare l'attesa
|
|
autori: | Francesco Macciò |
formato: | Libro |
prezzo: | |
vai alla scheda » |
Articolo su Punto. Almanacco della Poesia Italiana (nro 2/2012, Puntoacapo ed.), che sarà presentato a Milano nello Spazio LVF il 22/6/12
Una via di inappartenenza
In una sezione di poetica (a più voci) del suo ultimo libro, Abitare l’attesa (La Vita Felice, 2011), Francesco Macciò scrive: “…il poeta non ha che il nulla davanti a sé, tutto è maceria dietro di lui: non vedente ma ‘veggente’, sente voci che lo mettono in cammino, ha visioni che ‘dettano dentro’… La poesia nasce dal ricordo di queste visioni, di queste voci…”. Questa scrittura rispecchia in modo esemplare e severo, l’idea, tutta contemporanea e sempre inattuale, di una poesia che ospita, nella sua musica, frammenti casuali ma rigorosi, cercando se stessa dentro un suo “costruire decostruendo”. Macciò restituisce fierezza alle ombre malinconiche che incontra, alle voci fluttuanti che trascrive e che gli arrivano dalla memoria privata e storica, dalle riflessioni poetiche, dalle considerazioni sociali e politiche. Sintomatici e originali gli “Ink tablets - biglietti lignei da Vindolandia sul finire del secondo secolo”: tra il 1973 e il 1992, in un avamposto romano scozzese, vengono trovati dei foglietti lignei preparati per la scrittura ad inchiostro, che descrivono la vita di frontiera dei soldati. Ispirandosi a quei foglietti reali, Macciò reinventa delle poesie apocrife, sorprendenti, da ultima Thule, dove emerge il concetto di una poesia “inattuale, estromessa, clandestina”, che resiste alle ingiurie del tempo, benché pronunciata da vittime e da perdenti: “Non mi restano che poche parole / e questa voce che non riconosco…/ poche parole soltanto / in coda a quelle come sempre attese / nelle bussole segrete dei dispacci, / nel vuoto delle consegne”.
Ma anche dalle altre sezioni del libro, Di terra, D’acqua, D’aria, In transito, Inappartenenza, la voce del poeta emerge netta a descrivere lo scacco personale, la delusione storica, la vibrazione dell’anima. C’è un’ombra austera dietro questi versi classici e scolpiti, che ricordano la scontrosa eloquenza di una poesia ligure di caproniana memoria, ma anche la dolcezza sottile e ritmata di certe visioni alla Biamonti.
Questa “poesia potente, equilibrata e come intarsiata a bassorilievo sul fondo” (Fantato), ci mostra la nostalgia dell’antico e la disperanza del futuro. Amorosa e mai placata (“Forse è incisa una parola / nel capogiro delle voci / è inclusa una cifra che in noi / non chiude tutto l’amore”), ha in sé qualcosa di naturale e di grave, un suo intimo e severo dolore (“la poesia esilia il poeta nell’inappartenenza, in uno sradicamento che lo espone ogni volta a un’attesa di esistenza” e allora il poeta, da miles, da sentinella di un esercito scomparso, deve “abitare l’attesa”), come recita il titolo del libro.
Macciò vuole restare, nella pronuncia della sua voce, dell’incisione dei suoi versi sul foglio, testimone. Attraverso un parlare alto, fatto di versi che si ricorderanno (“nulla può essere escluso, purché trovi accesso alla memorabilità di un verso”). Cerca sempre una intensa, penetrante pienezza ritmica, e questa pienezza è sempre un atto etico, che dà sostanza ai buchi delle cose, al vuoto dell’essere (“dove ogni cosa è un bordo opaco, / un ostinato batticuore”).
Poesia quotidiana ma mitica e arcana, ispirata ai Quattro Elementi, invasa da una sua nostalgia di luce, da una accoratezza severa che, pur confessando la sua inadeguatezza alle cose del mondo, appartiene al rigore che la determina e alla curiosità che la spinge verso mete ulteriori: (“Il poeta è su queste due divergenti strade: la prima, che conosce, è quella falsa; la seconda, che non conosce, quella vera”). Poesia atonale ma classica, mai prefabbricata e prevedibile, dolente e straziata, fiduciosa nella “resistenza sovversiva di una musica”, di una parola che rimanga come traccia, come incisione runica.
Chiudo questa breve nota con i quattro versi di Ink tablets che chiudono la sezione, testimoni di una malinconia, non di una resa.
“Ma sta per finire / il mio turno di guardia, il dio / del Sonno mi assale, s’inghiotte / la mia mano pesante:”
Quella stessa mano non esita, nella sezione finale, a evidenziare un progetto di scrittura:
“una partenza, un percorso, un punto di arrivo sono definibili in una costruzione di parole, nel prodotto di un sentimento o di un sedimento. Invece laddove sono voci, visioni a trasportare, è via di inappartenenza, percezione inesauribile da cui scaturiscono forme nuove, indefinibili...”
Il progetto di percorrere una via di inappartenenza, dove non si conosce la rotta, dove non si sanno le tappe, ma ascoltare le voci udite nel viaggio, le concrezioni della memoria, i confini e i non confini della nostra esistenza, diventa il compito, fluttuante ma rigoroso, del poeta contemporaneo, erede di antiche musiche e sismografo di ritmi nuovi.
Marco Ercolani, Almanacco della poesia italiana 2011, Puntoacapo, Novi Ligure, 2011