Maria Grazia Amati per «La ferita celeste» di Silvio Raffo
30.11.2021
![]() La ferita celeste
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autori: | Silvio Raffo |
formato: | Libro |
prezzo: | |
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“Labirinti dell’impermanenza”, questo forse il sottotitolo o un ulteriore titolo della raccolta di poesie Ferita celeste che Silvio Raffo pubblica nel 2019 per le edizioni Vita felice.
Ferita di cui invano cercheremmo il segno visibile, sostanziale — come l'Autore precisa già nella citazione a esergo della raccolta —, e tuttavia fonte d’infiniti segni poetici. Poesie come perfette composizioni musicali. L’Autore le avrà ideate seduto allo scrittoio o di fronte alla tastiera di un pianoforte, prima muto, o pizzicando le corde di un raro violino?
Composizioni perfette sgorgano da un’invisibile ferita che ci tiene ben attenti e inquieti nella lettura. La perfezione compositiva non ci acquieta, il dolore dagli orli dorati della prima quartina c’immette in un’elaborazione non facile, non comoda. Il pianoforte sommessamente grida, il violino stride fra “il pugnale che incide la ferita” e “l'ala del celeste tessitore”.
Entriamo così, leggendo, nei labirinti dell’impermanenza, ne percorreremo le pagine, e non ne usciremo, neppure quando riporremo il libro, chiuso, sullo scaffale. Il labirinto è il luogo dell’impermanenza per eccellenza, tutti vorrebbero uscirne, ma perdendoci fra le sonore pagine di questo libro, capiamo che l’impermanenza è una condizione alla quale non c’è rimedio: “L’incessante logorio del mare fra due rive…” .
Ed ecco la “contraddanza”: joie de vivre e repentino sconforto, questo il ritmo tagliente di una danza fuori dal gregge, inadatta al luogo comune. Una danza fra contrasti e contrari che non si annullano, ma compongono un'impossibile e dolorosa alternativa: “... Ma una vita senza pena/non si addice al tuo destino/Non vorrai scialba e serena/la discesa del cammino...”.
E ci disorientiamo vieppiù fra le righe di questo labirinto poetico, quando c’imbattiamo in specchi ingannevoli fino all’alterità. Della verità, quella facile a dirsi, resta solo l’inganno. “Noi sirenidi non guardiamo il mondo da umani... increduli scrutiamo da prospettiva aliena/l'assiduo affaccendarsi della farsa:..”. La prospettiva aliena, quella di Giotto o di Piero della Francesca o di Dante.
Sì, sulla terra vivono alcuni alieni, fra essi Silvio Raffo. Sirenide o liocorno, quest’ultima l’immagine che ci propone l’Autore come risultato del suo Identikit. Specchi disobbedienti propongono immagini stranianti e straniere, prospettive labirintiche inseguono l'altrove che rimbalza fra “echi di ritorni impossibili”. E la ricerca mai si arresta in questo fastoso labirinto. L’isola bramata resta un miraggio che resiste “alle illusioni di ogni viaggio”. Il miraggio spinge la ricerca perenne, che mai si placa. E non si tratta della ricerca dell’uscita, chi ne esce muore o cagiona morti, ma della ricerca della via, districando “un ordito in sé fittizio/a colpi d’ala, e il bandolo a ritroso/svelare senz’alcun accecamento”.
“Quanto inutile spreco di dolore/quanti fiumi di lacrime versati/quanto tempo perduto, quanto amore/dissolto, quanti sogni disperati…”: così equipaggiati tentiamo un approdo, quando il tempo impietoso (Krònos achàritos) non concede rinvii, tempo cronologico, tempo di mummificazioni, tempo artigliante che consuma. Ma un altro tempo (kairòs) ci “mostra vie di fuga”, “con lui risaliremo dalla valle”. Verso il paradiso, forse?
A pagina 51, nella sezione “Araldi della luce”, troviamo una definizione davvero singolare del paradiso, per l'appunto. “Là dove c'incontriamo è l'irreale/Altrove del Non Luogo, l'inviolato/margine di una landa immemoriale,/il Paradiso perso e ritrovato". In questa definizione, o suggestione, di paradiso non leggiamo né ideologie religiose, né ideologie della colpa e della pena, e tantomeno nessuna localizzazione possibile. Un margine su scorcio d'infinito. Labirinto e paradiso: una falsa alternativa, non possiamo scegliere di stare all’inferno o di stare in paradiso. Piuttosto stiamo all’inferno e stiamo in paradiso, lungo la dritta via.
Nel labirinto l’infernale attesa, una sezione del libro s’intitola appunto Poema dell’attesa. Attesa di cosa poi? Immisurabile l’attesa, l’orologio è ormai senza lancette. A che servirebbero quelle lancette per un tempo che l’Autore ci dice “ha sospensioni intermittenti e bruschi scatti di accelerazione”. Tempo psichico, direi. Non il tempo ordinario di contorti orologi alla Dalì, ma tempo d’istanti eterni, di intervalli come fratture. Tempo latino, che risente di un etimo che lo porta verso il taglio.
Impermanenza/attesa: condizioni labirintiche. Attesa: “Ma di che? Non esiste mutamento/né speranza di qualsivoglia evento”. Disperare è tuttavia sempre un modo di sperare, di più, la speranza trova nella disperazione un rilievo ancora maggiore: “Io sono l’eremita/che dal chiostro murato/chiede al cielo stellato/sorsi di eterna vita”. E non è certo una richiesta da poco. Chiostro murato, sempre labirinto.
“Nelle acque degli oceani del mondo/s’incontrano le cancellate scie…”. Paradossale questa cancellazione: l’oblio preserva un passato che con grande finezza d'ascolto l'Autore definisce Passato eventuale, titolo di quella che, per me, è forse la poesia più bella. Un passato virtuale, senza fatti da spiegare, nel rimpianto insanabile di ciò che non è stato, di ciò che avremmo desiderato accadesse. “Scrivere il desiderio”, questo si propone l'Autore. Compito impossibile, direi, ma pretesto d'infinita scrittura. D'infinita poesia.
Il labirinto infatti, e non la via facile, provoca la scrittura. Abbagli, miraggi, “astute finzioni/fantastiche utopie/crogiuolo di emozioni/ per scrivere poesie”. La vita “che si scrive/è divino liquore”, la vita che si vive, invece, ha “un amaro sapore”. Solo quando si scrive la vita trova comunque la qualità, esce dall'umano e diventa vita da sirenidi, vita di eccellenza e di eccezione.
“Sola certezza la parola”: in un breve aforisma, leggo la sconfitta delle ideologie che vorrebbero la certezza nell'essere o nel pensiero, nel tempo o nella natura.
Queste poesie cantano l'impossibile scelta. Cantano l'alto e il basso, il precario e l'eterno, speranza e disperazione, inferno e paradiso. Ed è una canzone struggente che tuttavia rilascia un'indicazione precisa in merito a ciò che conta “... io sopravvivo/soltanto in virtù di ciò che scrivo”.
Tanto ancora ci sarebbe da scrivere in merito alle poesie di questa raccolta. Per esempio, quelle della sezione “Araldi di luce”, evocano, in me lettrice, elaborazioni e note in merito all’insegnamento: il “marchio dorato”; il capolavoro plasmato “non per smania di elogi né di alloro/ma per adempimento di missione”. Lo scacco del pigmalionismo, che ci sembra di leggere in queste poesie, pone ancora più in rilievo la bellezza di una missione, l’insegnamento, che già Freud qualificava come uno dei mestieri impossibili.
Quindi, alla prossima, magister evergreen!
30 novembre 2021
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